Jacopo
da LU‘BBONU MARZU
Ovvero: ULISSE AD ITACA
Romanzo di Giancarlo Carioti
Parte I°
Capitolo I°
Quando Jacopo apparve, nell’Isola, il mondo cetico trasalì e si irrisolse, nella vana speranza di trovare risposte congrue ad una coscienza profanante e degradata, su cui si era riprodotta la sintesi di quella fase epocale che Jacopo, aveva come previsto e pre – sentito. Era morto senza un sussurro, una parola; se n’era andato lene, così come lenemente aveva vissuto, Nicolao; senza alzare la voce, senza trepidare, senza accusare, soprattutto, neanche questa macabra cosa, che era la fine, la perdita, la separazione; se n’era andato, come mormorò spentamene nell’orecchio di Jacopo, quasi sapendo ciò che lo aspettava: il mistero di un mondo sconosciuto e silvestre, come la sua montagna – quella che amava tanto -, quella che, contemporaneamente è bagnata dal mare, il mare della sua isola natìa, dove, pregò Jacopo di seppellirlo. E per Jacopo fu il salto nel buio, e contemporaneamente il percorso verso la luce, quella della sua anima, che di rado, gli palpitava nelle tempie e nelle viscere, quella che credette di avere ascoltata o sognata, forse, sin da bambino. Lo avrebbe portato là il suo Nicolao, là nel barbugliante sole del Sud, là dove la canzone triste della vita sconsolata dello sfruttato, ancora sona tra le vie deserte:
Aju perdutu suonnu e ingegnu,
ma si ti pigghiu ti tegnu…
Ne parlò con mammà, e quanto consolante era ancora parlarne così; non mamma o madre, ma mammà, come sincopava da bambino, aggirandosi tra le chianelle dell’Isola, di cui ricordava l’ultimo giorno: la tristezza dei preparativi, la nave pronta per l’imbarco e Nicolao e Filumena, vestiti di tutto punto e pronti a salpare in una giornata mugghiosa e statica, senza un filo di vento, con il mare bloccato come una tavola, ed un cielo, al contrario, sul punto di scatenare il diluvio. E lui lì, piccolo, quant’era piccolo ed incauto, nel senso di non capire , niente: Milano, il viaggio, l’isola perduta, il cuore franto per la separazione, come lo provò per anni, il desiderio struggente di tornarci, sempre frustrato da qualche intemperanza o capriccio della sorte, quella che odiava, quella che ti fa provar ribrezzo verso la vita: il destino, il fato, che si compie a prescindere da te, dalla tua volontà, dalla tua fredda determinazione, di prendertele le cose che vuoi prenderti, di annunziare a te stesso che te la sei pigghiata la vita.
Ed il mulmure lene di quella lingua, del dialetto cantato, tra loro, lui e i fratelli, ritmato, come se fosse un brano di fox trot, o una canzone melanconica che parla al cuore straziato, come si fa di una bella donna che ti fa tanto soffrire. Quel dialetto che gli rimase nella pelle e che non era semplice “brutismo”, ma una lingua ossitona e gargagliante, che quasi si parlava con la gola e con lo stomaco, la quale tradiva quella strana preistoria che si ascrive al mito, più che alla storia reale, ed in cui galleggiavano pezzi enormi di “cuscienza” collettiva, che non era proprio cultura: era di più; era il sapere cosmico degli angeli che si era fuso, alle povere cose della terra agra, ed alla condizione eternamente subalterna del lavoro, in cui il melieme triste fagocitava la speranza, facendola diventare appendice dell’impossibile.
Mammà, nun dissa nenta: lo guardò con i suoi occhi porporini ed intensi, e sembrò starsene lì, assonnata, trasognata, ma con una spina nel cuore, quella che sanguinava per Nicolao, perduto da tre giorni; cosa che l’aveva lasciata, non ulcerata, pianta, disperata, ma quasi perduta nella sospensio trasognata e lucida, al contempo, della donna che ricorda e rimpiange con amarezza, ma che stagliatamene ed improvvisamente sa tutto della morte, dell’eterna domanda su che diventiamo dopo, e su dov’è papà ora, come affermò con sicumera, al punto tale che Loredana, le afferrò le mani con forza, e mormorò tra le lacrime:
“Cchi nda sai e si cosi tu?”
