Il faro, Giancarlo Micheli

Il faro

 

I

 

Il faro appare nella polvere che il mare ammassa

Ai margini della sua salina strada

Che la luce ha percorso fino alla bianca falce

Del tempo lunare in cui c’è luce

Ai piedi del faro e sulla via

Dove svanisce l’ombra umana

Si fa bianchezza

Passaggio

Latenza del suo sogno

 

 

II

 

Nascondeva il suo sole e la sua rosa

Rovesciando a terra stoviglie ed overcoat

Vasaio di una contabile necessità

Nel muro scalfito da fuoco e contagio

Da fenditure nella terra promessa

Sul pavimento di tavole disponeva

Di un’universa passività

Essendo migrati i cuori

In altri occidenti o sotto ai minareti

Di un’accidiosa Bisanzio

Dove le carni sono bianchi petali

Mentre cadono sopra perdute verginità

Fu allora che ne raccolse i frantumi

Dove salpava velieri

Dai cristalli nei quali erano stati

In altri stati e parti

Di sé lungo il vibrato

Dei raggi di un possibile aprile

Fino al sole che tesse maggio

Ed oltre nell’estate

Nell’invisibile chiarità

 

 

III

 

Passando nei casi che il giorno

Allatta da un suo cielo avaro e plumbeo

Vedi il professionista andare in banca

Dalla borsa slacciata aspergere

Di fuoco fatue armi

Un re del giorno ringiovanito

Da eoni di deserto che in un beige stinto

Lo cospargono di polvere senza umiltà

Nei vestimenti dove presagisci

L’ittero del cuore e nostalgia

Da immagini di carta che non brucia

Neppure alla fornace del sole esposta

E quant’altro di cielo in te

Non mi fa pulito nonostante

Incessanti docce d’acqua pesante

Non dimenticare il carnevale attorno

Ed il sangue sacrificale da cui viene

Odore di sciagura

Odore dell’angelica santità

Che ci farà tacere

Al suono delle cui corde vibreremo

Fino a costellazioni che abbiamo immaginato

Di aver visto in altri sogni

Mille di nuovo e non più

Se raccolto intero nelle cose

Pura astrazione di ciò che vuole

Essere detto e a dire

Inclina il raggio che già sale

Se raccolto nelle cose non ti so

Ancora calice che si spezza

Lasciami bere assieme a te

Lasciami partorire

L’uomo e la donna del futuro

Ai quali apparteniamo

 

 

IV

 

Ti sia dato proseguire ad esplorare

Mondi di parti in sé

Un turchese bizantino quasi d’oro

E di rosso solo il ricordo

Una serpe dionisiaca avvolta

In filamenti di riverberi alla chiglia

La croce e la falce rinascente

I leopardi di Lepanto ed il dio sospeso

Nella memoria di Veneto e pittura

Che per eresiarchi e autocrati

Bagna la storia di sangue

Costringe a scambiare mète e schiere

Sempre meno angeliche

Persino nello squillo di tromba

Del sistema che si avvia operativo

Veloce fino al fiato che prendo

Nell’attimo che cerco presente

Dalle plumbee stanze della storia

Come ecatombe di desideri e sogni

Nirvana adesso imperativo

Oro purissimo che il sole sparge

Sopra il gemito dell’orizzonte

E sospinge sulle sponde che gli siamo

 

 

V

 

Doni da sconosciuti uomini del futuro

Ne vengano agli occhi chiari

Perché l’occhio è fin dove coglie

Lo sguardo lo fiorisce

A dispetto della composta di vita

Che orna le ciglia le sfuma

Con un’iride trascorsa nel tramonto

Ricombina l’idea al quesito

Al dono non veduto e non visibile

Da cui la visione in ipotesi si avvolge

Ai piedi della scala che discende

Sulla brulla terra la cui semina

Inventiamo con speranza e ostinazione

Pietra del nostro paragone

Dell’essere nel labile fiume

Lungo il quale ci risale

Ciò che appare

 

 

VI

 

Ti reco grazia perché mi fai sapere

Che sopra la virtù riposa l’intenzione

Felice nella sua profondità mutevole

Forse coronata di una nube di giustizia

Mi fai sapere che getta un’ombra

Questa corda del mondo che tu e un’altra

Altri soggetti che generi e da cui sei generata

Al pari di io che è un altro

E di altri ancora mi fai sapere

Di una nave che salpa

Verso questo mondo

Verso emozioni non ancora divenute

 

 

VII

 

