In un delizioso saggio intitolato Gli Spiriti Elementari, Heine spiegò l’origine delle leggende sul Monte di Venere, anticipando un tema che poi sviluppò in un altro scritto molto raffinato, Gli Dei in Esilio. La sua tesi, esposta come al solito con apparente leggerezza blasfema, va capita nei suoi risvolti più profondi, che vorrei rapidamente chiarire. In pratica, dopo l’avvento del cristianesimo, gli dei dell’antichità classica furono costretti a rifugiarsi nei più remoti recessi dei paesaggi nordici. La loro esistenza nascosta simboleggia in realtà la sopravvivenza sotterranea nell’immaginario popolare – spesso tutelata da un corollario di folletti ed esseri boschivi appartenenti al paganesimo germanico (anch’essi banditi dalla religione ufficiale) – delle istanze culturali e psicologiche che le divinità antiche rappresentavano nella tradizione mitologica. In un simile contesto il Monte di Venere fu collocato dalla fantasia popolare nelle fatate foreste di Germania, vale a dire sotto la giurisdizione del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, storicamente e simbolicamente antagonista connivente del potere papale. Il Monte di Venere era ovviamente luogo di piacere carnale, ma data la sua collocazione geografica, era posto potenzialmente a disposizione dei cavalieri teutonici, paladini dell’amor sacro, ovvero di quell’ideale cortese che prevedeva la devozione verso la donna casta e pura, rappresentante terrena delle virtù mariane, e, con il sostegno morale di questo sentimento amoroso, la difesa del cristianesimo, che significava la tutela del Papa e dell’Imperatore, e quindi, in sintesi, di quel patto di stabilità politico-religioso chiamato feudalesimo. Appare evidente a questo punto che l’idea dell’occulta presenza di Venere racchiude in sé una valenza ambivalente: o meglio, ambigua quanto quella su cui si fondava il sodalizio antagonistico tra impero e papato. Rappresenta, infatti, la necessaria forza della tentazione carnale. Necessaria sia in termini biologici quanto culturali: perché sappiamo bene che senza il demonio i santi non saprebbero come dimostrare la loro santità, e senza l’incarnazione del male l’idea del sacrificio che conduce alla salvazione perde di fondamento. Così come senza un nemico ideologico le battaglie per l’affermazione del potere non trovano paladini disposti ad arruolarsi.
Per tutti questi motivi latenti nell’immaginario popolare, accadde che il buon Tannhäuser, storicamente un trovatore di Salisburgo vissuto nel tredicesimo secolo, che durante la sesta crociata seguì in Terra Santa l’imperatore Federico II di Hohenstaufen con un intera corte di menestrelli, fu trasformato in un improvvido peccatore, che dapprima volle sperimentare tutte le molli delizie che Venere era disposta a riservargli nella sua dimora nascosta, e poi, preso dalla paura della dannazione eterna, se ne andò coraggiosamente a prostrarsi davanti al Papa Urbano IV chiedendogli perdono. Ma il perdono gli fu negato, e il prode cavaliere risalì la penisola, valicò le Alpi, attraversò la Svizzera, giunse infine in Germania dove finalmente poté rifocillarsi senza remore presso l’amata Venere.
Secondo una variante della leggenda, Urbano IV sentenziò che soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare l’anima del cavaliere errante: bisognava che il suo bastone papale bianco, ricavato da un ramo secco, germogliasse. Il miracolo di fatto avvenne; ma un’ulteriore variante, che Heine ovviamente accoglie con sommo gusto negli Spiriti Elementari, vuole che i messi papali cercassero Tannhäuser per terre mari e monti, al fine di comunicargli che la sua anima era salva; ma il cavaliere viveva ormai felicemente segregato nel Monte di Venere, e non ebbe mai notizia del prodigio.
Invece Wagner lo redime, un po’ come Goethe aveva fatto con Faust: gettandosi pentito sulla salma della cara Elisabeth, morta di dolore a causa della sua tresca con Venere, Tannhäuser muore a sua volta, ma la sua anima si purifica.
La leggenda di Venere e Tannhäuser è stata ripresa anche da Aubrey Beardsley, che fece del trovatore un dandy e naturalmente insistette molto sulla raffinatezza delle sue avventure erotiche, e anche del suo abbigliamento.
Ma c’è una variante recentissima della leggenda che vorrei raccontarvi.
Tannhäuser non morì disperato sulla salma di Elisabeth, e nemmeno rimase per sempre nel Monte di Venere. Nonostante le rimostranze della dea, la abbandonò di nuovo e per sempre, spiegandole che questa volta andava via perché sentiva il desiderio fortissimo di generare una discendenza che potesse perpetuare il suo nome nei secoli, tra i mortali.