E Jacopo, truce:
“Iddra sapi tuttu, pecchì papà ci parra e ddra supra; non sputara nto piattu Loredà.”
Così si decise di cremarlo, Nicolao, e che Jacopo, come papà aveva voluto, si recasse a … , dove l’avrebbe seppellito nel piccolo cimitero di famiglia: ma mamma no! Non ci sarebbe andata, non ne aveva u cora, sarebbe morta senza rivederla l’Isola, in cui voleva essere sepolta, accanto a lui, come accanto, silenziosamente, gli era rimasta per tutta la vita, anche lei senza rabbia, senza un filo di collera contro l’esistenza, che pure l’aveva sradicata dal suo contesto, proiettandola nella grande città, in cui –splendida rosa- si appassì, senza trasalimenti, senza scotimenti… solo con un filo di lacerazione e di malinconia, soprattutto quando tornava da fuori, con le mani cariche di pacchi, in una giornata di pioggia o di nebbia. Quanta gente venne a tributargli l’ultimo omaggio! Fingevano, camuffavano la loro indifferenza? Jacopo se lo chiese e non seppe che rispondersi, ma in molti casi gli parvero autentici quegli esiodi commossi, soprattutto dei suoi amici, che ne rimpiangevano l’umanità, la bontà d’animo, il calore struggente delle sue partecipazioni…. E questo non esserci più era straziante, ma per noi, per noi che restiamo senza qualcosa di abituale, di affettivo, perché la cosa innominabile ce l’ha portato via, lasciandoci vuoti, esausti, inconciliabili.
E Jacopo sognò: la sua infanzia, la morte, l’avvenire e seppe tutto di ciò che gli sarebbe avvenuto nella vita, e ne provò quasi rammarico, senso di indegnità, come succede a Dante al cospetto della Vergine:
“Vergine madre, figlia del tuo figlio…”
Gli venne di continuare:
Madre,
perché piangete?
Accorrete in soccorso
della vita
trita essenza improdotta,
cotta cibarie
fatta di semenze,
sembianze di un perdono,
di cui non sono
degno….
Poi si interruppe e pianse, ma non pianse per il padre, o per la morte, ma solo perché si sentiva impotente e paldrutico, e sempre indegno, inadatto, piccolo, limitato ominide. E non seppe se credere o no, a quel sogno, di cui poi vi dirò, ma seppe che una corrente interna lo percorreva, additandogli la strada, che lì per lì, non capì quale fosse, ma che ineluttabilmente partiva da un capisaldo linfatico della sua vita. Partiva dall’ISOLA.
“Preparasti a baligia?” , gli sussurrò la madre
“Ma si mammà, ci aiu misu tuttu dintra eu.”, rispose Loredana.
Partire?Per andar dove? Incontro ad un mondo perduto da sempre, incontro a gente che non ricordava più, verso gusti, profumi, sapori di cui aveva perso la vista, l’odore ed il tatto, quel semplice sfregare delle dita tra pollice ed indice, che ti fa dire…”ci sono”, o anche “sono vivo”, perché sento, percepisco, e, in ultima analisi: “esisto”….cos’eravamo prima di esistere? Non eravamo! Questo è il punto, solo che non avevamo , neanche cognito di non esserci, perciò non potevamo provare sensazione o sentimento alcuno, come paura o claustrismo, perché non c’eravamo, ecco tutto! Poi nascemmo e qualcosa ci strappò a quel nulla silenzioso e ci animò, dandoci il senso dell’esistenza, obbligandoci alla vita, non solo ottenuta, ma pensata in quanto vita, che ci sembrò così indispensabile, ed al contempo tragicamente dolorosa, ma tanto efedica e sublimante, tanto vitale, perché presente ed immanente, gigantesco masso grevente sulle nostre spalle.
