Il pensiero e l’agire politico di Hannah Arendt, Ester Saletta

Il pensiero e l’agire politico di Hannah Arendt

Ester Saletta (Università di Bergamo)

1.1.            Introduzione

 

Messa all’indice dalla comunità ebraica, perché accusata di calpestare tombe ancora fresche, avendo apertamente contestato l’atteggiamento dei consigli ebraici di fronte al nazismo; sospettata di complicità con i carnefici delle SS per avere ritratto gli aguzzini dei campi di sterminio alla stregua di ingenui superficiali, per niente sadici, l’ ‘ebrea tedesca ricercata dai nazisti’, come lei stessa amava definirsi, è non solo una donna, che conosce l’amara esperienza dell’esilio forzato per motivi razziali, sotto la dittatura nazista in Europa, ma è anche una filosofa esistenzialista[1], innovatrice della tradizione metafisica classica, che teorizza la modernità nelle sue forme più aberranti di potere ideologico, come il totalitarismo stalinista e nazista.

Un nome, quello di Hannah Arendt (1906-1975), che, da tempo, è quasi esclusivamente sinonimo di testimone oculare della ‘banalità del male’ nel processo di Norimberga ed in particolare nel caso Eichmann.

Libera pensatrice solitaria, dall’accesa passione per la chiarezza razionale, Hannah Arendt è, da sempre, alla ricerca di una risposta ontologica al ‘male di vivere’ moderno e la sua è una costante interrogazione, che mette in discussione concetti filosofici e politici tradizionalmente indiscutibili come l’unicità dell’Essere, l’immutabilità dell’identità soggettiva, l’isolamento sionista antisemita, la volontà menzognera della politica di agire democraticamente. E’ un processo razionale, quello della Arendt, scaturito da un’acuta osservazione oggettiva del fallimento della filosofia e della politica tradizionale nel suo rapportarsi ai nuovi bisogni dell’umanità, prima destrutturati e poi ricostruiti performativamente sulle ceneri delle categorie filosofiche classiche del pensiero di Platone, di Aristotele e di Kant. Hannah Arendt procede affondando le radici del suo argomentare filosofico nella necessità individuale, che è anche della stessa Arendt come donna ebrea discriminata, di dare una risposta concreta al sentire identitario assillante e, per questo, propone soluzioni alternative al nichilismo nietzschiano del ‘Dio è morto’.

 

1.2 Pensare l’Essere fra passato e futuro. La nuova antropologia filosofica di Hannah Arendt

 

Agli occhi di qualsiasi indagine ermeneutica, il pensare e l’agire filosofico-politico di Hannah Arendt non è di facile comprensione, né tanto meno di immediata catalogazione, vista la peculiare polivalenza dei suoi contenuti. Ma, ancora più difficile, è riuscire ad associare il contributo culturale ed intellettuale di Hannah Arendt al discorso teorico sulla differenza di genere e sulla sua conseguente interazione con il motivo delle pari opportunità all’interno del contesto sociale e politico del suo e del nostro tempo. Il motivo di tale difficoltà risiede essenzialmente nel fatto che il rapporto di questa donna, ebrea, per lungo tempo apolide e, successivamente, esule per motivi razziali, con le problematiche sollevate dal femminismo è stato pressoché nullo, come ricorda Renate Genth nel suo volume dal titolo Frauenpolitik und politisches Handeln von Frauen. Ein Versuch im Licht der Begrifflichkeit von Hannah Arendt (La politica femminile e l’agire politico delle donne. Un contributo alla luce del pensiero di Hannah Arendt, 2001)

 

Denn Arendt war die Frauenbewegung, vorsichtig ausgedrückt, zutiefst fremd. Über Frauen im Plural oder die Frau im kollektiven Abstraktum hat Arendt insgesamt nicht viel gesagt. Und das wenige macht deutlich, daß sie die Frauenbewegung, ja die Emanzipation, wie sie von der Frauenbewegung verstanden wurde, nicht schätzte.[2] [Perchè alla Arendt il movimento femminista, detto con tutte le cautele del caso, fu estremamente sconosciuto. Sulle donne come pluralità o sulla donna come collettivo astratto la Arendt non ebbe da dire gran chè. E questo fa chiaramente intendere che non apprezzava il movimento femminista, sì l’emancipazione, così come il movimento femminista la intendeva]

 

