Antonietta Benagiano, un’autrice delle ICI Edizioni

Antonietta Benagiano, un’autrice delle ICI Edizioni

La vita e l’opera

NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Antonietta Benagiano, già ordinaria nei Licei, scrittrice (poesia narrativa saggistica), vive nella natia Massafra (TA).

Molti i riconoscimenti e le onorificenze da parte di affermate Accademie e Associazioni culturali (I Micenei, Gli Etruschi, Tirreno, Il Marzocco, già Avvenire d’Abruzzo, ‘i 500’, Pensiero e Arte, …), di prestigiosi Istituti; molteplici le  collaborazioni a riviste di rilievo (OggiFuturo, già Punto di Vista, Pensiero e Arte, Sìlarus, Le Muse,…). Come critico letterario ha curato anche antologie in lingua italiana e quadrilingue.

 Menzionata su giornali di rilevanza regionale e nazionale, suoi articoli sono apparsi sul “Corriere del Giorno”.  E’ pubblicista de “Il Corriere di Roma”, di “BariSera”. Relatrice in convegni, ha fatto parte di talune attività dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli.

Per circa un quinquennio ha partecipato a svariati concorsi, interrotto poi la partecipazione. Tantissimi i riconoscimenti, i primi premi, quelli speciali ed alla cultura; di elogio i giudizi della critica.

Ha pubblicato i seguenti libri:                                                        

La sirena, Edizione italiana e inglese nella traduzione di Maria Stella Maniglia, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura (ICI Edizioni), Napoli 2018, Prefazione di Roberto Pasanisi, Nota critica di Geo Vasile

L’enigma in scena,Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura (ICI Edizioni), Napoli 2017, Saggio introduttivo di Roberto Pasanisi, Nota in quarta di Giorgio Bárberi Squarotti

Il quaderno del fante, da Fermare il tempo, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura (ICI Edizioni), Napoli 2003, Ristampa, Massafra 2015, stralcio dalla Postfazione di Roberto Pasanisi, Premessa dell’autrice 

Berlino-Roma e viceversa, Besa Editrice, Nardò 2014, Premessa dell’autrice, Nota in quarta di Giorgio Bárberi Squarotti

Multa paucis, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura (ICI Edizioni), Napoli 2013, Saggio introduttivo di Roberto Pasanisi, Nota in quarta di Giorgio Bárberi Squarotti

Di quell’amor…, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura (ICI Edizioni), Napoli 2012, Prefazione di Roberto Pasanisi, Premessa dell’autrice, Nota in quarta di Giorgio Bárberi Squarotti

Quale patria?,Wip Edizioni, Bari 2012 (Nuova edizione), Nota in quarta di Roberto Pasanisi

Quale patria?, Wip Edizioni, Bari 2011, Nota dell’editore

La soluzione, Wip Edizioni, Bari 2011, Nota in quarta di Giorgio Bárberi Squarotti

Simone Weil, Wip Edizioni, Bari 2010, Premessa dell’autrice, Nota in quarta di Giorgio Bárberi Squarotti

Focolari, Wip Edizioni, Bari 2009, Premessa dell’autrice, Nota di Giorgio Bárberi Squarotti

Poetiche sinapsi, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura (ICI Edizioni), Napoli 2008, Prefazione di Roberto Pasanisi, Nota di Giorgio Bárberi Squarotti

Anormalità normale, Besa Editrice, Nardò 2007, Premessa dell’autrice, Nota di Giorgio Bárberi Squarotti

Nel cosmo, Dellisanti Editore, Massafra 2005, Premessa dell’autrice

Nikolài  Stepànovič Gumilëv acmeista romantico,  Pensiero &Arte, Bari 2004, Prefazione di Giuseppe Mario Tufarulo

Fermare il tempo, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura (ICI Edizioni), Napoli 2003, Prefazione di Gaetana Rogato, Postfazione di Roberto Pasanisi

E’ l’amor uno strano…, Edizioni Passaporto 2000, Roma 2003, Prefazione di Giuseppe Mario Tufarulo

Dove il mirto…, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura (ICI Edizioni), Napoli 2002, Prefazione di Maria Peruzzini

Invano cerco, Spring Edizioni, Caserta 2001, Prefazione di Francesco D’Episcopo

Patér,Edizioni Passaporto Duemila, Roma 2001, Saggio introduttivo di Pasquale Pantaleo, Postfazione di Giuseppe Mario Tufarulo

Vento nelle mani, Accademia Internazionale dei Micenei, Reggio Calabria 2001, Nota di Michele Alemanno

Neppure soffrendo, Edizioni Passaporto Duemila, Roma 2000, Saggio introduttivo di Pasquale Pantaleo, Postfazione di Clementina Magliulo Podo

Appunti al tramonto, Carello Editore, Catanzaro 1998, Premessa dell’autrice.

 

Dei tantissimi riconoscimenti ricevuti nei brevi anni vengono tralasciati anche quelli speciali e alla cultura, riportati soltanto “i primi premi”:

Concorso “S.Natale 1998”, Accademia dei Micenei, Reggio Calabria;

Concorso Internazionale “Eurotrofeo”, Passaporto Duemila, Roma 1999;

Concorso “S.Natale 1999”, Accademia dei Micenei, Reggio Calabria;

Concorso “S.Pasqua 1999”, Accademia dei Micenei, Reggio Calabria;

Premio Internazionale “Nuove Lettere”, Istituto Italiano di Cultura, Napoli 2000;

Premio “Narrativa Europea”, Centro Europeo di Cultura, Roma 2000;

Premio Letterario “Europa Nuovo Millennio”, Avvenire d’Abruzzo, Luco dei Marsi 2000;

Premio Città di Viareggio, Centro Culturale S.Domenichino di Massa, Lido di Camaiore 2000;

Premio “Coppa d’oro d’Europa”, Passaporto Duemila, Roma 2000;

Premio “Città di Venezia”, Centro Culturale S.Domenichino di Massa, Venezia 2000;

Premio Internazionale “XX Secolo Poeti e Scrittori Protagonisti”, Passaporto Duemila, Roma 2000;

Concorso Letterario Internazionale “Giovanni Gronchi-Regioni”, Pontedera 2001;

Premio Saggistica “D’Annunzio e la Versilia”, Centro Culturale S. Domenichino di Massa, Viareggio 2001;

Premio “Italia nel mondo”, Passaporto Duemila, Roma 2001;

Concorso di Letteratura e Poesia “Città di Firenze”, Gli Etruschi, Firenze 2001;

Premio Internazionale “Coppa d’oro del successo”, Passaporto Duemila, Roma 2001;

Premio Internazionale “Nuove Lettere”, Istituto Italiano di Cultura, Napoli 2001;

Biennale “Città di Riparbella”, Accademia Italiana “Gli Etruschi”, Riparbella 2001;

Premio Internazionale “Oscar d’Europa”, Passaporto Duemila, Roma 2001;

Premio Libro edito, Accademia dei Micenei, Reggio Calabria 2001;

Premio Poesia Edita “Omaggio a S.Marino” Centro Culturale S.Domenichino, S.Marino 2001;

Premio “Rosario Piccolo”, Associazione Teatro-Cultura B.Joppolo, Patti(Me) 2001

Premio Internazionale “Ippocampo d’oro”, Passaporto Duemila, Roma 2001;

Concorso Nazionale di Letteratura Città di Livorno, Gli Etruschi, Livorno 2001;

Premio Letterario Internazionale “Lev Tolstoj”, Luco dei Marsi 2001;

Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Filomena Gerbasio”, Buccino(SA) 2001;

Premio “Porta dei Leoni”, Accademia dei Micenei, Reggio Calabria 2001;

Premio “V. Hugo”, Avvenire d’Abruzzo, Roma 2002

Premio “Omaggio alla Città di Montecatini Terme”, Centro Culturale S.Domenichino di Massa, Montecatini Terme 2001;

Premio S.Natale 2002, Accademia dei Micenei, Reggio Calabria;

Premio III Quadriennale “Omaggio alla Città di Roma”, Centro Culturale S.Domenichino, Roma 2002;

Premio Internazionale “I Protagonisti del 2001”, Passaporto Duemila, Roma 2002;

Premio Nazionale di Poesia e Narrativa “Il Simposio”, Buccino 2003;

Premio “Città di Firenze”, Accademia Araldica Internazionale Il Marzocco, Firenze 2003.

 

 

 

    

Di lei hanno detto:

 

“Nel concatenarsi passionale dei versi cogliamo un respiro che è assimilabile al coro delle tragedie greche. Un coro di una sola voce, ma che ci par quasi di sentire… tanto è denso il ritmo dei versi… Il richiamarsi a personaggi-simbolo della mitologia può disorientare il lettore che non abbia una cultura classica… Ad una lettura approfondita si percepisce il senso universale di tali presenze… La B. sa che la vita continua a proporci inedite aggregazioni e sfumature che ben sa cogliere, mantenendo sempre una tensione lirica efficace, che si fa veramente canto… Le scelte linguistiche ed estetiche vengono naturalmente poste al servizio di una poesia alta, a tratti definibile come “cosmica”, in cui i sentimenti del cuore umano si confrontano ed entrano in risonanza con le “sfere maggiori”, in una felice sintesi tra terra e cielo.”

(M. Delpino e G.P. Prassi).

 

“Il pensiero… il sentimento… emergono quasi come da un continente sommerso, sibillino e petroso…. attraverso un linguaggio concettuale, carico di densità esistenziale ed espressiva… Come antica Sibilla, la B. si fa tramite e transfert di una inquietudine individuale e collettiva, che invoca di squarciare l’enigma, di spostare il velo ricorrente di finzioni e artifici, per ritrovare la verità nuda, vera, quella che non teme affronti e smentite.