Comunque andò, e gli fece specie non poco di non vedere quel giorno, che era Domenica, i costumi paesani, sgargianti, cicalanti, eclatanti, cuciti da mani abili per anni, con ricami voraginali e trine di corallo o di perline lavorate a mano; e ne ebbe come un presentimento… come avevano conciato la sua Isola? Le sue spiagge rosse, il promontorio su cui si inerpicava la greppia belante delle case vetuste? Si guardò attorno disperato, quasi per scorgere una faccia nota, dopo tant’anni, ma era una pretesa insolvibile: Chi volevi che lo conoscesse? Il vecchio zio, magari lo avesse incrociato, o i cugini che quasi stentava a ricordare…. Ed attorno a lui un ciarlare strano, che non gli parve noto, ecco il punto, quasi non lo ricordasse più il dialetto “solano” o u iermitu. Si accostò ad un gruppo per ascoltare meglio….
“Aju abbenutu dallu cadusciu, ma non aju mbirutu nenta (son venuto dal campo di calcio, ma non ho visto niente)”
“Pura eu, pura eu, nun s’inchiva cchiu nenta ( anch’io, anch’io, non si capisce più niente), rispose una bella ragazza.
Ma che razza di lingua era quella? Non era iermitu, non era solano…mah, forse eran forestieri, dell’entroterra; ed ancora altri gruppi:
“Mò t’ingadu si t’arrepisciu ccu mi sora (ora ti uccido, se ti ripesco con mia sorella).”
Cadusciu? Nchiva? Ingadu? Che volevano dire quelle gergalità? Cos’è successo alla mia lingua? Si disse furibondo, poi ricordò il sogno e seppe che cosa stava accadendo… tutto si stava de-naturalizzando, imbalsamandosi in un bozzolo convulso attorno al verme dell’anima dell’Isola, che stava dissipando il suo interno in convulsioni nauseanti, ed in balbettii sinistri e straniti, su cui si ergeva il monumento al contemporaneo, al bebetico tempo dei nostri giorni, in cui sembra iconoclasticamente fuso quello della barbarie ed il nuovo medio evo.
E Jacopo si accorse di stringere convulsamente la valigetta, in cui teneva le ceneri di Nicolao, quasi a proteggerne il contenuto da quella perfida pervasione; stette ancora a sentire, ma come in sogno, inebetito, incredulo: possibile che a questo fosse giunta la così detta rivoluzione del modernismo? A coniare un orrido kitch come lingua? Possibile che avessero disimparato tutti, proprio tutti? Avrebbe reagito, avrebbe protestato: ma con chi? Si disse, scrollando misericordiosamente le spalle: chi volevi che stesse a sentirlo? Esasperato, si rivolse, al primo che gli venne a tiro:
“ Cumpà, tu me capisci?”
“Na peche” (un po’)
“Eu signu e l’Isula e parru jermitu”;
“E cche ‘mputera?” (e che significa?);
“Il vecchio dialetto ‘solano”, disse Jacopo in perfetto Italiano;
“Oh signore”, tentò di spiccicare l’altro: “Qua non se parle più quella lingue.”
“E perchè?”
“Non ce piaggeva più, era antiguata: e nu semmo moderne capisce?”
Si girò dall’altra parte, senza rivolgergli più la parola, ignorandolo quell’ectoplasma, malato di moderno, ed inconsapevole di avere ucciso con gli altri, non solo la tradizione, ma soprattutto l’etica e la cultura di un popolo, riprodottasi per millenni. No, non era un vecchio barbagianni, Jacopo, nel senso di far valere quella sorta di arcaismo, che era il termine “tradizione”, che, per lui, era il sito, la base imprescindibile, su cui si consolidava il nuovo, ma nel senso che si amalgamava, al già dato, per avvilupparsene saldamente, fondendosi in un embrasse indistinguibile, proprio come fa una lega tra metalli, che fa nascere un nuovo materiale, in cui si annegano le specificità degli elementi originari.