Non bisogna, per questo, comunque, dimenticare anche un secondo fattore di impedimento aggiuntivo alla difficoltosa comprensione dell’indifferenza personale arendtiana verso le questioni delle donne. Fattore, questo, rintracciabile nella concezione del sapere intellettuale, che, a detta della Nostra, non può più continuare a mantenere inalterato il modello classico del poeta-esteta, estraniato dal vivere, e perennemente in preda ad un’astratta contemplazione del mondo. Questo, perché l’intellettuale della Arendt, volendo usare un termine giornalistico e televisivo oggi fin troppo inflazionato, deve essere embedded, ossia arruolato al seguito di una guerra in favore della conoscenza, che lo vede militante attivo nella ricerca della Verità, mai assoluta e autoritaria, ma sempre opinabile e libera, perchè a tutela della pluralità degli individui.[3] Ciò nonostante, comunque, alcuni critici, come Tuija Pulkkinen, Bonnie Honig o Dana Villa, hanno evidenziato, negli scritti della Arendt, la presenza di una terminologia lessicale di chiara derivazione femminile, soprattutto riferita all’uso di vocaboli come ‘natalità’, ‘maternità’ e ‘performatività’. Proprio ad essi è dato, infatti, l’avvicinamento dell’indagine speculativa della Arendt alle filosofe del gruppo DIOTIMA, capeggiate da Luisa Muraro, alle iscritte della Libreria delle Donne di Milano[4], come anche alle sostenitrici delle teorie di genere dell’americana Judith Butler.[5] Non a caso, quindi, la tipologizzazione del pensiero arendtiano continua ad essere in permanente oscillazione fra classicità e modernità, fra passato e futuro, ossia fra la conservazione delle categorie filosofiche del pensiero greco classico e fra la trasformazione post-moderna dell’identità soggettiva introdotta da Jean François Lyotard.

 

Das ‘Selbst’ ist wenig, aber es ist nicht isoliert, es ist in einem Gefüge von Relationen gefangen, das noch nie so komplex und beweglich war. Jung oder alt, Mann oder Frau, reich oder arm, ist es immer auf ‚Knoten’ des Kommunikationskreislaufes gesetzt, seien sie auch noch so unbedeutend.[6]

[L’Io è poco, ma non è isolato, è intrecciato in una serie di relazioni, che non è mai stata così complessa e in movimento. Giovane o vecchio, uomo o donna, ricco o povero, l’Io è sempre costituito da un nodo di relazioni comunicative, anche se fossero ancora non significative]

 

Se è noto che il pensiero filosofico di Hannah Arendt affonda le sue radici in quello Aristotelico[7], ricusando pertanto la metafisica di Platone[8], è di certo noto anche come l’agire politico, teorizzato dalla Arendt, sia essenzialmente costruito sulla capacità dialogica e performativa dell’Essere di rapportarsi con il mondo esterno. Matrici classiche s’intrecciano, pertanto, con matrici contemporanee, dando luogo ad un processo di ri-definizione dell’ontologia e della politica esistenziale, che premia la pluralità dell’Uno a scapito dell’unicità monadica e dell’omologazione di massa dell’Essere.

In questo nuovo processo di costruzione identitaria, filosofico-politica, la Arendt si avvale sia della sua esperienza personale, di donna ebrea esule ed emarginata, umiliata, discriminata e segregata nella realtà concentrazionaria del campo francese di Gurs[9], dove ha convissuto con la follia razionale dell’ideologia nazista, sia dei suoi studi sulla necessità di modernizzare il pensiero metafisico e politico della classicità. Di qui il rispecchiarsi della Nostra nella biografia Rahel Varnhagen: Lebensgeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik (Rahel Vernhagen: Storia della vita di una ebrea tedesca del Romanticismo, 1959), scrittrice romantica, donna culturalmente impegnata nella Germania ottocentesca, che vide la propria esistenza marchiata, fin dalla prima infanzia, dall’inferiorità di una nascita infame, perché donna e perché ebrea  

 

Andare in giro con un nome ebreo, che si considera una vergogna e una turpitudine, significa rinunciare ‘all’esistenza esteriore’, significa essere sempre eccezionali, dimostrare sempre un’eccezionale esistenza interiore, dover legittimarsi e non passare mai inosservati.[10]

 

Unitamente alla condivisione empatica per il vissuto della Varnhagen, la Arendt nutre un profondo sentire anche per la filosofia esistenzialista del suo mentore ed amante Martin Heidegger (1889-1976), così come, in un primo momento, anche per le idee assimilazioniste del sionista Kurt Blumenfeld (1884-1963).