Poesia è pausa dal dolore, memoria, sogno, attesa, speranza, fuga, ritorno ad una condizione di possesso di se stessa, che è l’unica base dalla quale ripartire per affrontare l’avventura dell’esistere… La voce di questo comunicare è classicamente composta e costruita, si può anzi dire che la classicità è la frontiera prescelta e perseguita per un impianto esistenziale ed estetico, destinato a durare e a non sgretolarsi sotto la pulsione di miti illusori e inutili. Il sentimento che si fa pensiero e poesia è la sostanza di un discorso filosoficamente lirico, alto, per taluni versi persino solenne, sapienziale e profetico insieme, nello spirito di una gravitas, che invoca però la levità, per innalzarsi alle sorgenti della verità e della purezza.”

(F. D’Episcopo)

 

“Null’altro riesce a quietare la sua anima se non le bellezze rare del creato; rare non per grandezza o eccezionalità, ma per densità di significato. Uniche parentesi nel travaglio sono l’ascolto, il canto, l’incantevole senso di smarrimento dell’anima che torna arcobaleno, la preghiera a Dio… forse una sorta di testamento spirituale della poetessa che si dichiara enigma a se stessa e che sembra cercare la chiave di volta in un eterno passato…”

(M. Alemanno)

 

“Robusta personalità poetica… condensa un universo di sensazioni e stati d’animo… ha una eccezionale capacità di penetrare nel proprio mondo di sentimenti… di proiettarsi nell’immortalità, con passione e sensibilità lirica… comunicando col verso dalla sensibilità ora dolce, ora quasi violenta… Poesia di simboli e di metafore… bruciante d’interiorità… animo sensibile che pulsa di tensione e di amore per la vita, anche laddove il verso risulta permeato di nostalgia o di malinconia. In alcuni passi vengono usati termini di genere ermetico in un contesto simbolico ai ritmi della solennità classica, in altri s’instaura un’atmosfera caratterizzata da alcune immagini che sembrano rievocare colpi di frusta. I versi… snelli e quasi asettici, trattengono al loro interno una forza dirompente di sentimenti vissuti con grande pathos…”

(A. Pasolino)

 

“Poesia fra le migliori nel panorama nazionale…

ottima qualità… vigoria lirica…” (L. Ruggeri)

 

“La B. tende ad una scrittura poetica essenziale e calibrata… Il verso, dal ritmo serrato, coinvolge immagini e simboli di grande intensità… la sua voce si fa segno sulla soglia della coscienza e coglie nel suo distendersi echi antichi, che le vivono dentro e che danno conferma di una maturità espressiva notevole…

Il suo raccontare diventa satira sottile e raffinata i cui toni letterari raggiungono livelli lirici coinvolgenti… spaziano in una modernità di vita che c’è intorno e che ci prende tutta.”

(L. Pumpo)

 

“Profondità di sentire… non indulge mai all’inutile… Immagini ricche di originali suggestioni, mai scelte per dare colore. Sono vie di comunicazione come sanno fare i poeti… Poesia che non è mai manierismo… dai forti battiti… essenziali… espressivi…”

(R. Carello)

 

“La B. si lascia trasportare dal vento di un misticismo interiore che scava il pensiero per purificarlo ed accenderlo di alta spiritualità… possiede accenti classici che s’inseriscono nelle visioni di alta intensità lirica… naviga per i mari misteriosi dell’io… Ha appassionati e vibranti accenti di calda umanità, di forza compatta, di adesione all’armonia della natura, di desiderio infinito di pace e giustizia…”

(R.Iurescia)

 

“La poesia di A.B. sollecita ricordi e muove la memoria a immagini antiche, si slarga in un linguaggio di metafore, rinvii ed echi di versi che si diramano da profondità e sapienze ancestrali fino a raggiungere il ‘futuro’ del nostro tempo fitto di opache verità… trina… che sfugge al consumo del tempo… parole inusitate, desuete, si distillano in gocce di versi e suoni che si offrono quale polemos alla miseria dei ritmi meccanicizzati e tecnologici della società di massa… La hybris poetica lascia vividi segni… scopriamo nella sua scrittura l’anima passionale di una poetessa che nutre fermi ideali e valori… uno stimmung vitale e caloroso…”

(M.Peruzzini)

 

“La ricerca della parola non usurata dalla quotidianità emerge dal lessico… affinando così gli strumenti linguistici per una scrittura alta e nel contempo personale. Legame con figure mitologiche, senso del linguaggio creativo… quasi che l’ispirazione tornasse alla fonte originaria, di Muse non soltanto ideali…

Nel narrare risulta interessante quel clima fra oggettività, riflessione e incertezza -uno scandaglio psicologico… Pochi gli ornamenti,per uno stile chiaro e senza fronzoli.

Nel Cosmo… un tipo di scrittura fantascientifica che sviluppa fantasia e capacità intuitiva anche sotto il profilo logico e si inoltra nell’oggettività del pensiero con taluni elementi idonei al ‘genere teatrale per ragazzi’: la riacquisizione di un’identità naturale o il ciclo degli eventi tramite un mezzo (la scrittura) interposto tra mondo reale e virtuale…”

(L. Nanni)

 

      

“In Neppure soffrendo la trama dei pensieri diventa la trama compatta del ricordo, l’uso della rimembranza per cogliere il modo di porsi di fronte all’esistenza e per determinare il punto d’intersezione fra ciò che si è e ciò che si vuole essere… La B. stabilisce uno stato di attivismo del ricordo… un principio di ragion sufficiente… uno stato organicistico della psicologia del ricordo in quanto esprime la durata delle percezioni… il limite ontologico delle risorse umane alla ricerca di un ubi consistam e al riconoscimento di siffatto ubi consistam… Mantiene inalterati il livello letterario e l’efficacia dello stile… conserva costantemente delle proprietà di linguaggio che spesso non sono conservate in molti saggi della cosiddetta letteratura contemporanea… Le pagine risultano molto vive… affrontano temi di rilievo che invitano a riflettere sulle questioni attuali…

In Patér molto opportunamente coglie il nesso psicologico così delle differenze come delle convergenze umane e penetra nel profondo solco delle due personalità, evidenziando due mondi che, pur nella loro distinzione, e, spesso, nel loro contrapporsi, restano caratterizzati nella somiglianza e nel modo di essere della discendenza. La tipologia e l’antropologia umane sono, pertanto, due elementi considerevoli della nostra scrittice, che, magistralmente coglie nel suo racconto il significato di una realtà del nostro tempo che, seppure in atto accentuata, ha un suo senso nei conflitti come nei recuperi della storia generazionale di ogni tempo e nell’evoluzione, come nella regressione dei rapporti umani…”

(P. Pantaleo)

 

La B. possiede abilità nell’intreccio dei fatti, fluidità nel condurre le vicende, il senso della misura e delle proporzioni, il taglio dei colloqui, l’indagine psicologica che rende profondo il rilievo dei personaggi… l’istinto prismatico di osservazione… tende a svincolarsi dalla tradizione e creare un’espressione che si scioglie in vaghe suggestioni della comune vita spirituale degli uomini.”

 Nella saggistica la B. … prepara una rivoluzione nella metodologia della critica letteraria…

 Le proposte teatrali… intrise di notevoli introspezioni nella scienza, etica, filosofia… giostrano su due livelli:1)di essere molto giovani come linguaggio;2)di avere una regia facile… La genialità teatrale dell’intellettuale pugliese sta nello sfiorare (poco) la fantascienza che permette coinvolgimento di pubblico, non per la dinamica di scene sulla ribalta ma per gli approfondimenti, senza fumenti intellettuali, che i “cosmici”, esseri robotici, trasmettono a noi umani…

(G.M. Tufarulo)

 

Fermare il tempo… che cosa si potrebbe chiedere di più ad una raccolta di racconti, in tempi non solo, non tanto di ‘prosa debole’ (come si potrebbe chiamare riprendendo un sintagma da tempo vulgato in filosofia), ma proprio di ‘para letteratura’ (come dicono i Francesi)?… Ma la letteratura è un’altra cosa: la letteratura è, prima di tutto, una questione di stile, ovvero di lingua, ovvero di forma. La letteratura è inesausta innovazione sul filo che non si smarrisce della tradizione. Ogni opera d’arte, come dice Lausberg, è “una raffigurazione ‘mimetica’ (che ricostruisce, generalizza, rende evidente ed eleva) dei contenuti che illuminano l’esistenza”: insomma una gnoseologia estetica ed un disvelamento… La letteratura, parlando da strutturalisti, è una parole che si fa unica e irripetibile allontanandosi dalla sua langue, ovvero dal ‘linguaggio stereotipo’ e fraudolento della Kulturindustrie… Così la letteratura esorcizza continuamente la piatta norma del ‘linguaggio di massa’ e la sua visione stereotipica del mondo; creativamente conduce contro di esse una ‘rivoluzione permanente’…

(R. Pasanisi)

 

Un teatro rinnovato nei contenuti e nella impostazione, adeguato all’uomo del Terzo Millennio che sente già la sua enorme distanza da quello del Novecento perchè più forti sono all’esistenza presenti gl’interrogativi che vanno oltre il nostro pianeta, oltre il sistema ben noto, anch’esso ridimensionato, uno dei tanti negl’infiniti mondi dell’universo, alla cui conoscenza l’uomo anela pervenire. Le tre proposte vanno lette con attenzione maggiore di quella che potremmo avere per cogliere messaggi da pagine cui siamo normalmente abituati… Lo stile è denso, essenziale stringato, atto non soltanto “alla natura dei personaggi” come l’Autrice scrive nella Premessa al libro, ma agli esiti letterari di un pensiero fortemente pregnante che induce il lettore attento a riflettere su problematiche anche nostre e su quelle del probabile “homo astralis”.