La nave si staccò lentamente dal molo, ed a Jacopo un brivido corse per la schiena…si isolò a prua, controllando con lo sguardo il bagaglio, soprattutto l’urna con le ceneri, ma si impose di non cadere nello scoramento e di affrontare la situazione con piglio deciso, perché quel sogno gliel’aveva additata la sua missione, anche se non si raccapezzava, nel senso di non capire da dove sarebbe partito, e che voleva dire quel dito di Dio piantato sull’isola. Jacopo non era un mistico, ma la vocazione verso il Sacro era in lui fortemente profilata, nel senso di ritenerlo quel Dio delle misericordie e delle collere, attraverso il bramito, anche della natura, ma più in generale, del Vitale, che era, per Jacopo, un melànge inspiegabile, sintesi tra il contenuto astratto della vita en general ed il ricondotto dello spirito, su questa stessa vita, in cui l’istinto fungeva da armo, da balestra verso gli assoluti, dove l’idea astratta si avviluppa al naturale, diventando espressione di perpetuità, ed assieme di qualità, di specificità del valore spirituale. E questa sintesi tra spirito e materia, di cui eravamo collusi, era l’impronta di Dio, non ne aveva dubbi. Alzò la testa e guardò il mare dispiegato e gozzetico, avvoltolato del suo elemento, che, certo, era l’acqua, che percettivamente diventava solida e squamosa, gargagliante e tumida, al contempo, empitata di un magico collante che la induriva e la rendeva rupestre, quasi avessi potuto camminarci su quella trasparente consistenza, o pattinarci, come si fa sul ghiaccio.
Poi la vide proprio da lì, dal suo mare quella “cosa” informe e aggrovigliata che era diventata l’Isola: il Porto triplicato, le case dei pescatori sparite, con, al loro posto, palazzi a 5 e 7 piani, e sul lato sinistro, orrido e agghiacciante un grattacielo raccapricciante di quasi 30 piani, con la scritta colossale Hotel Majestic; la spiaggia ridotta per via delle grandi mareggiate che si erano abbattute sulla costa oberata da masse gigantesche, ed infine un groviglio enorme di corpi incocciati che invadevano il pedemonte, sin quasi a lambire l’avito borgo, che ancora campeggiava, ma diruto e cadente. Sparita o quasi divorata dai denti uguetici della speculazione, ogni traccia di verde e di macchia mediterranea, che, anticamente, quasi pervadeva la spiaggia e rappresentava un polmone di salubrità nella climaticità aggradevole dell’Isola, in cui l’alta montagna, intatta per fortuna, ancora dominava il paesaggio, quasi un gigante corrucciato e totemico: sentinella golemica di una natura, oramai divenuta esecranda, strappata –sciancata, gli venne da dire- dalle spire dei cherubini, che, immaginò da bambino, soffiavano gli zefiri dolci ed aurati del ponentino, aggrondato di salso.
Scese dalla nave catafrattico, tremebondo, quasi paralizzato all’idea di appalesare a se stesso una verità agghiacciante, che aveva, dapprima temuto, poi previsto, la manipolazione, cioè, del misero fardello dell’umano che per secoli aveva serbato il suo umile cuore, in vestigie disadorne, se volete, ma sculpitate da quella pulcritudine spontanea, con cui il lavoro ancestrale ammaliava le masse eburnee degli isolati e delle piazze; ciò che Hegel definisce: “la bella unità delle città antiche”, che la stolida carriera dei geometrucoli, degli ingegneri civili e degli Architetti senza talento, che si vendevano per un tozzo di pane, aveva profanato irreversibilmente, anteponendo alla continuità, la cesura epocalistica, figlia di un rozzo capitalismo, in mano a plebei, che non riconosceva alcun rispetto, né della tradizione, né dell’effigie di un valore urbano, qual’ è quello rappresentato dalla memoria storica dell’Architettura spontanea, tramandatasi per millenni.
“Scusi, l’Hotel Miramare?”, domando Jacopo al primo che incontrò.
“A mascia e ppoe tutte addrete” (A sinistra e poi tutto addiritto), rispose quello.
“Senta, mi faccia il favore: non parli questo dialetto di ‘mmerda: me lo dica in Italiano o in iermitu.”
“U iermitu nun lo saccie, nun se parra cchiù; in Italiano le dico: A sinistra e ppoe addiritte – 200 metre.”
