L’ALGEBRA DELLA VITA
– LIBERE ASSOCIAZIONI –
Il posacenere della Diane, stracolmo di cicche e carte di caramelle, esalava un odore di polvere e plastica riarsa. Le dita di Chiara vi spinsero dentro, con forza e ostinazione, l’ennesima sigaretta fumata a metà. Il cassettino nero pieno fino all’orlo la risputò fuori di scatto e la lasciò lì, a penzolare nell’aria. Chiara continuò a guidare, ma un angolo della bocca e un tendine del collo si contrassero nella tetra pantomima di un sorriso. Provò a fissare la strada, cercò di concentrarsi sulle traiettorie ideali con cui affrontare le curve, tentò di imporre allo scoppiettante motore un’andatura fluida, regolare. Ma la cicca ciondolante aveva un potere ipnotico. Reclamava uno sguardo, pretendeva un pensiero. Chiara la fece rientrare a poco a poco nel suo campo visivo e la prese di mira con la coda dell’occhio.
Scoppiò a ridere. Un riso vero stavolta, possente e prepotente, partiva dallo stomaco e le squassava il busto. Le scosse irregolari di un sisma irrefrenabile le facevano oscillare i seni e le ciocche cotonate dei capelli. Diede un’occhiata fulminea allo specchietto retrovisore. Dietro di lei, per fortuna, non c’era nessuno. Nessun automobilista ficcanaso la tallonava in quel momento. Meglio così. E in ogni caso, in quei frangenti, anche se fosse stata sorpresa da occhi scrutatori non avrebbe saputo trattenersi. Anzi, forse avrebbe riso ancora più forte, e, se possibile, con più gusto.
Dopo qualche secondo sentì sulla lingua le scaglie di metallo liquefatto della ragione. Il siero asprigno si mischiò alla saliva e le scese nella gola goccia a goccia, impastandola ed irrigidendola. Continuò a ridere, ma prese a riflettere. Guardò il segno del rossetto rosa sul filtro della sigaretta. Perché si era passata sulle labbra quel colore orrendo? Perché si era truccata ed infiocchettata come una bambolotta adolescente che vede il mondo con gli occhi di Candy Candy e prende nota delle memorabili esperienze quotidiane segnandole sul diario dei Puffi?
Le venne voglia di fare una bella, imprevedibile e proibitissima inversione a U, sperando magari che sopraggiungesse un prevedibile imbecille a bordo di un bolide lanciato a duecento all’ora. Non lo fece. Un po’ per pigrizia e un po’ per curiosità. Voleva vedere come sarebbe andata a finire quella giornata.
Il pomeriggio in cui si era iscritta al Concorso di Bellezza “Volti Nuovi per il Cinema” era rientrata nel suo appartamento domando a stento le gambe. Le sentiva molli, indocili. Il cervello centrifugava i vapori di dozzine di boccali di birra che non aveva bevuto. Si sedette sul suo divanetto da single, poggiò la gamba destra su una pila di libri già avidamente divorati e strinse entrambe le mani attorno al ginocchio sinistro accostato al petto. Si mise a cercare. Rimuginò a lungo tentando di individuare una spiegazione plausibile per la sua decisione.
Alla fine trovò un appiglio nel filo sottile di una motivazione sospesa tra la fredda statistica sociologica e l’orgoglio di un rigurgito di femminismo. Si era iscritta a quell’assurdo concorso per dimostrare al mondo che le ragazze non sono tutte uguali. Ecco sì, non c’erano dubbi, era questo che l’aveva spinta a mettersi in viaggio su quella che aveva sempre considerato un’umiliante gabbia da zoo, un carrozzone ambulante per procaci scimmiette da baraccone.
Certo. Aveva trovato la chiave per risolvere l’arcano. Il suo intento era quello di preservare la varietà biologica, la biodiversità, anche nel più omologante e degradante degli habitat creati dall’uomo, inteso, in questo caso, come individuo di genere maschile.
Forte del suo credo e pervasa dalla luce della salvifica missione, si era presentata alle preselezioni. Era stata inserita nel novero ristretto delle elette. Aggrappandosi con la mente al marmo saldo della sua fede aveva resistito allo schifo, concedendo di volta in volta i propri favori ai padroni delle discoteche in cui si erano svolte le gare provinciali e regionali. Aveva serrato gli occhi per non vedere i loro capelli impomatati di brillantina e le loro pance debordanti vanamente occultate. Procedendo a testa bassa era arrivata, quasi senza rendersene conto, alla finale nazionale.
Il giorno in cui aveva ricevuto la telefonata che le rendeva ufficialmente nota la convocazione per la fase conclusiva del concorso, si era come risvegliata di soprassalto da un sonno intorpidente. Si era scossa, aveva spalancato le palpebre e si era vista di fronte ad un baratro. Un passo più in là avrebbe potuto trovare l’ebbrezza del volo, ma anche il granito tagliente di un tonfo, una caduta a corpo morto nel vuoto.