(Lello Spinelli de’ Santelena)

 

“E’ l’amor uno strano… sulle dune di un immaginifico excursus storico sull’amore… una serie di riflessioni apparentemente vaganti, quasi atemporali, che lasciano emergere chiaramente le personalissime intuizioni dell’autrice…”

(Anna Sciacovelli)

 

“In Fermare il tempo la parola si snoda sofferta e immediata mescolando in modo del tutto naturale aspetti di sapore strettamente realistico con squarci ricorrenti di visioni surreali, Una raccolta, dunque, che offre molterplici spunti di lettura e che non deluderà chi nella scrittura cerca parole nuove per riflettere su interrogativi senza tempo e, forse, senza risposte.”

(Gaetana Rogato)

 

“Nel Cosmo racchiude tre pièces teatrali ambientate nello spazio al di là della nostra Galassia fra milioni di anni, tre dialoghi stringati ed essenziali fra esseri umani robotizzati e digitalizzati, immaginati per un teatro di ragazzi che si pongono domande non peregrine sul futuro della nostra Specie… Un libro interessante ed attuale, una riprova di come riflettere sul futuro anche molto lontano possa aiutare a capire meglio il presente e ad orientare le nostre scelte…”

(Maria Marcone)

 

La pluripremiata poetessa e scrittrice… ci dà un esempio di quello che è, è stato e sempre sarà uno dei grandi problemi della famiglia: lo scontro generazionale tra genitori e figli… l’Autrice ci conduce per mano a scoprire i sentimenti più comuni insiti in ognuno di noi: le passioni e gli affetti di un’umanità che soffre per i vizi e le storture della società in cui vive, lavora, ama e muore. Questo Patér diventa quasi il simbolo di un’avventura che per il protagonista si srotola tra i ricordi e le vicende giovanili, l’antagonismo tra padre e figlio, la cultura per i popoli antichi… ma sarà proprio tra gli avelli di una necropoli che il protagonista riuscirà a comporre quella parte del mosaico famigliare rimasto incompleto…”

(Mario T. Barbero)

 

“In Dove il mirto…, ultima silloge poetica di A.B. respiriamo a piene mani dell’antichità classica, come pure degli affetti familiari. Non manca un filone critico e comunque accorato nei confronti di un modernismo che va perdendo le ragioni dell’anima e non vede più intorno a sè quel gioioso mistero dell’esistenza che agli antichi ispirò pensieri sublimi e filosofie che hanno ancor oggi la forza della verità.

In Patér, la famiglia è l’oggetto che la B. pone sotto le lenti del microscopio narrativo. Una famiglia che si barcamena tra le torpidità del quotidiano, il progressivo affievolirsi della passione… e soprattutto il rapporto con i figli che, oltre alle naturali contestazioni fra generazioni diverse, soffrono anche della poca cura, della noia… C’è inoltre un mistero, una presenza che viene dall’antichità e che in definitiva si può identificare proprio come in uno ‘spirito del sangue’, cioè nella catena della discendenza che si perde nella notte dei tempi…”

(G.P. Prassi)

 

 

Viene riportato qualche brano:

 

A che sorprenderci? (Invano cerco, p.7, Spring Edizioni,  Caserta 2001)

 

Come possiamo riconoscerci noi ora?/Ogni ramo riarse/il tronco stesso s’accartoccia/malato d’esistenza./Incontri che sono lontananze/parole sconnesse/abbracci di distanze./Non meravigliarti se l’altro/più non è l’essere del tuo scrigno/neppure quello che di te/ memoria serba/mostra luccichio di gemme…/solo cenere appare/un brutto ammasso compatto/al soffio d’Eolo non vola…/e lavora inutilmente lo scalpello/tenta di scolpire antiche forme./A che sorprenderci?/E’fuoco il tempo/i rami virenti brucia/spesso forme d’artificio incolla/fiori di plastica senza profumo/estraneità all’altro.

 

Dimmi, Tiresia… (Invano cerco, p.17, Spring Edizioni, Caserta 2001)

 

Dimmi, Tiresia,/le lacrime dei tuoi occhi spenti/ pianto della mente che vede…/ Fiamma inestinguibile l’odio/ morte anche al proprio seme il seme/ copioso scorre il sangue/ si veste Krono ovunque di rovine…/

 

Tiresia, so bene…/quella è fiamma che mai s’estingue,/l’alimentano venti di tempesta/senza posa arde/brucia ogni angolo del globo/esplode chiusa in domestiche mura./nulla mi annunci./

 

Oh, infelicità nuova!/Rimpiangerà Gea ottusità lunga/lo scorrere del sangue…/sorgono pur nel male affetti belli/innalzano gli uomini lor preci/il petto si battono contriti./Godete ere ancora vere/vivete fremiti di natura duplice…/percuote la mano del nemico/ma la materna è carezza che consola,/teofania manda l’armonia del cosmo/malia divina l’arte…/e canta l’aedo cammino doloroso/ed il sorriso dell’ora serena./Godete la vita vera…/vedo l’uomo distruggere se stesso/freddi congegni regnare/inutile esistenza./Io piango la fine del mio simile.

 

Dove il mirto… (Dove il mirto…,p.7, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura, Napoli 2002)

 

Dove il mirto non conosce ghibli/ talor si stende il mio attimo presente/ dimentico di pene…/e verdeggia dolce linfa la memoria/ di nuovo compagne le nostre ombre/ guizzano liete nei giochi dell’andare/ e stormi di suoni si vestono d’arpe…/ O poter anche fisicità tornare…/esser almen fra una luce e un occaso/ quel che Mneme rimanda!/ Non si svela mai intiera Afrodite…/parto del passato è la coscienza/sol quando è appassito il mirto/ nasce volo di sogno.

 

Avanti! (Dove il mirto… , p.42, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura, Napoli 2002)

 

M’ha gettata nel bosco prigione,/solitudine/buio/grovigli di spine./Avanti!/Avanti, mia corazza di ferite!/E’ men lontano il sentiero,/luce/libertà./Avanti!/Dolce acqua, laverai questo sangue/guarirai,sole,le mie ferite.

 

Neppure soffrendo (Edizioni Passaporto Duemila, p.54, Roma 2000)

 

Sì, il movimento è vita -pensò tra sè Paola-. Spero, però, che tu, Manuela, riesca ad andare avanti…che non torni a quel punto di partenza…Che farai se Mauro ti comparirà di nuovo col suo sorriso? Certe esperienze valgono davvero? Qualcuno diceva che solo soffrendo si ha conoscenza, ma è una conoscenza che non salva dalla realtà conflittuale ed enigmatica, cui l’uomo non riesce a sottrarsi, neppure con l’esperienza del dolore. Non impariamo neppure soffrendo… e non solo in amore…

 

Patér (Edizioni Passaporto Duemila, p.28, Roma 2001)

 

Forse quell’eroe sarà stato anche lui un padre…avrà avuto un figlio della tua stessa età…gli avrà insegnato l’uso delle armi, l’amore della terra patria, le virtù civiche, la venerazione degli avi gloriosi…Forse anch’essi, nelle tregue venivano qui, a rievocare memorie degli avi…E quel figlio avrà visto il padre lottare, morire…avrà sottratto al ludibrio del nemico l’inerte suo corpo…all’infamia dei corvi…l’avrà lavato del sangue, della sudicia terra… l’avrà deposto qui…giurato su di esso fedeltà… sarà divenuto custode dei suoi insegnamenti…

Oggi è forse più difficile essere gloriosi poiché è gloria la forza della non violenza…

 

E’ l’amor uno strano… (Edizioni Passaporto Duemila, p.32, Roma 2003)

 

Si sarebbero ugualmente amati Paolo e Francesca, pur senza il libro “galeotto”, pur senza la “bella persona”?

Saremmo quasi tentati di rispondere affermativamente, poiché c’è una seduzione che va al di là di tutto, ed è quella che fa ricercare, nel procedere, non il percorso piatto ma l’orlo del burrone. Ma chi può dirlo con certezza? Difronte all’amore nemmeno la psicanalisi, vale a dire la scienza che più d’ogni altra s’avvicina a quest’ambito segreto, può dare una spiegazione completa e soddisfacente. La visione scientifica presenta infatti un punto debole organico, che è quello di scomporre i fenomeni in sintagmi artificiali tentando di risolverli in termini di ipotesi e di problemi…

 

L’esclusione  (in Fermare il tempo, p.64, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura, Napoli 2003)  

 

La vita, questa vita voleva prenderlo col calore dell’abbraccio d’un essere sconosciuto. L’avrebbe preso, salvezza per lui e molti altri, se non fosse stato rigidamente educato alla esclusione. Per questa esclusione lo stesso malessere era, in definitiva, prodotto dall’attenzione verso se stesso, di quel che egli sarebbe o non sarebbe stato. Non si soffermava sul dolore altrui, non conteneva alcuna riflessione sull’ingiustizia che deriva dall’arrogarsi il diritto di decidere della vita degli altri. Se ci fosse stata, se avesse considerato gli esiti della sua azione sul mondo oggettivo, se lo stesso mondo oggettivo non fosse esistito esclusivamente in funzione del suo credo, egli avrebbe avuto la qualità che fa uomo l’uomo…

 

Nikolàj Stepànovic Gumilev acmeista romantico ( incipit, Pensiero e Arte, Bari 2004)

 

Può un gruppo di poeti divenire corporazione nel senso primigenio del termine, vale a dire, in questo caso, un’associazione di artigiani della parola, da comporre ad uso, diciamo, più normale e reale? E’ quanto ebbe in mente Nikolàj Stepànovic Gumilev con la Cech poètov , una corporazione di poeti che avrebbero dovuto agire al pari di quella che era stata la corporazione nel Medio Evo.