“ Grazie”, e lo lasciò come un baccalà a riflettere su quel dialetto di mmerda, che molto lo aveva colpito, quel tipino rubizzo, vestito con colori sgargianti, come quelli delle casacce sballenche e sovente non finite, che lo accompagnarono sino all’Hotel. Vi entrò furibondo e apavico, quasi preso da mille furie, con una voglia infinita di contestare tutto: la lingua, le acconciature, i vestiti dozzinali, l’aria falsamente festaiola dei paesani e quest’assenza di credo, di preghiera concentrata che scorse sulle facce di tutti… non era ateismo, ma rozzo materialismo, falsamente appagato dalle spire di un falso benessere, che ti fa investire solo su te stesso e 4 o 5 modelli di status, che dovrebbero essere le tue, così dette, certezze, le sicurezze esistenziali, per cui non solo Dio è morto, ma è vieppiù sostituito dalla miseria morale, fatta da auto-investimenti in materie raccapriccianti, figlie del mercato delle merci –quanto amava Marx in questi momenti-, trasformate in solido danaro maledetto: nemmanco oro, ma carta-moneta, cheques, assegni, cambiali, effetti e farfalle stampigliate con il torchio dell’infamia.
“Sono Jacopo Fossati! C’è una prenotazione per me.”
“Si, l’ho bbiruta, segnore. Per an mesa” (Si l’ho vista Signore. Per un mese).
“Senta, se parla così, farà scappare tutti i clienti. Non può comunicare in Italiano?”
“Sono poche astruite segnore. E ppoe me dichene ca lei è dell’Isula!”
“Si! Ma io sono un tipo all’antica, e parlo solo iermitu.”
“Oh si, o iermitu; nun lo parle più nessune. Ed io tengo tanta nostalgia.”
“Lo riparli allora, e lo insegni ai suoi figli. Era la nostra tradizione, il nostro orgoglio.”
“Ma non me caperrebbero segnore. La sua cambara è la 230, al segondo piano. Me dà un dogumente de indentità?”, disse cambiando discorso.
La camera era orrenda: uno stanzone sproporzionato, con due lettini miserelli, comprati al mercato dell’accatto. Un balcone a balata, di 1,50 circa, in cui non stava manco una sedia a sdraio ed un bagno raccapricciante, con mattonelle a pois bianche e nere che arrivavano ad altezza porta, pezzi bianchi e pavimenti – in graniglia?- con orribili fantasie in giallo e marrone; tremendi infissi in ferro, già sgangherati, e, soprattutto mancanza di colori in camera ed in bagno, con l’intonaco lesionato in più punti, lasciato in vista. I rubinetti già perdevano e Jacopo si soffermò a guardare quello dell’acqua calda, che lasciava tracimare un sottile filo di liquido, mezzo ramoso, proveniente da chi sa quale serbatoio arrugginito. E gli sovvenne l’idea che quel filo d’acqua fosse la sintesi della filosofia della vita, il “De rerum natura”, che ci rampognava con la sua etica ancestrale ed esemplificata, quasi ad additare il concetto di scorrimento fluido della natura e dell’esistenza, che passa ineluttabilmente, ingoiata dal gorgogliante scarico del tempo, che apparentemente non sa quant’acqua ha ingurgitata, dall’inizio delle ere, ma che sa è finita nella potente cisterna dell’eterno, che magicamente si espande, sino a contenerne tonnellate, che sono le vite dello scorrimento del processo e della storia che, per arcani motivi, Dio non aveva consentito –si disse correggendo Lucrezio- che si disperdessero nella natura sans phrase, ma si ritrovassero in una congiunzione massiva per il perpetuo. Quell’acqua sbidullante era la filosofia della vita, ma soprattutto l’etica della morte.
“Pronto, ziu? Signu Jacopo!”
“Jacopo, amureddru meu. Duva si?”
“All’Hotel Miramare!”
“E vene, vene! Nu stacimu sempa ddra; t’arrecorde duva?”
“ Sine! Nun aju scordatu. Menu mala ca parri iermitu!”
“ E come no! Io odio questa lingua di mmerda, e a casa mia, io e i miei figli parliamo l’antico dialetto.”
“Staiu arrivandu!”
Non lo stupì di percorrere le strade note, devastate dal degrado e dal saccheggio. Abusive quelle case? Si chiese; chi lo sa! Qui non si capisce più niente, ma il fatto innominabile era la nuova parlata: senza senso, gli parve di notare, senza un etimo, senza un aggancio con le lingue antiche: il Greco, il Latino, l’Arabo, il Normanno, addirittura l’Ebraico, come si dilettò di scoprire, quale il termine iermitu che viene da Sion, da shermot e significa appunto: lingua, parlata. Ora tutto ciò era deposto, inumato, violentemente manipolato dalla corsa raccapricciante, se non aveva capito male, verso l’attualismo a tutti i costi, il “moderno”, come gli avevano detto in molti; termine non certo disdettato in Jacopo, che però non ne comprendeva l’esasperazione, la ricerca sfoggiata coattivamente, l’imperio del tempo storico sul passato, per il quale non si intendeva grazia, non si curava la conservazione, si pugnalava un trascorso, anche intriso di sangue, ma pur sempre adivato dallo spirito del tempo; da una storia che ora veniva superata dal giacobinismo sussultante di ciò che è superato, e perciò spietatamente nichilizzato e deriso.