C’era anche un’altra soluzione, sicuro. Poteva fare dietrofront e non presentarsi. Nessuno sarebbe venuto a cercarla. Al massimo, dopo una telefonata di accertamento, sarebbe stata rimpiazzata dal nome prontamente fornito da un computer. Ed anche lei, senza particolare sforzo, avrebbe potuto dimenticare tutto.
Ma era proprio questo che non voleva. Quella strampalata avventura ormai era parte di lei. Era entrata nella spirale di plastica ed acciaio del meccanismo. Anzi, il meccanismo era penetrato in lei impossessandosi dei suoi desideri. Aveva deciso di andare fino in fondo.
Un solo dubbio l’aveva assillata nelle ore che avevano preceduto la partenza per il grande viaggio. A differenza delle selezioni regionali la fase finale del concorso si sarebbe svolta in una città che distava varie centinaia di chilometri da casa sua. Era stata a lunga indecisa se andare con il treno oppure con la sua macchinetta. Alla fine aveva optato per l’automobile. La mitica Diane era un’amica per lei. Forse la migliore che aveva. Agli altoparlanti del minuscolo stereo-mangiacassette aveva bisbigliato i sogni ed i brividi che non poteva confidare a nessuno, ed i sedili a scacchi rossi e viola erano stati i soli, discreti testimoni degli ansimanti incontri che avevano scandito gli anni corsi via, più rapidi di lei.
Nella sigaretta ciondolante stretta tra i denti di metallo del posacenere Chiara trovò, assieme al riso agro che le contorceva le budella, il sapore speziato di una punta di soddisfazione. Era in viaggio verso la fase conclusiva di una gara riservata a poche. Aveva tirato le fila del percorso mentale che l’aveva condotta fin lì ed aveva concluso che tutto andava come doveva andare. Non c’era motivo di tornare indietro né di farsi fracassare da un pirla qualunque con un Porsche pieno di cilindri e pistoni sotto le natiche pelose. Doveva procedere. Doveva e poteva essere fiera di sé.
Arrivata all’hotel extra-lusso trasformato per l’occasione in immenso gineceo, si guardò attorno. Le ochettine con cui doveva competere scendevano a frotte dai taxi e dalle macchine nere guidate dai parenti ricchi. Dietro di loro trotterellavano le madri armate di pettini, spazzole e scatole assortite di trucchi e vitamine, mentre i fidanzati assumevano l’espressione vigile del Kevin Costner di “Guardia del Corpo”.
La pressione di Chiara precipitò in pochi istanti. Doveva trascorrere vari giorni in quell’ambiente, a contatto di gomito con una fauna umana con cui non aveva niente da spartire. Cosa poteva dire a delle ragazzine che vivevano ancora in stanzette color confetto, tra pupazzotti antropomorfi ultramuscolosi e la casetta di Barbie con la culla azzurrina e il televisorino iperrealistico?
Forse avrebbe potuto provare a raccontare di donne che abitano da sole in appartamenti scalcinati e fanno le scale di corsa sperando di non incrociare le vecchiette inacidite e i tipi loschi con la faccia da maniaco che ti mangiano con gli occhi. Avrebbe potuto parlare dei salti mortali per mettere insieme i soldi per l’affitto, del gelo e del sonno che incrosta le facce dei pendolari, quelli che si alzano prima del sole e per tutta la giornata se lo dimenticano, riuscendo ad assorbirlo, insensibilmente, solo sotto forma di sudore.
Già, avrebbe potuto raccontare tutto questo. Ma l’avrebbero guardata con un sorrisino appiccicato sulle labbra e gli occhi distratti con cui si osservano i gesti di un vecchio scalmanato che descrive la carrozzeria fluorescente del disco volante atterrato nell’orto di casa sua.
Meglio non provare neppure. I conti non erano difficili da fare. Dalle distributrici di smorfie e miagolii che la circondavano la separava inesorabile l’algebra della vita. C’era sempre un più o un meno che la distingueva dalle signorine concorrenti. Rispetto alla stragrande maggioranza di loro Chiara aveva tre, quattro, e in alcuni casi anche cinque anni di più. In compenso aveva parecchi centimetri in meno da poter esibire in punti del corpo che non passavano certo inosservati, specialmente in quella circostanza. Con tutte le selezioni che aveva dovuto superare aveva sicuramente molta esperienza in più. Moltissime delle altre erano arrivate lì vincendo al primo tentativo un solo concorso regionale. Altrettanto sicuramente però a chiunque fosse dotato di un briciolo di obiettività saltava all’occhio un “meno” macroscopico, solido come un punteruolo di ferro premuto a forza tra le costole: Chiara, rispetto a tutte le altre, era molto meno bella.