Il risultato fu l’Acmeismo, quel movimento letterario che fiorì nella Russia ancora zarista, ad opera di Gumilev…

 

Nel Cosmo (p.44, Dellisanti Editore, Massafra(TA) 2005)

 

SIGMA I

Noi siamo diventati esseri robotici, coriacei, anche asessuati. A che infatti il sesso? Eravamo pervenuti alla rigenerazione, il sesso non aveva più ragione d’esistere. Tutto questo è stato per nulla? Per il semplice vagare di sistema in sistema, numeri nelle cosmonavi, con al seguito altri sottonumeri? Ed io credevo noi e quelle immortali. Avevamo superato il limite concesso alla materia, la sua distruttibilità. Sentivo la conoscenza come volontà di potenza, ed era la mia certezza. Tu mi porti a dubitare. E’ stato questo il difetto, la sua ricerca distorta che mi ha… che ci ha precluso di avvicinarci alla Grande Parete?

 

 

                            Antonietta Benagiano

 

 

 

 

Saggistica

 

 

 

S’E’ PERSA LA COSCIENZA DELLA COLPA

 

 

 Nella nostra società ‘post-moderna’, libera da ogni principio etico e religioso, da qualsivoglia ideologia, salvo l’accomodamento di tutto all’utile, può esistere ancora quella condizione psichica che é conseguente ad un’azione della cui riprovevolezza si ha coscienza?

 Constatiamo che nessun fatto, a partire dagli eventi con effetti non propriamente drammatici a tutti gli altri che hanno conseguenze purtroppo tragiche, sembra sollecitare riflessioni che possano lasciare il segno trasformativo, quella svolta a parole tanto agognata ma giammai messa in atto. Ogni evento viene velocemente surclassato dall’altro che segue, pur esso per breve tempo alla ribalta; lo si  destina poi a fare tuttalpiù parte di una memoria che le opposizioni riprendono per una strumentalizzazione, ciascuna a proposizioni di utilitarismo.

 Se esistesse in noi ciò che Pavese chiamava il “cristallino assoluto”, vale a dire la coscienza intesa come kantiana voce interiore che dà a tutti gli uomini conoscenza di quella legge morale considerata non in senso relativistico ma assoluto, il mondo umano, e non solo, vivrebbe situazioni di gran lunga diverse, migliori.

 In tal caso non soltanto il singolo soggetto ma l’umanità tutta, occidentale e insieme orientale, avvertirebbe oggi in maniera globale il sentimento della colpevolezza, tenderebbe fattivamente a rimuoverlo. E’ infatti il bisogno di rimozione/riparazione l’esigenza fondamentale della coscienza della colpa, la quale porterebbe ad estirpare il danno prodotto attraverso una programmazione efficiente, risolutoria quindi di un passato e del presente di soprusi e ingiustizie. Invece, diversamente da quanto sosteva Alvaro, ma erano i suoi decenni almeno sotto determinati aspetti ancora di certe “sopravvivenze”, questa epoca, e sta proprio in ciò a nostro avviso la gravità, non viene per niente presa dall’afflizione conseguente alla coscienza del danno che ha provocato e continua a provocare.

 Ciò accade non perché siamo andati molto avanti sul piano scientifico-tecnologico ma perché abbiamo fatto addirittura retrocessioni in quello che dovremmo definire più propriamente “umano”, vale a dire nella maniera di rapportarci all’ “altro”, al mondo oggettivo in genere.

Consideriamo infatti, più che in passato, virtù l’utile, subdolamente lo celiamo anche sotto la bella veste dell’altruismo, ed in questo modo scardiniamo la colpa, anzi passiamo pure ad addossarla ai “deboli”, su cui ci riteniamo in diritto di attuare le nostre vendette.

Ma, come giustamente rilevava Victor Hugo, le colpe dei “deboli” sono sempre colpe dei “forti”.

 Il rimorso poi, in un contesto siffatto, non può esistere neppure come “ruggine sul taglio di uno splendido acciaio”, per dirla con André Suarès, oppure, a non voler essere dalla visione totalmente negativa, é, a quanto osserva W. Makepeace Thackeray, “la facoltà meno attiva dell’uomo, quella che si può con maggiore facilità sopprimere quando si desta.” Ma, nella realtà, in chi possiamo asserire che oggi effettivamente si desti?

 Tutti poi siamo diventati abilissimi in quel genere di “ars dicendi” che propone dilemmi ‘mefistofelici’, coi quali si può sempre dare scacco matto a chi argomenta attraverso tesi che non convengono.

 E’ necessario riflettere anche sull’immaginativo contemporaneo che é divenuto funzionale esclusivamente all’utile personale o del gruppo di appartenenza. Così esso esclude ogni discriminazione tra bene e male, quindi anche il senso di colpa, mentre piacere e dolore non dovrebbero potersi sradicare da ogni atto della coscienza in un rapporto tra “il sé” e “l’altro”. Nella società contemporanea sembrerebbe, invece, essere ammessa solo la tensione a risolvere il bisogno che ci si é configurato nell’immaginario; si esclude pertanto l’aspetto etico che provocherebbe, nel riconoscimento del danno prodotto all’altro, come singolarità e come collettività, quel senso di colpa di cui ci si é, a quanto pare, su larga scala, definitivamente liberati. Gli sparuti soggetti che ancora ce l’hanno sono, in definitiva, i meno colpevoli.

 Pensiamo che sia, in breve, avvenuta una più significativa retrocessione di quello sviluppo umano che solo in taluni permane, quasi a conferma della sua necessità e possibilità di esistenza. C’é, in genere, il ritorno ad una vita

fisio-psichica che potremmo qualificare puramente animale, ed in essa é scomparso il compimento di funzioni da sempre ritenute superiori, quali l’operare volto al bene, la contemplazione estetica, la ricerca del vero e del divino.

In questa necessità propriamente animalesca non ha più spazio la coscienza, quella capacità di giudicare ogni atto determinandone il valore. Urgono gli impulsi utilitaristi-

ci, coi quali viene meno la valutazione se sia bene o male la soddisfazione che può derivare da un agire volto esclusivamente al proprio sé.

 La coscienza della universalità s’annulla a vantaggio di un particolare singolo o collettivo, vale a dire del branco cui si appartiene, che ha le medesime esigenze utilitaristiche. E’ lo scadimento dello sviluppo psichico per il quale dovrebbe l’uomo distinguersi dagli altri animali, é la rottura della sintesi tra animalità e spiritualità.  A questo punto ci chiediamo quale “ragione” si sia in questo tempo affermata.

 Se Goethe vivesse nella nostra era, rafforzerebbe forse, proprio attraverso l’assenza della coscienza della colpa, quanto ha espresso nel “Faust” a proposito dell’inutilità della ragione per uno sviluppo veramente “umano” dell’uomo.

In versi concettualmente molto densi egli infatti dice:

“Il piccolo dio del mondo é sempre lo stesso,/ buffo e strambo come nel primo giorno,/ vivrebbe un poco meglio,/ tu non gli avessi dato qualche lume di cielo./ Lo nomina ragione: e lo usa soltanto/ per vivere più bestia di ogni bestia.”

    

                      ANTONIETTA BENAGIANO

 

 

 

ENIGMI  ETERNI SULLA VERA NATURA UMANA

 

 

 Si ha conoscenza dell’uomo, vale a dire dell’essere che Karen Blixen in “Sette storie gotiche” definiva “macchina complicata e ingegnosa”, e subito dopo con acuta ironia la dichiarava in grado “di trasformare, con sapienza infinita, il rosso vino di Shiraz in orina”?

 Un ridimensionamento del Prometeo, del Faust: quanto più s’allontana dalla coscienza della propria finitezza tanto più non fa che “collezionare tutte le sue pelli” al pari del serpente, come osservava Jean Giraudoux in “Sodoma e Gomorra”.

 Ma sotto quale aspetto si conosce veramente l’uomo e fino a che punto?

 Adolph Meyer nella sua teoria psico-biologica condannava quanti avevano avuto “il desiderio di studiarlo tutto insieme come una mera somma di parti”, mentre era per lui da considerarsi una “unità viva e trasformatrice di energia nel mondo”, per la quale andava riunita “su un piano concreto l’essenza reale della mente e dell’anima”.

 A che cosa si è, però, pervenuti? Anche le Scienze umane sono andate via via ridimensionando tante asserzioni.

 Quali illuminazioni ha infatti dato l’ottica psicosociale dalle affermazioni di Marphy a quelle di Lewin, di Brim, di Sullivan, di Faris, ai tentativi effettuati da Mara Selvini Palazzoli di mettere “in epochè” i sentimenti in senso intrapsico?

 L’uomo è pure problematica filosofica da tempo remoto.

 Nel Novecento Karl Jaspers al profilo “oggettivo” che di esso poteva offrire la scienza unì quello “trasversale” della filosofia, dove le cifre di una ulteriorità davano il senso dell’essere che sempre ci supera, quindi non compreso mai del tutto. Jaspers fu costretto a parlare dei molti enigmi, vale a dire non dei problemi provvisori che possono trovare poi una risposta, ma dei segreti fondamentali riguardanti ciascun metodo di conoscenza relativo all’ individuo che resta enigma affascinante, non afferrabile nell’insieme, ‘individuum est ineffabile’. Esso è incastrato come essere biologico entro rapporti ereditari e come essere psicologico nella comunità e nella tradizione spirituale, ma rimane se stesso, unico in sè, “in una concrezione storica come pienezza del presente, come unica onda inconfrontabile tra le infinite onde del mare e nello stesso tempo specchio del tutto”.