Lui, lo zio era sempre “u stessu”: giovanile e gargante, solo coi capelli bianchi ed un vago tremito della mano destra; ma era ritto come un fuso, abile, quasi intrigante, per la sua lucidità, per il suo malvezzato sardonismo, che era più di un’ironia, che si avvertiva nel calcare sillabe e parole –soprattutto le B e le Z-, era il vago cinismo di chi si è aduso a campare magrè toùt, e che trova povere di sofferenza le motivazioni degli altri, di quelli che “stanno con una gamba sull’altra”; non solo degli oziosi, ma anche dei “garantiti”, quelli che non hanno dovuto lottare per sopravvivere. La zia, piccola, minuta, sempre in movimento: “trottolina o spiddrisa”, la diceva Nicolao – era lì ad accoglierlo con il più ammaliante dei sorrisi, che doveva essere stato ben bello, quando aveva 20 anni. Jacopo notò che stava perdendo i denti, ingialliti, e se ne rammaricò, consolandosi poi, per via della sua acutezza, della sua verve apidica, incessante e del suo parlare confidenziale, quasi si fossero visti ieri, e non 10 anni prima- l’ultima volta che vennero a Milano. Lo abbracciarono con calore e Domenico pianse un po’, pensando al suo Nicolao, che neanche aveva potuto accompagnare per l’estremo omaggio, bloccato da un imprevisto sciopero aereo.
“Hai visto come ci hanno conciato? E pensare che avevamo l’Isola più bella del Mediterraneo. Hai sentito la “gnegna”, la parlata “muderne”, come dicono questi arricchisciuti, dell’ultim’ora, questi parvenùe, che hanno fatto miliardi, vendendo il proprio culo e la propria dignità?”, esordì lo zio.
“Ma soprattutto la loro memoria!”, rispose Jacopo.
“Oh di quello nun bonnu mancu parrara”, aggiunse la zia: “vandali, iconoclasti, per due lire che hanno fatto! Non bannu mancu cchiù a la Chiesa, pensa.”
E fu tutto un parlare di ricordi, di acute nostalgie, di Nicolao, di Filomena e dei figli loro, oramai grandi, che Jacopo avrebbe visto l’indomani; e le terre, ancora comuni, in famiglia, i tentativi falliti da parte della speculazione, di rubargliele, di metterli in racket affaristici, promettendo miliardi, permute, proprietà immobiliari.
“Ma io non ho ceduto, e la nostra bella campagna è sempa ddra!”, disse Domenico.
Poi si misero a cena, con grande consolazione di Jacopo che, degustò le antiche prelibatezze isolane: gli involtini di melanzane, la”nunnata”, ed infine, superbo, “u morzeddruzzu e crapinu”, che Jacopo non aveva più mangiato, da quando aveva lasciato l’Isola, perché i Milanesi le danno ai gatti, o le gettano via le interiora degli animali – queste parche degustazioni delle parti umili del macellato, come cuore, polmoni, milza, che il popolo paziente e rassegnato, aveva imparato squisitamente a cucinare, in vece della carne del capretto, che il signore, arrogantemente, mangiava, rubandolo alla fame dei poveri, degli sfruttati di tutti i tempi.