L’incontro con Martin Heidegger, a Marburg nel 1924, e la successiva relazione sentimentale tra i due, alquanto turbolenta e per lo più clandestina[11], sono vissuti da entrambi come momenti di alta ‘rivelazione’ e di profonda trasformazione esistenziale. La Arendt, infatti, dal canto suo, vede in quell’uomo dalla fronte aggrottata, dalle guance cadenti e dagli occhi abbassati, di diciassette anni più vecchio di lei, già padre di due figli, che di solito indossa «una sorta di giacca da contadino della Foresta Nera con ampi risvolti e un colletto militare, il tutto di una stoffa marrone (…) Il marrone del vestito si adattava ai suoi capelli corvini e al colore olivastro del viso»[12], l’incarnazione della raggiunta messa in atto del pensiero filosofico di Edmund Husserl (1859-1939), nonché quella figura paterna, di confidente fidato, a cui potere raccontare debolezze e ricordi di un’infanzia difficile, vissuta fra la perdita precoce del padre sifilitico ed il nuovo matrimonio dell’autoritaria e soffocante madre.

 

Das Gerücht sagt es ganz einfach: Das Denken ist wieder lebendig geworden, die totgeglaubten Bildungsschätze der Vergangenheit werden zum Sprechen gebracht, wobei sich hergestellt, daß sie ganz andere Dinge vorbringen, als man mißtraurisch vermutet hat.[13]

[Si dice semplicemente: il pensiero è di nuovo ritornato alla vita, agli spettri delle fantasie del passato è ridata la parola, in cui si evince, che propongano altre cose da quello che ci si era aspettati con scetticismo.]

 

Heidegger, invece, dal canto suo, percepisce il suo essere oggetto di attenzioni e di ammirazione incondizionata da parte della giovane allieva Arendt, elegante e borghese, sia come la conferma del rafforzamento del suo radicato egocentrismo, sia come l’imborghesimento della sua natura brillante, ma pur sempre di origine contadina.

 

Era un piccolo grande uomo misterioso, sapiente incantatore (…) La sua tecnica espositiva consisteva nel costruire un edificio concettuale che poi lui stesso demoliva per porre l’ascoltatore ansioso di fronte ad un enigma e lasciarlo sospeso nel vuoto. Quest’arte ammaliatrice aveva talvolta conseguenze estremamente gravi, perché soggiogava persone più o meno psicopatiche, tant’è che una studentessa, dopo tre anni passati a risolvere enigmi, si suicidò.[14]

 

La dimensione mefistofelica-demoniaca e la spiccata capacità oratoria di Heidegger, qui riproposta dalla citazione di Karl Löwin, plagiano ed ammaliano l’ascoltatore a tal punto da sembrare già il giusto preludio alla futura scelta del filosofo di volere abbracciare il credo hitleriano. Decisione, questa, che sarà supportata ed incoraggiata anche da Elfriede, moglie di Heidegger, convinta femminista militante, che si batté per i diritti delle donne, e che aiutò il marito, negli anni ’50, a stendere l’arringa difensiva a favore dell’operato filo-nazista dello stesso Heidegger.

Convincere l’opinione pubblica internazionale dell’innocente militanza di Heidegger nelle file dell’ideologia hitleriana, solo perché a difesa del suo credo anticomunista e del suo desiderio di rinnovamento del popolo tedesco, non fu sufficiente a fare dimenticare ai più l’ingenuità del filosofo di Marburg, che dichiarò di non avere mai letto il Mein Kampf dal principio alla fine. Nonostante la stessa Arendt condividesse l’affermazione di Karl Jaspers su Heidegger – «Mi perdonerà se Le dico ciò che qualche volta ho pensato: che Lei sembrava comportarsi verso il nazionalsocialismo come un ragazzo preda dei sogni, che non sa che cosa sta facendo […] e che presto si ritrova inerme di fronte ad un cumulo di macerie e si lascia portare sempre più in basso»[15] – non mancò mai di apprezzare il valore moderno delle teorie filosofiche del suo maestro, tanto che se ne servì per ridefinire le categorie ontologiche dell’Essere e dell’ ‘eccezionalità’ dell’identità ebraica.

Ristrutturare l’Essere significava, sia per Heidegger sia per Arendt, superare la dimensione di unicità passiva, a-spaziale ed a-temporale, immutabile, delle Idee platoniche e dell’imperativo categorico kantiano, oramai non più rispecchianti il rapporto fra Io e Mondo. Il che porta alla proclamazione arendtiana di una soggettività contestualizzata nel Reale, costantemente in movimento, come lo era il ‘DASEIN’ (l’Esserci) di Heidegger, unico nella sua entità, ma non per questo isolato e monodico. Si tratta anche di affermare l’esistenza di un Essere plurale, aperto al confronto dialogico con l’esterno e con la diversità, diventato parte integrante di una natura originaria mutata rispetto al suo relazionarsi con l’Altro. Non più un Io nella dimensione esistenziale auto-referenziale, accentratrice e superominica di Friedrich Nietzsche, e neppure un Io omologato e massificato alla Karl Marx, in cui l’unicità soggettiva e quindi la diversità individuale coincidono con il concetto di uguaglianza indifferenziata, ma un ‘Io-Noi’, che non è il risultato della soppressione del particolare nell’universale, bensì del processo osmotico, in cui l’ ‘eccezionalità’ dell’Io arricchisce la diversità della pluralità.