Si spreme nell’inchiostro che porto

Sotto l’occhio bistrato della dama

In cerca di illuminante compagnia

Sotto la noia turchese del grande laqueare

Dalla cui architetturale trasparenza

I pilastri d’acciaio di sghembi mots d’esprit

Vellicano l’ombelico del cielo compassato

Da evanescenti geometrie di nubi

Si spreme come siero di meningi

Ordine del pensiero fino alla schietta

Schiera dei semplici e dei supplici

 

Non sapeva come d’un tratto

Non sapeva il soggetto distratto

Dall’eccessiva sudorazione della fonte

Non sapeva quale parte avesse sulla riva

 

Altro che pustole ed escrescenze

Nei cancri di ciò che si scompone

Di atomo in gene

Altro infine nell’altrimenti

Illuminata quiete dove è magnanima la gentilezza

Ed il mio arco doppio tendo

Che vi tiene tra l’estinzione e la salvezza

 

Attendetevi le mutazioni ed altro

Perché tardare non si debba

Al presente cui non volete

Profondità ma gioco di superficie

Senso per elezione di storia e gloria

Attendetevi le mutazioni inoltre

Non del corpo dell’encefalo della cistifellea

L’emozione non sarà quella che è stata

Estesa all’asse dei tempi e del mondo

Sarà l’eone di una primavera

Non per le figlie e i padri

Non in quest’idea di gregge

Che la vostra precessione di vacanti

Sacrifica ed ossecra

Non nell’osso dell’ossimoro

Dato ai cani di provetta sensibilità

Perché lo riportino al buon padrone

O al buon pastore che ne mangia lo sterco

Perché il marciapiede non si sporchi

Non in tutto ciò di caduta

Oltre nel turbine che sibila

Tra il vento e l’elettrone

Niente a paragone del nonnulla

Che si dà ai mancanti da moneta

Per ripagare la pena di esser nati

In virtù di possibilità concreta

Oltre ed altrove attraverso e ancora

Di nuovo il venturo

Ritorna e permane

 

 

VIII

 

Manca al compito di dire

Disatteso nel dolore

Che pietrifica le labbra alla ferita

Di chi è nato

Sopra il duplice abisso umano

In equilibrio che non sa

Manca a ciò che viene

Quest’ottuso senso del confine

Acume inverso piega di paragone

E nel venire meno appare

Non ti saprò sostituire

Per quanta utopia nelle culture

Si versi in bile e sangue

Finché alla sofferenza non sia tolto il grido

Che in un soffio dispensi la ferita

Un taumaturgo fiore

Non ti saprò sostituire

Nel tuo dover passare

Oltre la mente e il cuore

Nel perseguire la tua nube

Non altro cielo ti contiene

Che quello dove ti dissolvi

E pensa se il tuo mancare

Togliesse nel suo abisso

Tutto ciò che è convissuto

A te di luci e ombre

Di immagini persone gesti e cose

E pure il resto che ti ha concepito

Tale mancare ad altri

Che a te non sarebbe

Pensa questo abbaglio

Più nero del buio che pensi

Riempi pertanto il mondo di virtù

Guarisci nel presente che in te nasce

E di ciò che manca non ti curare

 

 

IX

 

Riguardati

Io mi riguardo e riguardiamoci

Riguardami mentre ho riguardo di te

Come la temperanza versa

Dalla brocca identica alla diversa

E viceversa ancora

Dentro ed oltre la natura

 

 

X

 

Adesso mi darai voce

E adesso sarai felice

Musa delle metamorfosi

Quando si mette a punto

Che occorre altro la convinzione

In opportuna situazione

E mentre si apre

Dalla colonna repubblicana

Un’aura di cielo turchese

Confutando l’obsoleta riproducibilità

Per mezzo dell’armonica verità

Di un gesto contemporaneo

Dei tuoi occhi e della mia mano

 

Adesso che hai voce vedi

Che abbiamo da andare là

A congiungere il dopo e il prima

La libertà e la terza rima

Dei miei occhi e della tua mano

 

 

XI

 

Terra che da un agiato estro

Hai intinto il mestruo delle tue paludi

Fino all’effimera essenza del presente

Quando vanno alla banda larga i vittoriali

Esposte le vergogne sui tacchi e gli stivali

Verrà un’onda nel suo tempo

Un’onda sommergerà le telecomunioni

Dell’enotriano agnello e dei suoi numerabili padroni

 

Come i nostri cuori supplici

Alle teste per vertebre cervicali

A discrimine di noi per beni e mali

Somiglianti nel decidere

Come i  nostri cuori vuol rimanere

Questo vento di tenace gentilezza

Che incoraggia la vela e la carena

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