Il quel particolare contesto il fatto che fosse anche molto più intelligente non aveva alcuna importanza. Era un dato che non variava in alcun modo i termini dell’equazione.
Il mattino seguente al loro arrivo nell’albergo tutte le partecipanti furono fatte vestire allo stesso modo e vennero schierate in cerchio attorno al manager-coreografo che doveva impartire loro i primi rudimenti. A Chiara furono sufficienti pochi secondi per ultimare la sua “ispezione”. Ruotò lo sguardo attorno a sé, intercettò i volti di ciascuna delle giovani colleghe, e la individuò.
Non ebbe un solo dubbio. Negli occhiettini rotondi della ragazzona castana che aveva di fronte riconobbe la luce soffice della vittoria. Sotto le guance lisce nutrite a baci e a Plasmon l’erba molle dei sentieri che conducono a radure coperte di fiori profumati.
Chiara fissò le pupille svolazzanti della prescelta dalla sorte, le attrasse a sé con la forza del pensiero. Quando i due sguardi si incrociarono Chiara sorrise. Le sue labbra splendevano del rossore vivido di un odio senza fine.
Il coreografo decise di concedere alle ragazze qualche ora di libertà. L’intero pomeriggio era a loro disposizione. Alcune ne approfittarono per visitare la cittadina che le ospitava, altre preferirono rimanere all’hotel. Furono allentati i cordoni della sorveglianza e la hall si riempì di curiosi e paparazzi.
Chiara, seduta da sola ad un tavolo d’angolo, fumava furtivamente una sigaretta. Il suo atteggiamento guardingo appariva superfluo però. Non c’era un solo cacciatore di autografi che si curasse di lei, né un solo fotografo che tentasse di immortalarla. Probabilmente l’avevano scambiata per una turista qualunque, un’americana emancipata in cerca di avventure di fine stagione.
Fu così che dopo un po’ proprio lei iniziò a curiosare con lo sguardo, scattando decine di istantanee alla folla. Aspiranti playboy cercavano di accalappiare le gallinelle più ingenue, sorvegliate a distanza da nonne, zie e attempate cugine. Nonostante le severe magliette nere imposte dall’organizzazione, i seni delle ragazze della categoria “disposte a tutto” oscillavano con svettante orgoglio davanti a giganteschi obiettivi con tanto di grandangolo.
Sui volti dei fotografi campeggiavano espressioni ambivalenti. Accanto alla divertita e spocchiosa coscienza di essere anelli fondamentali della catena di pubblicizzazione del prodotto “fama e bellezza”, si notava altrettanto evidente l’amara coscienza del loro ruolo di semplici strumenti, rozzi robot al servizio della dea immagine. Con commiserazione Chiara analizzò i loro atteggiamenti speculari. Sembravano repliche fedeli di un modello costruito artificialmente. Aveva già messo in tensione il piede per alzarsi di scatto e correre via al più presto da quel caotico salone, quando, inaspettatamente, lo sguardo le cadde su un esemplare di fotografo molto interessante.
L’abbigliamento era simile in tutto e per tutto a quello dei suoi colleghi, ma il suo modo di fare spiccava in modo nitido e lo rendeva unico, inconfondibile. Quando riprendeva una ragazza o un qualunque altro soggetto i suoi gesti erano fluidi ed avevano persino un che di solenne, di elegante. Ammaliavano per la spontanea armonia. Nell’istante stesso in cui smetteva di scattare e si toglieva la macchina fotografica dal viso diventava legnoso, strabuzzava gli occhi e girava la fronte a destra e a sinistra con scatti violenti. Sembrava cercare con affanno le coordinate perdute, o, più esattamente, pareva chiedere scusa a chi aveva accanto per avere osato interrompere l’azione per cui era pagato e programmato, lo scopo per cui si trovava lì in quel momento, come in qualsiasi altra occasione.
Chiedeva perdono per aver proposto al mondo il vuoto e il nulla della sua faccia nuda sostituendosi alla protesi meccanica grazie a cui si camuffava e si amplificava generando altre forme ed altre immagini. Questa era l’impressione. Chiedeva scusa per la necessità che aveva di respirare ogni tanto, non avendo la forza ed il fiato necessari per essere sempre e soltanto una scatoletta di plastica nera che cattura la luce per farsi specchio di altre esistenze.
Chiara lo guardò e sorrise. Con gratitudine, con affetto, quasi. Il suo cervello era già lanciato in un galoppo scatenato. Stramazzò poco dopo sulla collinetta di una libera associazione. Nella lingua inglese, la lingua internazionale della moda e dello spettacolo, per descrivere l’azione di scattare una foto si usa il verbo “shooting”, lo stesso vocabolo che si adopera per indicare l’atto dello sparare con un’arma da fuoco.