 

Il fatto che questa uguaglianza proceda insieme alla ‘distinzione’ che non va intesa come riduzione all’identico  e all’invariabile, ma come parità fondamentale che autorizza la possibilità di azioni e parole ‘rivelatrici’ che ci distinguono dagli altri manifestando la nostra identità più peculiare.[16]

 

Nasce, pertanto, la nuova duplice definizione ontologica dell’Io come ‘WAS’ (che cosa), ossia come Essere unico, partorito dal processo naturale della Gebürtigkeit (natalità), e come ‘WER’ (come), ossia come entità soggettiva variabile, che dialoga con l’Altro in una cornice a marca culturale storico-sociale (KULTUR). E chi se non la stessa Arendt poteva dire di avere già esperito la veridicità concreta di una tale metafisica antropologica? Lei, che aveva già esperito l’essere donna (WAS) unitamente all’essere ebrea (WER), e che, a fatica, aveva già cercato di fare dialogare queste due “eccezionalità”, intende ora indagare anche il loro relazionarsi studiando quelle dinamiche di rapporto, che si sviluppano all’interno di un contesto reale e contingente come quello dei totalitarismi e delle democrazie. Per questo Hannah Arendt recupera il pensiero dell’ebreo Martin Buber, secondo cui la dimensione di confronto dialogico dell’Io con l’Altro riflette la quotidiana conversazione fra ICH (io) e DU (tu). E la Arendt attribuisce a questo dialogare fra Io e Non-Io, sulla scia dei post-moderni, come Judith Butler, una valenza performativa, quasi si trattasse di un raccontarsi autobiografico, in cui la parola reiterata e contestualizzata assume valore di azione, che consente il passaggio dalla natura soggettiva, di stampo puramente biologico (WAS), all’identità di genere (WER), mai ‘marcata’, ma solo ‘indifferenziata’ nel suo essere diversità tout court.

 

Tramite il ricorso del racconto, otteniamo una identità, una stabilità instabile; è raccontandoci che ci diamo una identità, che raggiungiamo una certa concatenazione delle nostre azioni, che guadagniamo una qualche persistenza, non sostanziale, nel tempo.[17]

 

La dimensione femminile ed ebraica della biografia/autobiografia di Rahel Levin Varnhagen alias Hannah Arendt, è, senza dubbio, da considerarsi elemento di diversità, di epentesi rispetto all’ordine naturale tradizionale, monolitico, maschile e immutabile, ma non per questo deve essere soppressa, tramite processi di assimilazione, di antisemitismo sionista o di sterminio razzista. Il vissuto biografico della Arendt, così come quello della Vernhagen, testimoniano il fallimento di tali processi di annullamento della diversità, a fronte del rafforzamento della considerazione negativa del genere. L’assimilazione, mediante conversione (per es. tramite il battesimo) ad altro credo religioso oppure l’unione matrimoniale con appartenenti ad altra estrazione sociale, altro non sono se non identità fasulle, costruite sulla volontà di rinnegare l’identità originaria della nascita.[18] La conseguenza non può che essere una condizione di esilio interiore, a cui corrisponde il livellamento identitario e quindi l’omologazione di massa.

 

Lei, la non integrata, la non integrabile, si innamora di uno straniero, Urquijo, uno straniero per cui non è un’ebrea, non ha bisogno di legittimarsi di fronte a lui. Il suo amore per Urquijo, è il ‘naufragio’, l’esilio’: non un luogo, quindi, bensì il non luogo dell’estrema perdita, dell’ultima disperazione. […] nel folle slancio dell’errante verso un altrove sempre respinto, inappagato, inaccessibile si consuma il sacrificio della madre, e così della propria origine. Questa origine Rahel l’ha fuggita, e […] la straniera Rahel è di essa la traditrice.[19]

 