Venere, benché indispettita e addolorata, ferita nell’orgoglio e nel suo sentimento d’amore, continuò a vivere nei recessi del monte a lei intitolato, consolata di volta in volta da ignari viandanti che entravano lì per sbaglio e poi vi si trattenevano ringraziando la provvidenza, oppure da impavidi eroi che consapevolmente affrontavano ogni genere di asperità e intemperie pur di vivere per una volta nella vita l’ebbrezza di un’escursione con soggiorno nel Monte di Venere.
Accadde però che negli anni Trenta del ventesimo secolo, inorridita all’avvento della più efferata barbarie, la dea dell’amore e dell’eros, la quale ha molta più coscienza di quanta comunemente non le venga attribuita, prese una posizione logistica e morale: per orrore e protesta, decise di lasciare il paese che pur tanti secoli addietro l’aveva protetta dalla persecuzioni cristiane, e di migrare al sud, in terra italica, precisamente all’interno del colle Esquilino – non lontano dal Tempio di Venere e Roma – un po’ per riavvicinarsi geograficamente alle sue vere origini, un po’ perché le sembrava di capire che a quei tempi il Papa avesse altre preoccupazioni e forse non le sarebbe stato ostile. Era sì cosciente che anche lì non si praticassero le migliori delle doti umane, però aveva sentito dire che il ministro degli Esteri era persona amabile col gentil sesso e poco incline ad azioni belliche; e quindi si mosse con la speranza di poter fare qualcosa per il bene dell’umanità: sembra che il motto ‘fate l’amore non fate la guerra’ lo abbia coniato la dea, sussurrandolo dolcemente nelle orecchie del ministro, con l’intento segreto che questi lo riferisse al suo capo di governo. La scaltra operazione non ebbe proprio l’effetto sperato, e Venere rilanciò il suo motto qualche decennio più tardi, quando capì di avere maggiori possibilità di essere ascoltata.
Poi, come è ben noto, passò pure la grande stagione dell’amore universale, e la povera dea si annoiava a morte, perché i rampanti yuppies degli anni Ottanta persero il gusto per i giusti ideali e anche per la cultura classica, e nel monte non si presentava più nessuno.
Però un giorno – e si era ormai nel terzo millennio – accadde un prodigio. Venere era veramente depressa, in piena crisi di identità: aveva la nettissima sensazione che il suo ruolo erotico-istituzionale fosse irrimediabilmente decaduto, aveva il dubbio di non rappresentare più la necessaria forza della tentazione carnale, giacché il Papa non soltanto non le dava più noia da tempo, ma addirittura era impegnato a combattere altre forme di tentazione carnale che si erano sviluppate proprio all’interno della sua Chiesa. Un obbrobrio raccapricciante, che per il disappunto faceva invocare Gesù Giuseppe e Maria perfino a Bacco e ai suoi accoliti. E come se non bastasse, era ormai assodato che nella penisola italica imperversava un uomo molto potente, che aveva privata dimora nella gloriosa terra un tempo dominata dai Longobardi, il quale aveva l’abitudine di dare festini a luci rosse, ma così rosse che i comunisti avevano deciso di darsi un altro colore, perché al confronto la loro bandiera appariva un po’ sbiadita, e soprattutto gli amanti delle tentazioni carnali incominciavano a considerare obsolete le tecniche fascinatorie della bella dea.
Insomma, Venere meditava seriamente di lasciare l’Italia, ma prima di ritornarsene in Germania volle provare a trasferirsi a Napoli, dove forse la sua presenza avrebbe potuto risvegliare e solleticare il temperamento caldo della popolazione. All’inizio l’operazione sembrò riuscire benissimo: c’era un antro, nei pressi della tomba di Virgilio a Mergellina, che le sembrava particolarmente adatto ad accoglierla. In men che non si dica la notizia della sua occulta presenza si sparse per vicoli e quartieri. I napoletani si organizzarono prontamente: non tanto per rendere omaggio di persona alla bella dea, piuttosto per indirizzare scaltramente i turisti che scendevano alla stazione di Mergellina. Sulle prime sembrò un affare riuscitissimo sia per gli improvvisati operatori turistici, sia per la dea, che riacquistava fiducia in se stessa. Il flusso di visitatori era tale che a un certo punto, dato l’incessante viavai, fu necessario chiudere la stazione al traffico ferroviario. Da quel momento in poi, i turisti furono attesi alla stazione centrale da due gruppi di operatori: gli uni che indirizzavano le donne verso una corriera che da Piazza Garibaldi partiva alla volta di Capodimonte; gli altri, che scortavano i consorti fino a un pullman con la dicitura ‘Monte di Piacere’. Però a un certo punto ci si mise di mezzo la camorra, e Venere incominciò a storcere il naso. Ancor più lo storse quando perfino nel suo antro incominciò ad insinuarsi il nauseabondo odore della monnezza accumulata per strada, e benché a un certo punto sembrasse che il potentissimo magnate del bunga bunga sarebbe stato in grado, con la sola forza del suo amore per gli elettori e con l’ausilio accessorio delle forze armate, di ripulire la città una volta e per sempre, restituendole lustro, dignità e un sindaco non comunista, di fatto la situazione peggiorò a tal punto che Venere aveva ormai deciso di tornarsene in Germania, e aveva già dato disposizioni per il trasloco, quando, una sera, udì bussare al pesante portone che chiudeva l’accesso al monte.