 Un “quid” del quale non si può in definitiva dare una totale spiegazione ed esplicitazione. C’è, però, la possibilità di accogliere dal “nascosto” ciò che esso libera, e sta proprio in ciò per Jaspers il compito della scienza.

 La definizione di “microcosmo” che per primo Democrito diede dell’uomo, non sappiamo se unico nel cosmo o vivente la meravigliosa anche se complicata difficile avventura dell’esistere insieme a sconosciuti lontanissimi esseri strutturati magari con potenzialità maggiori, è quella che maggiormente gli si addice. Essa va pertanto mantenuta dato che il piccolo cosmo è specchio del grande e di questo, come di se stesso, tenta con molto impegno la conoscenza.

 Dell’uno e dell’altro perviene a darsi spiegazioni esaurienti, teorie da non dover poi rettificare?

 Neppure dopo le ultime conquiste scientifiche riesce a districarsi agevolmente tra quanto è venuto fuori dall’evento primo che taluni chiamano “Big Bang”.

 Esistono davvero le particelle elementari chiamate “monopoli”? E’ stato il “falso vuoto” a provocare la “iperestensione” per la quale ci sarebbero numerosi altri universi? Che cosa del cosmo “macro” possiamo effettivamente conoscere se la gran parte di esso viene dagli scienziati ritenuta “materia oscura”, la quale per alcuni versi è “ordinaria”, vale a dire “barionica”, fatta cioè di protoni e neutroni come tutto quanto conosciamo, a cominciare da noi stessi, ma per la gran parte è sostanza “non barionica”, indecifrabile ancora, quindi “oscura”? E che cosa può la scienza dire su quella che chiama “espansione accelerata”, ritenuta tuttora in atto, per la quale presuppone una potente e misteriosa attrazione verso quella che viene chiamata “periferia del cosmo”, vale a dire uno “spostamento verso il rosso”, tecnicamente detto “redshift”? E quale attribuzione può dare la scienza alla energia dello “stato di vuoto” se non la qualificazione di “oscura”?

 Come spiegare poi la perfetta sintonizzazione tra di loro delle costanti fisiche fondamentali, quelle che vanno, per esempio dalla velocità della luce alla forza di gravità, alla carica dell’elettrone e così via?

 Taluni scienziati, per esempio Brandon Carter, parlano di “principio antropico” con cui tentano di dare una spiegazione del mondo fisico e di quello biologico, ma è un principio che suscita poi perplessità.

 E l’uomo, cosmo “micro”, specchio del “macro”, non ha forse insieme alla sua materia “barionica” tanta parte che sfugge all’analisi di ogni scienza, quindi “oscura” pur essa misteriosa ?

 Faceva a Goethe dire che l’uomo è un microcosmo di follia, forse in questo differente dal macrocosmo che deve per esistere avere armonia in ogni parte, anche nella “oscura”, o forse non differente poichè ignoriamo le leggi di quella che chiamiamo follia.

 Ci piace ricordare quanto l’astronomo Arthur Eddington, teorico cosmologico attento alla materia stellare e interstellare, alla “relatività e alla “meccanica dei quanti” ma anche piacevole scrittore e agile divulgatore di concezioni scientifiche e filosofiche, ha in “Spazio, tempo e gravitazione” scritto:

 “Abbiamo trovato una strana orma sulle rive dell’ignoto. Per spiegarne l’origine abbiamo escogitato, l’una dopo l’altra, profonde teorie. Infine, siamo riusciti a ricostruire la creatura che aveva lasciato quell’orma, E, guarda, quell’orma è la nostra”.

 

                           ANTONIETTA BENAGIANO

 

(BARISERA, Anno X, N° 275)

 

 

 

S’E’ PERSA LA COSCIENZA DELLA COLPA

 

 

 Nella nostra società ‘post-moderna’, libera da ogni principio etico e religioso, da qualsivoglia ideologia, salvo l’accomodamento di tutto all’utile, può esistere ancora quella condizione psichica che é conseguente ad un’azione della cui riprovevolezza si ha coscienza?

 Constatiamo che nessun fatto, a partire dagli eventi con effetti non propriamente drammatici a tutti gli altri che hanno conseguenze purtroppo tragiche, sembra sollecitare riflessioni che possano lasciare il segno trasformativo, quella svolta a parole tanto agognata ma giammai messa in atto. Ogni evento viene velocemente surclassato dall’altro che segue, pur esso per breve tempo alla ribalta; lo si  destina poi a fare tuttalpiù parte di una memoria che le opposizioni riprendono per una strumentalizzazione, ciascuna a proposizioni di utilitarismo.

 Se esistesse in noi ciò che Pavese chiamava il “cristallino assoluto”, vale a dire la coscienza intesa come kantiana voce interiore che dà a tutti gli uomini conoscenza di quella legge morale considerata non in senso relativistico ma assoluto, il mondo umano, e non solo, vivrebbe situazioni di gran lunga diverse, migliori.

 In tal caso non soltanto il singolo soggetto ma l’umanità tutta, occidentale e insieme orientale, avvertirebbe oggi in maniera globale il sentimento della colpevolezza, tenderebbe fattivamente a rimuoverlo. E’ infatti il bisogno di rimozione/riparazione l’esigenza fondamentale della coscienza della colpa, la quale porterebbe ad estirpare il danno prodotto attraverso una programmazione efficiente, risolutoria quindi di un passato e del presente di soprusi e ingiustizie. Invece, diversamente da quanto sosteva Alvaro, ma erano i suoi decenni almeno sotto determinati aspetti ancora di certe “sopravvivenze”, questa epoca, e sta proprio in ciò a nostro avviso la gravità, non viene per niente presa dall’afflizione conseguente alla coscienza del danno che ha provocato e continua a provocare.

 Ciò accade non perché siamo andati molto avanti sul piano scientifico-tecnologico ma perché abbiamo fatto addirittura retrocessioni in quello che dovremmo definire più propriamente “umano”, vale a dire nella maniera di rapportarci all’ “altro”, al mondo oggettivo in genere.

Consideriamo infatti, più che in passato, virtù l’utile, subdolamente lo celiamo anche sotto la bella veste dell’altruismo, ed in questo modo scardiniamo la colpa, anzi passiamo pure ad addossarla ai “deboli”, su cui ci riteniamo in diritto di attuare le nostre vendette.

Ma, come giustamente rilevava Victor Hugo, le colpe dei “deboli” sono sempre colpe dei “forti”.

 Il rimorso poi, in un contesto siffatto, non può esistere neppure come “ruggine sul taglio di uno splendido acciaio”, per dirla con André Suarès, oppure, a non voler essere dalla visione totalmente negativa, é, a quanto osserva W. Makepeace Thackeray, “la facoltà meno attiva dell’uomo, quella che si può con maggiore facilità sopprimere quando si desta.” Ma, nella realtà, in chi possiamo asserire che oggi effettivamente si desti?

 Tutti poi siamo diventati abilissimi in quel genere di “ars dicendi” che propone dilemmi ‘mefistofelici’, coi quali si può sempre dare scacco matto a chi argomenta attraverso tesi che non convengono.

 E’ necessario riflettere anche sull’immaginativo contemporaneo che é divenuto funzionale esclusivamente all’utile personale o del gruppo di appartenenza. Così esso esclude ogni discriminazione tra bene e male, quindi anche il senso di colpa, mentre piacere e dolore non dovrebbero potersi sradicare da ogni atto della coscienza in un rapporto tra “il sé” e “l’altro”. Nella società contemporanea sembrerebbe, invece, essere ammessa solo la tensione a risolvere il bisogno che ci si é configurato nell’immaginario; si esclude pertanto l’aspetto etico che provocherebbe, nel riconoscimento del danno prodotto all’altro, come singolarità e come collettività, quel senso di colpa di cui ci si é, a quanto pare, su larga scala, definitivamente liberati. Gli sparuti soggetti che ancora ce l’hanno sono, in definitiva, i meno colpevoli.

 Pensiamo che sia, in breve, avvenuta una più significativa retrocessione di quello sviluppo umano che solo in taluni permane, quasi a conferma della sua necessità e possibilità di esistenza. C’é, in genere, il ritorno ad una vita

fisio-psichica che potremmo qualificare puramente animale, ed in essa é scomparso il compimento di funzioni da sempre ritenute superiori, quali l’operare volto al bene, la contemplazione estetica, la ricerca del vero e del divino.

In questa necessità propriamente animalesca non ha più spazio la coscienza, quella capacità di giudicare ogni atto determinandone il valore. Urgono gli impulsi utilitaristi-

ci, coi quali viene meno la valutazione se sia bene o male la soddisfazione che può derivare da un agire volto esclusivamente al proprio sé.

 La coscienza della universalità s’annulla a vantaggio di un particolare singolo o collettivo, vale a dire del branco cui si appartiene, che ha le medesime esigenze utilitaristiche. E’ lo scadimento dello sviluppo psichico per il quale dovrebbe l’uomo distinguersi dagli altri animali, é la rottura della sintesi tra animalità e spiritualità.  A questo punto ci chiediamo quale “ragione” si sia in questo tempo affermata.

 Se Goethe vivesse nella nostra era, rafforzerebbe forse, proprio attraverso l’assenza della coscienza della colpa, quanto ha espresso nel “Faust” a proposito dell’inutilità della ragione per uno sviluppo veramente “umano” dell’uomo.

In versi concettualmente molto densi egli infatti dice:

“Il piccolo dio del mondo é sempre lo stesso,/ buffo e strambo come nel primo giorno,/ vivrebbe un poco meglio,/ tu non gli avessi dato qualche lume di cielo./ Lo nomina ragione: e lo usa soltanto/ per vivere più bestia di ogni bestia.”