Alla metafora dell’esilio, Rahel Varnhagen aggiunge anche quella dell’albero «sradicato dalla terra e poi ripiantato alla rovescia»[20], che ripropone l’immagine dello straniero, possessore di quella ‘estranietà’ di osservazione del Sé e del mondo, tale per cui si trova ad essere un individuo libero da qualsiasi legame omologante, in piena solitudine, a metà fra l’essere paria e l’essere parveneue.[21] Mentre il primo vive, come la Arendt, nell’anelito costante di riuscire a superare la sua natura estranea, che lo limita e che gli invalida il quotidiano, il secondo, come Rahel, vive, invece, in una condizione esistenziale artificiale, prodotta dal processo di rinnegamento della propria vera identità originaria. Lo stato di parveneue rispecchia quei tentativi sionisti di volere combattere l’antisemetismo, e quindi la condizione di paria, attraverso la costruzione di una dimensione territoriale e sociale a sola presenza ebraica. Non ci si rende conto, invece, di come un simile isolamento ontologico, a detta della Arendt, rafforzi il sentire negativo della collettività verso la diversità, a tal punto da giungere alla brutale soppressione della stessa mediante la violenza, come avvenne per l’appunto sotto i sistemi totalitari. La memoria storica, infatti, si fa memore del valore segnico negativo della diversità, che non cambia, anzi si potenzia, con l’assimilazione omologante, così come con la soppressione violenta. Questo, perché la valenza negativa della diversità non è intrinseca alla natura (WAS), ma alla concezione della stessa (WIE) da parte dell’immaginario collettivo (KULTUR). Il percorso metafisico, proposto dalla Arendt, si  muove nella direzione di una ristrutturazione del WER ICH BIN (come si è) alla luce dell’agire dialogico, dell’interrelazione comunicativa fra Io e Mondo. Prendere coscienza della necessità di fare dialogare la particolarità con l’universalità, costruendo in tal modo UNA dimensione ontologica PLURALE dell’Essere, significa parlare di un DASEIN, completo, unico, non isolato e chiuso verso l’esterno, memore della sua Gebürtigkeit a tal punto da esserne orgoglioso.

 

Solo alla fine della vita, Rahel rifiutando l’assimilazione, trova la sua via verso il mondo attraverso il recupero della condizione di paria. Proprio perché ha accettato le sue origini, la sua natalità e quindi l’appartenenza ad una tradizione particolare, ottiene il suo diritto alla storia e quindi alla presenza.[22]

 

1.2.            L’agire politico di Hannah Arendt. Dialogo ontologico fra particolarità e pluralità dell’Essere

 

Die abendländische Tradition politischen Denkens hat einen klar datierbaren Anfang, sie beginnt mit den Lehren Platos und Aristoteles’. Ich glaube, sie hat in den Theorien von Karl Marx ein ebenso definitives Ende gefunden.[23]

[La tradizione occidentale del pensiero politico ha un inizio chiaramente databile; inizia con gli insegnamenti di Platone e di Aristotele. Credo che abbia trovato poi la sua fine definitiva nelle teorie di Karl Marx]

 