Una sciocchezza, un’assoluta banalità, anzi, qualcosa di imbecille e strambo che non c’entra niente con me, con il tipo che sto osservando e con la mia situazione attuale – si ripeteva Chiara.
Se lo scandiva nella mente, sillaba per sillaba, urlandoselo. Ma non c’era niente da fare. Il cavallo pazzo del suo cervello non si schiodava. Era piantato lì, sulla polvere e sul fango di quella bizzarra associazione: “shooting” equivale sia a fotografare che a sparare.
Alla fine non riuscì a resistere. Si diede una sistemata ai capelli, e, passo dopo passo, si andò a piazzare davanti al fotografo ipercomplessato.
Lo guardò. Lo guardò negli occhi con immutabile tenerezza sia quando le scattava una foto sia quando si contorceva in infiniti e torturanti tic.
Giorgio rimase a bocca aperta. Quella donna affascinante, capace di fargli bruciare il sangue dentro fino a scoppiare, continuava a sorridere, gli sorrideva dolcissima anche quando l’obiettivo della macchina era abbassato. Anche quando era ridicolo, e patetico, come uno spavantapasseri preso a schiaffi dal vento.
La guardò anche lui. Si soffermò sugli occhi di lei un attimo in più del solito, un attimo in più di quanto avrebbe voluto. Chiara riempì quell’istante del fluido caldo della femminilità. Liberò nell’aria il miele agro della malìa che celava dentro.
La mano di Giorgio si avvicinò a quella di Chiara fin quasi a sfiorarla. Chiara avvolse le dita in un nodo tiepido e liscio. Lo accompagnò al bancone del bar. Lì, senza bisogno di dire niente, i due ragazzi si ritrovarono stretti in un abbraccio. Salirono le scale fianco a fianco, gli occhi negli occhi.
Mentre si spogliavano Chiara osservava il tremore delle braccia di Giorgio. A quel ragazzo avrebbe potuto chiedere tutto, ne era certa. Pensò ancora una volta alle guanciotte rosee della ragazzona prescelta per il trionfo, quella che avrebbe sicuramente vinto. Quella che avrebbe battuto tutte. Quella che avrebbe battuto lei.
E’ il momento e il luogo giusto – rifletté Chiara. E’ questa l’occasione propizia per spiegare a questo disperato che ho davanti che non c’è nessuna differenza tra fotografare e sparare. Non c’è nelle parole e neppure nei fatti. Le parole sono già azioni. Azioni in potenza, tocca a noi tramutarle in realtà. Sono certa che comprenderà. Sarà bellissimo anche per lui immortalare con uno strumento diverso, in anteprima e in esclusiva, la faccina carina della ragazza destinata a conquistare il titolo di Miss.
Giorgio entrò nel letto. I tendini del corpo si contraevano ed oscillavano in modo folle, come se volessero staccarsi dal corpo e fuggire via. Quando il petto aderì a quello di Chiara provò una sensazione di pace sconfinata. Una serenità assoluta si fuse al brivido di piacere che cresceva, istante dopo istante. Ritrovò il peso e la consistenza di ogni muscolo, e i grovigli dei nervi si sciolsero in armoniche vibrazioni.
Gli attimi che precedettero il culmine del piacere furono avvelenati dal rivolo agro di un pensiero. Giorgio pensò al dopo, al futuro. Il generoso offrirsi di quella splendida ragazza era certamente frutto di un capriccio estemporaneo. All’indomani, con ogni probabilità, non lo avrebbe neppure salutato se lo avesse incontrato.
Una come lei non può accontentarsi di uno come me – si ripeteva Giorgio.
Dimenticherà tutto. Dimenticherà me e questi istanti e si cercherà un altro, uno qualunque. Io invece non potrò mai scordare questi attimi. Io ho bisogno di lei. Ho bisogno di stare bene. Ho bisogno di essere normale, come adesso. Ho bisogno di sentirmi un uomo.
Mentre stringeva le mani con tutta la forza che aveva attorno al collo di Chiara, Giorgio sorrideva. Pensava alla macchina fotografica che aveva posato sul comodino. Avrebbe potuto fotografare con tutta calma il volto immobile e gli occhi della ragazza, ancora accesi di un velo luminoso di piacere.
Avrebbe potuto fermare il viso dolce di lei sulla pellicola per decine di volte, con cura, con amore. Poi sarebbe uscito. Si sarebbe allontanato dall’albergo e dalla città portando con sé il prezioso rullino.
Nessuno avrebbe potuto separarla da lui. Nessuno. Mai più.
Ivano Mugnaini