E il giorno dopo il cielo ed il mare si sconvolsero, augiando una giornata orribile, quasi che il commiato di Nicolao da questo mondo, avvenisse sotto funesti auspici, in una corrusca e tempestosa condizione meteorologica che, disse lo zio, non si vedeva da un pezzo. Alle 11 “da a matina” erano tutti là, nel piccolo camposanto di famiglia, in cui i Fossati, i Cardona ed i Lucibello erano sepolti da secoli, là dove la morte sbrefiamente sussultava ancora in un ghigno spasmodico, che era un singulto strappato alle viscere, più che una macabra risata compiacente, quella che la signora misteriosa emanava come monito e memento agli uomini inermi, che di lei avevano solo un’irrefutabile certezza. La pioggia batteva a catinelle e loro imperterriti, riparati da parapioggia che si rovesciavano come guanti, per via del maestrale impetuoso – che non gli zefiri o i cherubini soffiavano, ma gli arcangeli ribelli, quelli che erano passati nelle fila di Lucifero -, stavano lì, col prete, in sparato che benediceva con l’acqua santa, mentre gli sterratori, sbadacchiavano la buca, per impedire che l’acqua gorgogliante riempisse di terra la fossa. Poi vi inumarono le ceneri e la ricolmarono di terra rossa e fertile, quasi una ricongiunzione col creato e col cosmo del panta rei, dove non Nicolao, ma la sua effigie terrena, si sarebbe fusa con il principio naturale e si sarebbe tramutata, chi sa in quale prezioso lapislazzulo, o in chi sa quale bruco, da cui sarebbe spuntata una policroma farfalla, nata per vivere un giorno soltanto. E mentre Jacopo era assorto in questi pensieri, un vecchio Mastro infiggeva una croce di legno provvisorio, con le generalità di Nicolao, mentre Domenico, Lorenzo e Marzia parlottavano col mastro muraro e marmista e Fabio, il meglio architetto dell’isola, perché insieme realizzassero, per il loro Nicolao, un capolavoro marmoreo degno di Donatello e di Gattamelata. Anche zia Adelina si impose e disse al prete che ci voleva la musica, l’organo, per la Messa del Mese.
E Jacopo, guardando negli occhi tristi il cugino Lorenzo, mormorò in modo smoccicato:
“Vi devo parlare, a Voi in famiglia. Si tratta del mio futuro nell’Isola.”
Lorenzo annuì, come se avesse intuito, più che inteso il cugino, e Marzia, non meno paragnosta, domandò a bruciapelo.
“Che ti succede Jacopo, amore?”
“Nenta”, rispose lui,”è ca sugnu turnatu e non mi nda vogghiu jra cchiu!”
Perché lo diceva? Perché lo pensava, certo; ma soprattutto perché quel sogno glielo imponeva con autorevolezza, anche se Jacopo dubitava di avere i numeri, addirittura per dar di conto, figurarsi per… Marzia gli buttò le braccia al collo e lo riempì di baci, mormorando:
“Daveru, amura meu, daveru, resti ccu nui?”
“Si: lo voglio e lo debbo!”
“Duvira a ccui?”, chiese lei.
“A papà, che me lo ha chiesto…”, mentì lui.
Ma non era vero, Nicolao non si era mai sognato di fare a Jacopo una proposta così stravagante. Non era il padre, ma il suo dovere etico ad imporglielo, sotto forma di…., e lui voleva crederci a quella voce ed a quella missione, anche se lo prendeva una sottile paura, a pensarci, una spasmodica irrequietezza, che era il resultato della sua modestia, fusa all’indegnità che gli si somatizzava dentro e gli si appiccicava sulla pelle diafana. Jacopo non era alto; di media statura si sarebbe detto, ma il corpo agile e scattante, ben modellato, gli configurava una strana possanza dell’aspetto, un’altezza fittizia, virtuale, che si completava nelle spalle voluttuose e plastiche tipiche dell’atleta antico, quello greco, il lottatore di cesto, o il discobolo di Prassitele. Il viso era di un etruro datato e molto vecchio, la fronte larga e spaziosa, la bocca sensuale, il naso triangolare, da “Svevo chiavatore”, lo sfotteva Lorenzo. E gli occhi di un azzurro intenso, color ametista, complementari di quel biondo brunito dei capelli smossi da un fluire di onde, che non eran boccoli, ma pieghe di un crine mansueto e molto fine, che si agitava, quando moveva la testa.