Così queste parole di Hannah Arendt riassumono la storia del pensiero politico occidentale, la cui origine è fatta risalire sia alla Repubblica di Platone sia alla concezione aristotelica della polis. Se, nel primo caso, Platone prospettava l’origine dello Stato come conseguenza della necessità di soddisfare i bisogni naturali dell’uomo e proponeva, pertanto, una struttura politica, incardinata in un sistema auto-referenziale ed autonomo, come lo era il mondo intelligibile delle Idee (Iperuranio), Aristotele, invece, confutando il principio in base al quale le Idee, essenze e forme delle cose, potevano sussistere solo in quanto separate dalla cose, rilanciava il problema del comprendere la politica nella sua dimensione non ordinata, non razionale, non immutabile e quindi costantemente soggetta al cambiamento epocale. Difficile, a questo punto, riuscire a stabilire la forma di governo politico migliore, mentre, decisamente più facile, è riflettere sulla ‘bontà’ della politica, ossia sulla sua funzione per il conseguimento del bene pubblico. Questo ragionamento di Aristotele sulla politica sposta il focus del filosofare politico dall’oggetto (DIE POLITIK) al modo di fare politica (DAS POLITISCHE) non negando, comunque, l’evidenza reale di una loro interrelazione. Non a caso, infatti, la teoria politica di Aristotele, di cui quella della Arendt, per certi aspetti ne è fortemente influenzata, necessita inevitabilmente di un recupero della categoria ontologica aristotelica. Senza una comprensione della nuova dimensione metafisica dell’Essere anche la natura della politica non può essere definita se non in maniera astratta e anacronistica. Il constatare, da un lato, che l’Io non è più solo un ICH, ma un DASEIN, così come, dall’altro, il ricordare esperienze storiche totalitarie, spingono la Arendt a mettere l’accento del suo pensiero politico su quella che era stata la categoria caratterizzante la dimensione politica aristotelica, ossia il ‘fare’ politica. E poiché il pensiero ontologico arendtiano presenta un DASEIN dialogante con il contesto plurale delle diversità, anche l’agire politico deve crearsi uno ‘spazio comune’ di confronto dialogico, in cui viga la massima libertà di espressione e la tolleranza, non ipocrita, della diversità. Strutturare l’azione politica sulla base del libero confronto dialogico fra particolarità e pluralità dell’Essere, implica la messa in atto di una serie di ‘misure’, che regolano la performatività del processo relazionale fra l’UNO e i PIU’. Ma già l’accezione di misura porta con sé una dimensione di significato fortemente limitativa e lesiva della libertà, tanto che ci si chiede fino a che punto la misura dell’agire politico, dialogico, individuale e plurale, possa permettere l’espressione vera dell’agire stesso. La risposta a ciò implica per Hannah Arendt il recupero, ancora una volta, di una categoria filosofica aristotelica, come l’entelechia, capace di tracciare il limite e quindi la misura ultima dell’agire. Grazie all’entelechia, la Arendt giunge a stabilire, che l’azione politica è in giusta misura solo fino a quando non blocca il processo dello sviluppo del soggetto umano. E perché ciò possa trovare riscontro nel Reale è necessario, che l’agire politico sia preceduto dal pensare politico, qui non inteso come il pensare del singolo per il singolo, bensì il pensare del singolo per il collettivo. Questo significa, che l’agire politico ‘a misura’ deve essere un agire ‘pensato’ da UNO per MOLTI, dove al volere politico particolare deve corrispondere una potenzialità di azione plurale. Pensare la politica, secondo questi parametri, significa fare ricorso all’uso di un ‘potere’, che «corrisponde alla capacità umana non solo di agire, ma di agire di concerto», perchè si tratta, infatti, di un potere che «non è mai proprietà di un individuo; appartiene ad un gruppo e continua ad esistere soltanto finché il gruppo rimane unito.»[24] Se il potere diventa un fatto strumentale, imposto dalla sola volontà di agire del singolo per il singolo, viene meno la capacità del potere di dialogare con la pluralità dei singoli, e non ne può che conseguire un atto politico di violenza.

 

La violenza, essendo strumentale per natura, è razionale nella misura in cui è efficace nel raggiungere il fine che deve giustificarla. […] La violenza non promuove cause […] Non c’è dubbio che la violenza ‘paghi’, ma il guaio è che paga in modo indiscriminato. [25]

 

Perché il potere non degeneri in violenza e continui ad esercitare la sua azione politica come espressione di un’autorità ‘a misura’, la Arendt teorizza la necessità secondo la quale i governanti si avvalgono della Legge, ossia di un insieme di strumenti, prima fra tutti la Costituzione, che consentono di tenere sotto controllo l’operato di colui che è stato designato ad essere il portavoce dell’autorità politica. Il concetto di Legge, ipotizzato dalla Arendt, non è quello di uno strumento prescrittivo sul come agire politicamente, ma quello limitativo al degenerare del potere in violenza e dell’autorità in dominio. L’esperienza storica dei regimi totalitari ha, di contro, dimostrato come questa triade Potere-Legge-Autorità non sia stata applicata al Reale, visto che il Potere, a causa della presenza di una Legge sregolata e menzognera, agiva in modo dominante e non autoritario. La sregolatezza non veritiera della Legge totalitaria ha caratterizzato non solo i sistemi nazisti e stalinisti, ma anche i sistemi democratici, come quello americano. Sia la guerra del Vietnam sia la più recente Guerra del Golfo in Iraq hanno visto la democrazia americana legittimare una politica della menzogna, come testimonia l’analisi arendtiana dei Pentagon Papers nel 1971. In essi, infatti, si assiste alla strumentalizzazione della menzogna, fisiologizzata e sistematicamente pensata dal sistema di potere americano, tanto da essere creduta veritiera e quindi per questo dannosa al sistema democratico stesso. Rendere fisiologica la menzogna, attribuendole prerogative di veridicità di fatto, non può che ledere la verità di opinione.[26] Non così, invece, se la menzogna è occasionale e conserva lo stato naturale di non-verità, venendo utilizzata solo come rafforzamento saltuario dell’autorità politica dialogante.