    

                      ANTONIETTA BENAGIANO

 

(Corriere del giorno, 19 aprile 2005)

 

 

 

 

 

LA CIVILTA’ NON DEVE CERCARE LO SCONTRO

 

 

 

 

 Può un semplice accidente, frutto magari della dabbenag-

gine, del piacere di strappare un sorriso scherzando pro-

prio su quanto non si dovrebbe scherzare, divenire “casus”, innescare un processo, far scoppiare ciò che, presi dal terrore della stessa parola, non vogliamo menzionare, quasi possa essa farsi evocatrice della catastrofe immane?

 Noi speriamo che non passi ad essere atto quello che Gadda definiva “punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo”, punto che oggi già ha in sè una molteplicità di causali convergenti.

 La nostra tanto declamata intelligenza può farsi pericolo-

sa stupidità se non riesce a rispettare chi vive una dimensione diversa, dalla quale nessun fenomeno potrà spostarlo, neppure la globalizzazione che non intacca la natura di un sentire profondamente radicato e non ammette quanto in definitiva neppure noi dovremmo ammettere se siamo in grado di attuare una umanità vera.

 L’uomo può, nel suo mondo terreno, trovare motivi infiniti per sorridere, non c’è quindi necessità di allargare le situazioni, ma è forse proprio l’incapacità di creatività a far toccare il sacro, l’ “ultra” nell’intento di una facile ricerca di originalità. Oggi siamo costretti a vedere anche spot pubblicitari che offendono il nostro credo, e nei vari spettacoli insulti ammantati di laicismo. Dietro gli annun-

ci di libertà c’è la brama di successo/denaro che tutti prende e alla quale nessuno si oppone, quasi si facesse offesa. La maggior parte di quello che viene definito “mon-

do occidentale”non si sente per nulla toccato da espressio-

ni e immagini dissacranti poichè ha allontanato il suo sacro; nel “tutto permesso” ci ride sopra, li ritiene parti della intelligenza, applaude alla creatività.

 Il tanto discusso problema della perdita d’identità dell’immigrato è in realtà un problema del nostro mondo dove imperano solo surrogati d’identità. Ecco perchè siamo noi per primi ad offendere noi stessi senza accorgercene, e ci sorprendiamo che altri si offendano di ciò che per noi è bazzecola poichè l’abbiamo svuotato di valore.

 Quanto poi alla “civiltà”, essa non sta nè dall’una parte nè dall’altra. La civiltà, qualsiasi civiltà, non dovrebbe ammettere lo scontro dato che nella formazione umana da attuarsi come progetto va lasciato spazio in primis alla libertà, a quella propria e altrui, a meno che non si voglia considerare la civiltà ancora alla maniera di Toynbee, vincente cioè quella con l’ “armamento” maggiore, in grado di schiacciare, che è quindi elefante rispetto all’altra considerata “ristretta”.

 Nella nostra contemporaneità siamo, però, a quanto pare, diventati noi i “ristretti”,nonostante l'”armamento” di cui disponiamo. Esso è insufficiente, abbiamo quindi bisogno di quell’autocorrezione che crea la forza della identità.

 Ma chi a noi s’oppone necessita della coscienza della

libertà con la quale soltanto ogni civiltà può attuare se stessa.

 

                        ANTONIETTA BENAGIANO

 

 

 

(Corriere di Roma, Anno LIX N.874)

 

 

 

 

 

NEGLI SCENARI APOCALITTICI DI “E VENNE IL SETTIMO GIORNO” DI MARIA MARCONE I NOSTRI PROBLEMI ETICI

 

(Copertina di Cristiana Ricci, Prefazione di Angela Paparella, BESA Editrice, Nardò(LE), 2005, Euro 13,00)

 

Millenni di lontananza come escamotage per presentare, in un crogiolo drammatico, quanto è già in fieri, la distruzione/autodistruzione, della quale i Potenti stentano, purtroppo, a prendere coscienza.

L’ abile espediente di Maria Marcone, che diviene anche denuncia sociologica, si oppone alla “narratio” retrospettiva, la quale non sembra nella letteratura avere più significato se non forse quando è proposta a riflessione sui passati disastri.

L’uomo contemporaneo è infatti troppo angosciato da proble-

mi di ogni ordine per volgersi ad eventi ormai immutabili. Trasformazioni planetarie, sperimentazioni chimiche,nuclea-

ri e biogenetiche, avanzamenti tecnologici e traguardi astrofisici attraggono ma al tempo stesso ingenerano dubbi angosciosi anche sul nostro futuro immediato.

Gli scenari immaginati da scrittori o proposti dalla cinematografia non possono quindi essere più quelli che venivano fuori dalla ottocentesca fiducia nel progresso scientifico, una fiducia del tutto aliena dagli incubi che insorgono nell’ “homo technologicus”.

Pensiamo a Jules Verne, alla sua fantascienza che ben s’inseriva nella convinzione ottimistica in un progresso derivato dalla riorganizzazione tecnica e industriale della società, qual è in Comte, o nel progresso che in Darwin si estendeva a comprendere tutto l’universo.

Oggi non si può più avere quell’ottimismo, poichè la scienza, non per sè ma per la utilizzazione che da essa proviene, è responsabile di scenari drammatici, ed è per questo che sul futuro, anche su quello non troppo lontano, sorgono terrificanti interrogativi.

Ci ritorna, nel corso della lettura del romanzo della Marcone, un problema da più parti ritenuto fondamentale ed è il problema etico, vale a dire il tentativo di dare senso alla totalità dell’essere, pur nell’abbandono di ogni metafisica.

E’ una necessità avvertita ormai da lunghi decenni per cui nella meditazione filosofica si sono fatte strada le cosiddette “etiche speciali”. Nell’etica pubblica Rawls propone un “costruttivismo”  finalizzato alla tolleranza e al pluralismo, mentre Engelhardt e Gracia discutono delle questioni morali e normative relative alla manipolazione genetica, e Passmore e Jones accentrano la loro riflessione sulle responsabilità dell’uomo riguardo ai pericoli della civiltà tecnologica. Il futuro, prossimo e lontano, sarebbe risolvibile, come rilevava Lévinas, semplicemente con l’attenzione all’altro, che è poi attenzione a se stesso.

Dagli eventi narrati nel libro della Marcone balzano le sopraddette problematiche etiche, la gravità di uno scenario umano e planetario già in atto, non certo distante millenni. Ci sono nel romanzo tutte le responsabilità dell’uomo, per meglio dire dell’uomo “dominatore”, il “faber” che, mentre pensa di provocare solo una distruzione lontana da lui, mette in atto l’autodistruzione.

L’uomo tecnologico, sembra dirci la Scrittrice, è un essere “anomico” così com’è descritto nella sociologia e definito da Robert MacIver, nel senso che “risponde solo a se stesso e non sente nessuna responsabilità nei confronti degli altri”.

I personaggi del romanzo, salvo qualche eccezione al femminile, vivono nell’immediato, non si accorgono di quanto la loro “anomia” possa produrre negativamente anche per se stessi. La Marcone ci fa quindi riflettere sulle società tecnologiche post-moderne, formate da individui che hanno a comune denominatore, come rileva il sociologo Theodor Geiger, “l’isolamento… il livellamento, l’uniformità, l’americanismo, la burocratizzazione e lo specialismo, la perdita di un livello culturale, la disintegrazione della vita dei valori e la decadenza dell’orientamento metafisico del mondo… l’anonimità del singolo”.

I protagonisti del romanzo sono infatti ingranaggi di meccanismi mossi da manovratori, i quali, dopo aver disegnato una realtà “artificiale”, folle, fatta anche della speranza di sconfiggere la morte, speranza vanificata poi da eventi anche banali, mettono in atto, per la sopravvivenza degli esseri tecnologici, il piano di annientamento di quanti, tecnologicamente non avanzati, godono ancora di una natura a misura d’uomo.

Rileviamo pertanto una antropologia divisa e opposta fra i “dominanti” e quelli dove lo scarso sviluppo tecnologico permette condizioni di vita che potremmo definire normali, pur con la presenza di difficoltà. Quasi un manicheismo dove scienza e tecnica sembrerebbero rappresentare l’aspetto negativo. Una scienza e tecnica, considerate dalla nostra Scrittrice, di per sè, certamente nè buone nè cattive, dato che è l’uso a dirci da che parte stiano, anzi l’uso-abuso che è responsabilità di chi strumentalizza la tecnologia a fini di rovina.

Il romanzo ci fa riflettere che nella politica, come rileva Carl Schmitt, funziona la categoria del rapporto “amico/ne

mico” per cui la relazione associazione/dissociazione deriva da motivi di difesa. Nell’opera della Marcone la difesa dell’esistenza dell'”homo technologicus” mette anche in atto quello che da sempre è stato elemento risolutore della volontà di distruzione, vale a dire l’inganno.

I continenti “deboli” cadono nell’inganno sottile di una solidarietà finalizzata alla eliminazione, ad un genocidio che non deve trapelare come tale. Miliardi di esseri sono destinati a scomparire per fare spazio a quanti, avendo rovinato il proprio habitat, hanno bisogno di strategie di annientamento per poter esistere ancora.

Se consideriamo poi le “masse” che vivono il progresso tecnologico, rileviamo che esse, sotto il profilo psicologico, sono costituite da individui chiusi nel proprio “particulare”, spiritualmente degradati, stressati, angosciati, in gran parte farmacodipendenti.