Poi arrivò una sferzata di vento tale, mista a grandine, che si precipitarono di corsa verso l’uscita, cercando riparo nelle macchine aggrondate di pioggia, che li aspettavano all’uscita. Il prete, a quel refolo violento, si alzò la sottana, e fece un balzo da stambecco impaurito, quasi ad invocare aiuto dal diluvio che lo stava trascinando nel gorgo della morte, ed il sagrestano gli andò appresso, mezzo rovesciando l’acqua benedetta, anche lui preso dagli “spirdi”. Una scena semi- comica che lo fece sorridere, mentre zia Adelina, quasi si rovesciava, ghermita da un riso convulso.
“Veni duva nui; accussì ni dici tuttu”,
impose zio Mimì. Evidentemente Marzia gli aveva accennato della sua decisione di restare nell’Isola, e Mimì sembrava compiaciuto, quasi lusingato, o, direi grato a Jacopo per quella scaturgica, che forse gli sembrava un sacrificio da parte sua, ma anche un segno di amore sconfinato non solo verso la terra natia, ma soprattutto verso la famiglia. Ripararono a casa di Domenico e Adele; si asciugarono alla meglio e Marzia volle passare il phon sui bei capelli del cugino, mentre la zia lo metteva in mutande e gli asciugava i calzoni sul termosifone.
“Allora: qual è la tua decisione?”
Volle sapere con insistenza lo zio. E Jacopo parlò, giammai del suo sogno o della sua missione, ma mentì ancora, parlando di una promessa fatta a papà in punto di morte: che lui ci sarebbe restato nell’Isola, in cui avrebbe seppellito anche mammà, quando non ci fosse stata più. Ma doveva dar loro una delusione: non si sarebbe fermato in città, ma si sarebbe trasferito là a Chiattine, in campagna, nella loro campagna.
“Ma ddra c’esta sulu na casa menza sdirupata.”, obbiettò lo zio:”Non potresti mai viverci.”
“La ricostruirò con le mie mani e l’aiuto dei mezzeri. “, rispose Jacopo.
“E fino a quando la casa non sarà terminata, soggiornerà da Cosimino, il fittante.”, obbietto Adele.
“Certo, gli pagherò il disturbo, con un canone mensile.”
“Allora ti curerai tu di tutti gli affari.”, disse lo zio.
“Certo, e se sei d’accordo trimestralmente, ti passerò la rendita tua. Ma c’è una mia richiesta zio, che è una proposta vincente, in senso commerciale: voglio produrre solo in modo naturale, senza l’ausilio di fertilizzanti; insomma Eco – Agricoltura, Agricoltura Biologica. Andrà a ruba!”
“ E non lo fai solo per il denaro, vero cugino? Lo fai anche per ideologia politica, se non sbaglio!”
“E non solo per questo, ma soprattutto perché sono convinto che i fertilizzanti e i diserbanti, facciano male alla terra, impoverendo di ammonio e cloro i Sali minerali.” Poi rivolto allo zio: “Acqua ndesta ziu?”
“L’eterno problema delle isole: L’acqua! No Jacopo, ndesta poca!”
“Farò venire degli esperti e scaverò dei pozzi artesiani e comprerò coi primi soldi un sistema di irrigazione nuovo di zecca.”
“Di quanto hai bisogno per tutto questo? Ti do io tutto, anche la parte tua e di mammà.”
“Partimu e ducentu milioni, ziu; ma aju nu pianu, cchi poi ti dicu, con i contadini.”
“Li vuoi fare partecipare alle spese?”, suggerì Marzia.
“Li voglio far diventare soci in tutto: profitti e perdite.”
“Ma gli dovrai cedere parte delle terre.” Obbiettò Lorenzo.
“Certo! E questo mi sembra logico, oltre che umano. Ma vedrai Lorenzo, col nostro 30% guadagneremo tre volte tanto quello che non guadagniamo con il 100.”
“Fa tu amura; nui ni fidamu e tia!”
Si fermò ancora per una settimana Jacopo, il tempo di farsi venire un po’ di roba e di soldi da Milano. Poi partì…e non fu solo l’avventura, ma la cecità di Edipo, dopo l’incesto con Giocasta, la profanazione della madre, quella che lo aveva partorito con dolore, la madre isola, oramai malata di un botulismo inguaribile, che lui profanò forse, ma per guarirla e stendere su di lei il velo misericordioso della bellezza e della qualità, quella che avrebbe scandagliato e superato le ere, restando come Vergine Purpurea nelle spire della memoria umana.