 

1.3.            Conclusioni

 

Il contributo, qui presentato, ha voluto celebrare l’attualità di pensiero e di azione di Hannah Arendt, donna polivalente nel mondo della cultura occidentale mondiale, partendo dalla descrizione del suo impegno sociale e politico alla luce del contesto novecentesco, minacciato dall’insorgere del totalitarismo, a cui, a fatica, la democrazia ha cercato di opporsi. Il desiderio di sconfiggere la violenza, di sostenere l’integrazione religiosa e di salvaguardare i diritti umani indussero la Arendt a ridefinire le categorie ontologiche della filosofia classica e con esse a teorizzare un’antropologia filosofica, che prospettava l’esistenza individuale alla pari di una soggettività plurale, in costante dialogo con l’alterità.  

Bibliografia

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[1] Con il termine ‘esistenzialismo’ si vuole qui intendere quell’indirizzo filosofico contemporaneo che assume a proprio tema specifico l’esistenza come modo di essere caratteristico dell’uomo rivendicando ogni riduzione dell’esistente ad oggetto totalizzato. Riprendendo il pensiero di Kierkegaard, Jaspers ed Heidegger rinnegano la dimensione omologante del ‘sistema’ per contrapporvi la centralità ontologica dell’Essere. Di qui il venire meno di una metafisica universale, alla quale si sostituisce un discorso filosofico del ‘possibile esistenziale’.

[2] Renate Genth, Frauenpolitik und politisches handeln von Frauen. Ein Versuch im Licht der Begrifflichkeit von Hannah Arendt, Frankfurt a/Main, Peter Lang, 2001, p. 30

[3] Simili posizioni circa la partecipazione attiva degli intellettuali in questioni politiche di vitale importanza per il nuovo assetto esistenziale della modernità, dopo la drammatica esperienza di forme di potere totalitarie, si riscontrano anche nell’inglese Ruth Norden (1906-1977), interlocutrice epistolare di Hermann Broch, e traduttrice dal tedesco all’inglese del suo romanzo Der Tod des Vergil (1945). Cfr.lettera di Ruth Norden a Hermann Broch, datata 21.02.1946 in Hermann Broch-Ruth Norden. Transatlantische Korrespondenz a cura di Paul Michael Lützeler, Frankfurt a/Main, Surkamp, 2005, p. 136

[4] Cfr. Andrea Günther, Die Welt zur Welt bringen. Das Symbolische, Politik und Gebürtigkeit bei Hannah Arendt, den DIOTIMA-Philosophinnen und den Frauen des Mailänder Frauenbuchladens in “Die Neubestimmung des Politischen. Denkbewegungen im Dialog mit Hannah Arendt“ a cura di Heike Kahlert/Claudia Lenz, Königstein, Ulrike Helmer Verlag, 2001, pp. 167-197

[5] Cfr. Tuija Pulkkinen, Hannah Arendt zur Identität: Zwischen Moderne und Postmoderne in op.cit., pp. 47-77

[6] Jean-François Lyotard, Das postmoderne Wissen a cura di Peter Engelmann, Wien, Edition Passagen, 1999, p. 55

[7] Cfr. Alessandro Dal Lago, La città perduta, saggio introduttivo a Vita Activa di Hannah Arendt, Milano, Bompiani, 2004, pp. XI-XIX

[8] Cfr. Fina Birulés, Filosofia e modernità: Hannah Arendt in “Atti del Convegno Internazionale di Lecce” (1992), Edizioni Micella, pp. 917-923

[9] Cfr. Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, Torino, Bollati Boringhieri 1990, pp. 188 e sgg.

[10] Hannah Arendt, Rahel Varnhagen. Lebensgeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik, Piper, München 1959; trad.it. a cura di Lea Ritter Santini, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, Milano, Il Saggiatore 1988, p. 125

[11] Cfr. Elzbieta Ettinger, Hannah Arendt e Martin Heidegger. Una storia d’amore, Garzanti, Milano 1996, pp. 41-56 e sgg.