Dennis, il protagonista principale, pur avendo ancora emozioni e reazioni “umane”, troppo tardi prende coscienza del male prodotto; lo farà al termine del romanzo destinandosi alla morte insieme ai “deboli”.

Non ci possono essere eroi vincenti nella dimensione antroposociologica, psicologica e politica di quest’opera della Marcone.

Le stesse donne, che prima degli uomini hanno coscienza dei danni prodotti all’esistenza, non possono fare altro che decidere il proprio annientamento, unica soluzione in un contesto nel quale colgono appieno il disfacimento di ogni aspetto della vita, anche dell’amore, avvertito come inconsistente trappola erotica.

Tutti i personaggi del continente dominante, compresi i Potenti, appaiono soggetti dolorosamente problematici, dato che non sono ancora completamente deprivati della loro umanità. Essi agiscono senza riferimenti metafisici(si rintracciano, in quella che potremmo definire “massa”, solo sparute forme di superstizione, legate a meditazioni buddiste) ma non hanno il distacco/ottusità degli esseri da loro clonati.

Il fatto poi che tutto venga pensato come concluso su questa terra, porta a considerare obiettivo al di sopra di ogni etica il prolungamento dell’esistenza, sia a livello individuale sia collettivo, per cui viene giustificata qualsiasi azione come necessità, pure lo sterminio celato sotto la propaganda dolosa della solidarietà.

Una crudeltà che si rivelerà inutile dal momento che tutti saranno poi vittime di un asteroide, dell’evento cosmico al di sopra dei meschini giochi umani.

L’Autrice non può, però, rinunciare alla pace, ad un’armo-

nia che delinea a livello di sogno prima della catastrofe finale, così come non ha rinunciato all’amore fra uomo e donna, una necessità da non dover abbandonare.

E rinveniamo inoltre, accennata appena, una visione metafisica che si fa ricongiungimento a persone care nell’attimo del trapasso di Dennis.

Ma è da rimarcare il messaggio conclusivo che va oltre la riflessione dolorosa degli eventi drammatici, vale a dire la non rinuncia alla vita, la quale dovrà comunque su questa terra proseguire.

A catastrofe geologica già avvenuta, la nostra Autrice ci lascia infatti l’immagine della “smilza ragazza nera” che regge con le mani “il grosso ventre dolente”. E’ la nuova Heva da cui nascerà Habel, forse proiezione di un’umanità in grado di attuare l’esistenza in armonia.

Un romanzo questo dove la vita “non tira la somma”,  fondamentalmente aperto alla speranza, ritmata nell’epilogo su note in cui, pur nella rovina geologica, non è la morte a cantare il trionfo finale.

Un’opera scritta in un linguaggio non regressivo nè oscuro, neppure intessuto dei tanto diffusi “topoi” degradati.

Gli stilemi si presentano agili, senza sbavature, equilibrati sia nelle parti dialogate sia nelle analisi. Essi si fanno anche incalzanti nella pagine dai ritmi drammatici, si permeano talora pure di lirismo.

Maria Marcone, con “E venne il settimo giorno”, sollecita la presa di coscienza della nostra realtà volta all'”artificiale”, alla rovina dell’uomo e del suo mondo, ma lascia insieme intravedere la speranza di salvezza nell’abbandono di ogni narcisismo da parte delle società tecnologicamente avanzate.

 

                        ANTONIETTA BENAGIANO

 

 

(BARISERA, Anno X n°150)    

 

 

 

 

 

Narrativa

 

 

 

 

NON C’E’ STRADA A ME DINANZI

 

 di Antonietta Benagiano

 

 L’aria aveva un intenso profumo quella sera d’estate, era vita da fissare immota.

 “Quante stelle!”

 Esclamò la fanciulla dal collettino bianco quasi gentile cornice alla freschezza dell’esile collo, del bel volto.

 “Una infinità… e i tuoi occhi sono più lucenti…”

 Il ragazzo le prese timidamente la mano, gliela baciò.

 “Finalmente -disse accostandosi a lei tanto che i loro passi apparivano ora ritmati come se fossero un’unica persona- finalmente le mie parole possono avere suono… erano mute, soltanto sguardi attraverso il cristallo…”

 Si voltò a sorriderle ed anche lei sorrise.

 Camminarono per un po’ così, figure in movimento eppure immobili nella staticità della magia che stavano vivendo.

 Quella lunga strada s’illuminava della loro luce, arpeggiava i battiti del cuore. Gli altri attorno erano scomparsi, ogni rumore.

 “Mandavo alla tua immagine riflessa nel cristallo i miei pensieri d’amore… speravo… Quanti giorni ho trepidato, sperato? E intanto il testo aperto non mutava pagina…”

 “Ti parlavo anch’io col mio silenzio… lasciavo che la pagina restasse la stessa, t’invitasse a capire…”

 “Ho capito alfine… gioito quando i tuoi occhi hanno brillato oltre la luce solita e le labbra si sono dischiuse al sorriso… La mia anima era arrivata a te!”

 “Se non fossi venuta quel giorno in biblioteca, se non mi fossi seduta difronte, se il cristallo del tavolo non avesse raccolto il cuore, se…”

 “Il nostro incontro era scritto nelle stelle, solo  il modo sarebbe stato diverso… guardarti un attimo e innamorarmi… il più bel mistero dell’anima che anela al suo completamento… sei tu per me, solo tu puoi esserlo.”

 “Quel respiro all’improvviso diverso… attesa e leggerezza… lievitazione quasi di tutta me stessa… Il mondo attorno si ferma… esiste solo l’anima all’unisono innamorata…”

 “Sarà così qualunque cosa accada… per noi sarà sempre così…”

 La ragazza sorrise di nuovo ma lui colse negli occhi una nube.

 “Non viviamo un tempo sereno -proseguì- ma ogni cosa tornerà alla normalità. Crediamolo!”

 Se poso un semplice koto

 in questa luce,

 non potendo resistere alla bellezza d’autunno

 comincerà il koto

 a suonare

 in silenzio.

La tua pagina era aperta al poeta Jukichi Yagi…”

 “Vorrei infilare la mano… palpare la certezza. Ricomincerà il koto a suonare in autunno?”

 “Noi siamo già certezza.”

 Deviarono dalla lunga strada, entrarono in un giardinetto pubblico, sedettero su una panchina.

 Koji vide gli occhi di Fujiko ritornare stelle.

 “Una lunga strada -disse trasognato- vedo una lunga strada… noi la percorreremo insieme…”

 “A me basta questo momento… è vita che possediamo.”

 Il ragazzo l’abbracciò, posò le labbra su quelle di lei che si dischiudevano sorriso di vita.

 Non era felicità?

 Koji l’aveva avuta in quel tempo ormai lontano ed era rimasta ogni dì presente alla sua anima. Poteva dire che la felicità era esistita, ne aveva certezza poichè era passata, definitivamente fissata, non più soggetta a cambiamento. Gli era rimasto il ricordo vivo che identificava quel breve passato come felicità, la conoscenza come possesso. In quel ricordo continuava a rifugiarsi ma era felicità di breve momento, poi gli si presentava l’opposto, il dolore mai placato che lo lacerava ancora.

 E la città era un’altra città. Non esisteva più nulla di quel ch’era stato parte di loro. Camminava per strade che gli restavano estranee sebbene fossero nel suo percorso quotidiano. Verso sera solitamente sedeva per un po’ su un muretto non molto distante dall’ospedale dove lavorava. Avevano lasciato insieme a quel relitto della biblioteca altre pietre a memoria di quel tragico 6 agosto.

 Erano passati sessant’anni ma lui tornava sempre lì a riprendersi per brevi attimi la felicità che la barbarie dell’atomica gli aveva strappata.

 La sua Hiroshima, quella scomparsa in un baleno, si ripresentava dinanzi agli occhi del cuore, con la biblioteca e il loro tavolo dal cristallo terso, con la panchina del giardinetto fiorito e la lunga strada. E poteva riprendere per mano la sua Fujiko, baciarla, tornare alla felicità vissuta un batter d’ali di farfalla.

 Era vecchio e stanco il medico Koji. Aveva dedicato la vita a cercare di sanare le rovine provocate da quella maledetta bomba. Si era salvato perchè sua madre l’aveva pregato di andare dai nonni a portare cose di cui avevano necessità. Era partito in treno di buon mattino pensando di far ritorno prima del tramonto. Il futuro! Quello dell’uomo è spesso legato alla crudeltà dell’altro uomo. Non avrebbe rivisto più le persone che amava, la sua Hiroshima.

 Koji si sentiva sempre più vecchio e stanco. Il mondo attorno non gli apparteneva ma il ricordo di Fujiko gli dava ancora la forza di sorridere e piangere.

 Da lunghissimo tempo con Kotaro Takamura ripeteva…

 Non c’è strada a me dinanzi.

 Dietro di me è tracciata una strada…

 O grande padre, non stornare

 gli occhi da me, proteggimi,

 colmami del tuo vigore

 per questo lungo viaggio

 per questo lungo viaggio.

 

 

 NO HAY CAMINO DELANTE DE MI’

 

Un cuento por Antonietta Benagiano

 

 

 Aquella tarde de verano el aire tenìa un perfume intenso, era vida de fijar inmòvil.

 “¡Cuàntas estrellas!”

 Exclamò la muchacha con el cuello blanco que parecìa un amable marco por la frescura de su delgado cuello y de su bonita cara.

 “Una infinidad… y tus ojos son màs lucientes…”

 El muchacho le tomò su mano timidamente, y la besò.

 “Por fin –dijo acercandose a ella asì que sus pasos parecìan ahora combinados armonicamente como si fueran de una sola persona- por fin mis palabras pueden tener un sonido… eran mudas, sòlo miradas a travès del cristal…”

 Se volviò y le sonriò a ella que tambièn sonriò.