Ordinò a una sua ancella di andare ad aprire, e questa dopo poco si ripresentò trafelata, visibilmente emozionata, con gli occhi sbarrati e le guance in fiamme. E disse: «Signora, c’è una visita per Lei». «Chi è?», le chiese Venere, turbata e incuriosita da tutta quell’ansia. «Signora non lo so, non ne sono sicura, cioè, credo di sapere chi sia ma non proprio con esattezza. Ė un uomo, gli ho detto di attendere in anticamera, perché Signora La prego, stia calma, ma credo che questa visita potrebbe turbarLa molto. Forse si rallegrerà, ma non è detto, forse invece si adirerà e io pensavo …» «Ma insomma – urlò Venere – che ti prende? Non sei più capace di esprimerti? Che hai bevuto, che hai fumato? Fallo entrare e non dire più una parola!»
L’ancella si ritirò in fretta e dopo pochi istanti si presentò Tannhäuser. Non il trovatore, ma l’ultimo dei suoi discendenti. Dovete sapere che costui, indignato perché nel suo paese si era arrivati a un tale punto di degrado che addirittura un uomo politico aveva osato spacciarsi per laureato quando invece aveva imbrogliato tutta la commissione esaminatrice con una tesi allegramente scopiazzata, aveva deciso di non voler restare un giorno di più nella terra dei suoi illustri avi, e si era organizzato per ritirarsi a vita in un isolotto sperduto nel Pacifico, giacché davvero era convinto che non ci fosse più un solo posto nel mondo cosiddetto civilizzato dove valesse la pena di vivere. Però, mentre metteva ordine in soffitta, gli era capitato tra le mani il diario del più prode dei suoi antenati, e così aveva deciso di mettersi in cerca del Monte di Venere, perché era proprio lì che ormai aveva intenzione di ritirarsi fino all’ultimo dei suoi giorni. Aveva girovagato a lungo, come il più impavido dei cavalieri erranti, e alla fine, avendo sentito dire che a Napoli era stata inspiegabilmente chiusa la stazione di Mergellina, fondamentale punto di scalo per i turisti diretti alle isole del Golfo, aveva intuito che probabilmente questa stranezza aveva qualcosa a che vedere con l’occulta presenza di Venere.
Tannhäuser era stanco per il lungo peregrinare, sudato a causa del gran caldo, e per di più si odorava addosso, con un certo fastidio, il fetore che permeava l’aria partenopea e gli si era appiccicato sulla pelle umida e polverosa. Si sentiva quindi impacciato, perché temeva di non piacere alla bella dea; però nello stesso tempo era emozionatissimo al pensiero di sedurre l’amante del suo nobile antenato, e molto curioso di valutare di persona il suo grado di bellezza e di abilità erotica. Perciò, quando entrò nell’alcova e vide Venere distesa su una dormeuse tappezzata di seta scarlatta, con la sua pelle bianca come il giglio e i morbidi, copiosi riccioli color rame che le incorniciavano il volto illuminato dagli occhi lucenti come smeraldi, abbigliata di un semplice pagliaccetto di tulle trasparente che morbidamente si adattava alle curve dei fianchi e del seno e sembrava accarezzare lascivo gli orgogliosi capezzoli, rimase impietrito e senza parole, mentre la mandibola gli si ammollava spingendogli il mento fin sullo sterno.
A sua volta Venere, che lo aveva atteso in quella posa languida per fingersi distratta e niente affatto curiosa, quando se lo vide lì davanti, a gambe divaricate, ritto nella postura ma floscio nell’espressione, balzò in piedi strabuzzando le pupille dilatate e gli si avvicinò incredula. Lo osservò, le salirono le lacrime agli occhi, accennò un sorriso malinconico, stava per allargare la bocca carnosa in un’espressione di felicità, ma poi la fronte si corrugò e gli occhi si oscurarono come il mare verde sotto le nubi foriere di tempesta; arricciò il naso come a sottolineare l’olezzo che svaporava dagli abiti del viandante, infine esplose:
Per Giove e per Nettuno!