[12] Karl Löwin, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, Metzler, Stuttgart, 1986, pp. 42-43; trad.it. di Enzo Grillo, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano, 1988, pp. 69-70

[13] Hannah Arendt, Martin Heidegger ist achtzig Jahre alt in “Merkur“, Nr.10/1969, pp.893-902. Qui citato da Walter Biemel, Martin Heidegger in Selbstzeugnissen und Dokumenten, Hamburg, Reinbeck, 1973, p. 12

[14] Karl Löwin, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, Metzler, Stuttgart, 1986, pp. 42-43; trad.it. di Enzo Grillo, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano, 1988, pp. 69-70

[15] Walter Biemel/Hans Saner (a cura), Martin Heidegger/Karl Jaspers Briefwechsel 1920-1963, Klosterbaum, Frankfurt a/Main 1990, p. 196-198

[16] André Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Roma, Edizioni Lavoro, 1984, p. 40

[17] Giovanna Bruno, Tra passato e futuro: Il pensiero di Hannah Arendt in “Atti del convegno internazionale di Lecce” (1992) a cura di Marisa Forcina, Angelo Prontera, Pia Italia Vergine, Lecce, Edizioni Micella, 1992, p. 920

[18] Cfr. Hannah Arendt, Vita activa, Milano, Bompiani 2004, p. 97-120 e Werner Goldschmidt, Das Politische und die soziale Frage bei Hannah Arendt in Geschichtliche Welt und menschliches Wesen a cura di Lars lambrecht/Eva-Maria Tschurenev, Frankfurt a/Main, Peter Lang, 1994, pp. 215-229

[19] Ibid. p. 840

[20] Rahel Varnhagen, Briefwechsel, Vol.II, a cura di F.Kemp, München, 1979, p. 106

[21] Cfr. Joanne Cutting-Gray, Hannah Arendt, feminism, and the politics of alterity ‘What will we lose if we win?’ in Hypatia’s Daughters. Fifteen Hundred Years of Women Philosophers a cura di Linda Lopez McAlister, Indiana University Press, Indianapolis 1996, pp. 284-287

[22] Giovanna Bruno, Tra passato e futuro: Il pensiero di Hannah Arendt in “Atti del convegno internazionale di Lecce” (1992) op.cit., p. 842

[23] Hannah Arendt, Fragwürdige Traditionsbestände im politischen Denken der Gegenwart, Frankfurt a/Main 1957, p. 9

[24] André Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, op.cit., p. 85

[25] Hannah Arendt, Sulla violenza, Parma, Guanda, 1996, p. 86-87

[26] Cfr. Olivia Guaraldo, La verità della politica in Hannah Arendt Lying in Politics. Reflections on the Pentagon Papers, Genova, Casa Editrice Marietti, 2006, p. XXIV

 

 

Ester Saletta (Università di Bergamo)
Ester Saletta, anglista e germanista, consegue la laurea in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Bergamo nel 1995. Nel 1999-2000 è borsista ÖAD nel Dipartimento di Germanistica dell’Università di Vienna e nel 2004 ottiene il titolo di Dottore di Ricerca in Germanistica presso la stessa Università di Vienna sotto la guida scientifica del Prof. Wendelin Schmidt-Dengler. Dal 2001 al 2005 insegna Lingua italiana presso l’Università di Vienna. Dal 2006 è cultore della materia ‘Pari Opportunità’ presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bergamo ed insegna Lingua e Civiltà Tedesca nella scuola superiore di secondo grado. Nel 2008 è borsista presso lo StifterHaus di Linz (Austria) per condurre un progetto di ricerca su Marlen Haushofer e nel 2010 è Associate Research Scholar presso The Italian Academy for Advanced Studies della Columbia University di New York dove svolge attività di ricerca su Hermann Broch, Giuseppe Antonio Borghese e Gaetano Salvemini.
Ester Saletta è autrice dei volumi Die Imagination des Weiblichen. Fräulein Else in der österreichischen Literatur der Zwischenkriegszeit (2006), Immaginare il femminile. La Signorina Else nella letteratura austriaca del Primo Dopoguerra (2007), Friedrich Hebbels und Hermann Brochs Frauengestalten in einer Gender-Studies Richtung: ein menschlicher und literarischer Vergleich (2007), Letteratura e pari opportunità. Un discorso interdisciplinare (2007), Racconti viennesi/Wiener Geschichten (2008), ‚Ein kleines Juwel’ – Die italienische Rezeption Marlen Haushofers. Mit besonderer Berücksichtigung ihres Kinderbuchs ‘Brav sein ist schwer’ (2010), di recensioni e saggi sulla Wiener Moderne, sulla Shoah e sugli studi di genere.  Ha recentemente tradotto in lingua italiana per Aracne editrice (Roma) i seguenti romanzi criminali dell’austriaca Edith Kneifl: Tra due notti (2009) e Mattinata triestina (2010). Dal 2005 è membro del Consiglio direttivo della Hebbel-Gesellschaft di Vienna, del Centro Internazionale per gli Studi su Hermann Broch (IAB), dell’Associazione Internazionale Germanisti (IVG), dell’Associazione internazionale germanisti austriaci (ÖGG) e dell’Associazione americana germanisti (MALCA).

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