Villano impertinente
Come ti sei ridotto,
Sei flaccido e fetente!
Mi chiedo veramente
Con qual coraggio torni,
Una tal faccia tosta
Non l’ebbe mai nessuno!
Tannhäuser sbiancò, poi arrossì, poi gli tremò un pochino il labbro inferiore, poi un guizzo di luce gli attraversò le iridi azzurre, come una felice intuizione:
Ma no, Madonna Venere
Non hai capito niente:
Io sono di Tannhäuser
L’ultimo discendente!
Il viso di Venere si rasserenò, la dea fece un risolino divertito, come a dire: ma certo, è ovvio, e poi soggiunse:
Proserpina e Plutone!
Ma quanto gli assomigli:
Dico che hai ereditato
Anche il testosterone …
Però quanto sei sporco,
Suvvia vatti a lavare
La puzza che ti infesta
Mi par quella di un porco!
E poi sei stanco Amore,
Stenditi nell’alcova
E mentre ti riposi
Ti friggo un paio d’uova
Così incominciò la più felice storia d’amore di tutti i tempi: quella tra Venere e Tannhäuser. I primi giorni e le prime notti trascorsero nell’ebbrezza di una sintonia incantata. Poi, quando i due si accorsero che non stavano vivendo un sogno, ma che la loro intesa erotica e mentale era una miracolosa realtà, incominciarono a fare progetti per il futuro. E il futuro più immediato consisteva nel fetore che penetrava attraverso le crepe nel tufo e si diffondeva all’interno del monte, a dispetto dei profumati incensi e delle essenze floreali con cui la dea provvedeva sapientemente a rigenerare l’aria. Ne discussero una mattina, al risveglio. Tannhäuser era del parere che l’unica possibilità di vivere in un luogo salubre, appartato e accogliente, al riparo da ogni fastidio, consisteva nel ritirarsi su un isolotto nel Pacifico. Venere però gli fece notare che il Pacifico non era poi così pacifico, soprattutto da quando Nettuno aveva eletto l’oceano a luogo ideale per le sue simulazioni di guerra e si era messo a sperimentare la tecnica dello tsunami. Tannhäuser riconobbe che la sua deliziosa fidanzata era molto avveduta, ma considerò amareggiato che non riusciva a vedere alternative, dato che da quando era stata inventata la globalizzazione non c’era più un solo angolo nel mondo dove ci si potesse considerare al riparo da guerre sante, guerre laiche, guerre umanitarie, attacchi terroristici, dittature islamiche, centrali nucleari fatiscenti, traffici illegali di rifiuti tossici, disboscamenti, mafie locali ed internazionali, simpatici siparietti politici chiamati di volta in volta G più cifra variabile dei paesi partecipanti, e corse alla presidenza di fondi monetari. Se solo fosse stato possibile risolvere il problema della monnezza partenopea, l’antro di Mergellina, così accogliente, intimo e ben arredato sarebbe stato il nido d’amore perfetto. Ma Venere, nel cui animo grazie al prodigioso e inaspettato innamoramento era sbocciato un nuovo ottimismo, suggerì che forse poteva valere la pena di aspettare ancora qualche giorno, prima di prendere una decisione definitiva: Napoli si preparava ormai a cambiare sindaco, e chiunque avesse vinto le elezioni avrebbe quanto meno liberato la città dalla micidiale ugola a ultrasuoni della signora dal polso debole e dalla voce sgraziata che negli ultimi anni si era meritoriamente sforzata di non aprire bocca per dare disposizioni di alcun genere, appunto per non gravare la sua città anche di un deleterio inquinamento acustico.
E venne il giorno del responso fatidico: i napoletani avevano votato, dopo settimane di accese dispute elettorali. Tannhäuser si rivolse a Venere, per chiederle la sua opinione sul futuro della città:
Dimmi Madonna Venere,
Cosa succederà:
Credi che questo è il sindaco
Giusto per la città?
La dea gli accarezzò la fronte con tenerezza, lo baciò dolcemente sulle labbra e sugli occhi, gli prese la mano e con un sorriso rassicurante gli rispose:
Amore mio vedremo,
Restiamo un po’ a guardare,
Lo dico senza omissis:
Confido in De Magistris;
E intanto che aspettiamo,
Per sfuggire a questo effluvio,
Propongo di spostarci
Nel ventre del Vesuvio!