 Caminaron por un poco asì, figuras en movimiento pero inmoviles en la quietud del encanto que estaban viviendo.

 Aquel largo camino se iluminaba debido a su luz, arpegiaba los latidos de los corazones. La otra gente alrededor habìa desaparecido, asì como cada ruido.

 “Mandaba a tu imagèn reflejada en el cristal mi pensamientos de amor…esperaba… ¿Cuàntos dìas me he preocupado, he esperado? Y mientras tanto el libro abierto no mutaba pàgina…”

 “Te hablaba tambièn yo con mi silencio… dejaba que la pàgina permanecìa la misma, asì que te invitara a comprender…”

 “He comprendilo al fin… me he alegrado cuando tus ojos han brillado màs de lo acostumbrado y tus labios se abrieron en una sonrisa… ¡Mi alma te ha alcanzado!”

 “Si no hubiera venido aquel dìa a la biblioteca, si no me hubiera sentado enfrente, si el cristal de la mesa no hubiera cogido el corazòn, si…”

 “Nuestro encuentro estaba escrito en las estrellas, sòlo la manera habrìa sido diferente… mirarte un momento y enamorarme… el màs bonito misterio del alma que anhela a su completamiento… esto eres tù por mì, sòlo tù puedes serlo.”

 “Aquel respiro de improviso diverso… espera y ligereza… elevaciòn de casi toda mì misma… El mundo alrededor se para… existe sòlo el alma al unìsono enamorada…”

 “Serà asì cualquier cosa pase… para nosotros serà sempre asì…”

 La muchacha sonriò de nuevo pero èl notò una nube en sus ojos.

 “No vivimos en un tiempo tranquilo -siguiò- pero todo volverà a la normalidad. ¡Creemos!”

 Si pongo un simple koto

 En esta luz,

 no pudiendo resistir a la belleza del otoño

 empezarà el koto

 a tocar

 en silencio.

Tu pàgina estaba abierta al poeta Jukichi Yagi…”

 “Querrìa introducir mi mano… palpar la certeza. ¿Empezarà de nuevo el koto a tocar en otoño?”

 “Nosotros somos ya certeza.”

 Salieron del largo camino, entraron en un parque, se sentaron en un banco.

 Koji vio los ojos de Fujiko volverse de nuevo a las estrellas.

 “Un largo camino -dijo trasoñado- veo un largo camino… nosotros lo atraversaremos juntos…”

 “Me basta este momento… es vida que tenemos.”

 El muchacho la abrazò, puso sus labios sobre las de ellas que se abrìan en una sonrisa de vida.

 No era felicidad?

 Koji la habìa sentida en aquel tiempo ya remoto y habìa permanecido cada dìa presente a su alma. Podìa decir que la felicidad habìa existido, estaba cierto porque habìa pasado, definitivamente fijada, no màs sujeta al cambio. Le habìa quedado el recuerdo vivo que identificaba aquel fugaz pasado como felicidad, el conoscimento como posesiòn. Seguìa refugiandose en aquel recuerdo pero era una felicidad efìmera, despuès experimentaba el contrario, el dolor nunca aplacado que aùn lo desgarraba.

 La ciudad era una ciudad diversa. No habìa màs algo que habìa sido parte de ellos. Iba por las calles que le parecìan extrañas si bien fueron su recorrido diario. Al anochecer de ordinario se sentaba por un poco en un murete cerca del hospital donde trabajaba. Habìan dejado junto a aquellos restos de la biblioteca otras piedras en recuerdo de aquel tràgico 6 de agosto.

 Habìan pasado sesenta años pero èl volvìa siempre ahì para retomarse por fugaces momentos la felicidad que la brutalidad de la bomba atòmica le habìa desgarrado.

 Su Hiroshima, aquella desaparecida en un instante, se presentaba de nuevo delante de los ojos del corazòn, con la biblioteca y su mesa de cristal terso, con el asiento del parque florido y el largo camino. Y podìa retomar la mano de su Fujiko, besarla, volver a la felicidad vivida un latido de alas de una mariposa.

 Estaba viejo y cansado el mèdico Koji. Habìa dedicado su vida intentando sanear las ruinas causadas por aquella maldita bomba. Se habìa salvado porque su madre le habìa rogado que fuera a sus abuelos para llevarles lo que necesitaban. Saliò en el tren al amanecer pensando de volver antes del ocaso. El futuro! El del hombre es frecuentemente ligado a la crueldad de otro hombre. No habrìa visto màs las personas que amaba, su Hiroshima.

 Koji se sentìa siempre màs viejo y cansado. El mundo alrededor no le pertenecìa màs pero el recuerdo de Fujiko que le daba aùn la fuerza para sonreìr y llorar.

 Desde larguìsimo tiempo con Kotaro Takamura repetìa…

 No hay camino delante de mì.

 Detràs de mì  està delineado  un camino…

 O grande padre, no desvies

 Tus ojos de mì, protegeme,

 colmame con tu vigor

 por este largo viaje

 por este largo viaje.

 

 

 

                    

 THERE’S NO WAY IN FRONT OF ME

 

 by Antonietta Benagiano

 

 

 The air had a strong scent that summer evening, it was life to be fixed motionless.

 “What a lot of stars!”

 The girl, in a white collar, that seemed the soft frame of the freshness of her thin neck and beautiful face, exclaimed.

 “An infinity… and your eyes are brighter…”

 The boy took her hand shyly and kissed it.

 “Finally –he said approaching her so much that their steps seemed now measured as if they were a single person – finally my words can have a sound… they were silent, only glances through the crystal…”

 He turned and smiled at her just like she also did.

 They walked in this way for a while, figures moving but yet motionless in the stillness of the magic they were living.

 That long road brightened with their light, harped their hearts’ beats. The other people around had disappeared just like the noise.

 “I was sending my thoughts of love to your image reflected in the crystal… I hoped… How many days have I trembled, hoped? But the open book didn’t change page…”

 “I also talked to you with my silence… I let the page remain the same, so that it helped you to understand…”

 “I’ve understood at last… I’ve been glad when your eyes were brighter than usual and your lips open in a smile… My soul had reached you!”

 “If you hadn’t come to the library that day, if you hadn’t sat yourself in front of me, if the crystal of the table hadn’t taken your heart, if…”

 “Our meeting was written in the stars, only the way had to be different… looking at you just a moment and falling in love with you… the most beautiful mystery of the soul longing for its fulfilment… this you are for me, only you can be this.”

 “That suddenly different breathe… waiting and lightness… rising of almost the whole of myself… The world around stops… it only exists an harmonically fallen in love soul…”

 “It will be like this whatever happens… it will always be like this for us…”

 The girl smiled again but he noticed a cloud in her eyes.

 “We don’t live in a tranquil time – he went on – but everything will return to normality. Let’s believe it!”

 If I put a simple koto

 under this light,

 being unable to bear the beauty of autumn

 it will begin to play

 in silence.

Your page was open on the poet Jukichi Yagi…”

 “I’d like to slip my hand… to touch the certainty. Will the koto start playing in autumn?”

 “We are already certainty.”

 They departed from the long road, they went in a park and sat in a bench.

 Koji saw Fujiko’s eyes turning again to the stars.

 “A long way –he said dreamy – I see a long way… we’ll walk along it together…”

 “This moment is enough for me… it’s life we possess.”

 The boy hugged her, put his lips on hers that disclosed a smile of life.

 Wasn’t it happiness?

 Koji had it in that time, now so far, and it always remained present in his soul. He could say happiness had really existed, he was sure because it had passed, definitely fixed, never more subject to change. It had remained a vivid memory that identified that brief past like happiness, the knowledge as possession. In that memory it kept on sheltering but it was a short happiness, later it comes the contrary, the never lessened pain that still tore him.

 And the city was another city. It existed nothing that had been part of them anymore. He walked for roads that seemed still foreign to him although they were his daily way. When it got dark he usually sat for a while on a little wall not very far from the hospital where he worked. They had left together with that relic of the library other stones that remembered that tragic sixth of August.

 Sixty years had gone by, but he kept on coming back there to catch again those short moments of happiness that atomic bomb had snatched from him.

 His Hiroshima, that one disappeared suddenly, presented itself in front of his heart’s eyes, together with the library and their crystal table, the bench of the flowery park and the long way. And he could take Fujiko’s hand again and kiss it, coming back to the happiness that lasted the beat of a butterfly’s wings.

 Doctor Koji was old and tired. He had spent his life trying to heal the ruins caused by that damned bomb. He had saved himself because his mother had asked him to go to his grandparents to take them what they needed. He left by train early thinking he would be back before the sunset. The future! Man’s one is often linked to the cruelty of another man. He wouldn’t have seen anymore the people he loved, his Hiroshima.

 Koji felt more and more old and tired. The world around didn’t belong to him anymore but the memory of Fujiko still gave him the strength to smile and cry.

 Since a long time Takamura repeated with Kotaro..

 There’s no way in front of me.

 Behind me a way is marked out…

 O great father, don’t divert

 Your eyes from me, protect me,

 Fill me with your vigour

 For this long journey

 For this long journey.

 

 

                      ANTONIETTA BENAGIANO      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL QUARK DELL’ETERNITA’

 

 

 

 “Omega00359, ho controllato il visualizzatore: è nella norma. Mandami i risultati delle tue elaborazioni. Siamo ormai sganciati dal sistema che ci precludeva altre esperienze cosmiche. La nostra materia è giunta a sorprendenti capacità di resistenza. Le piastrine stanno reagendo secondo previsione, possiamo quindi… Ma perché nel mio occhio non compaiono i tuoi riscontri?”

 Omega00358 attendeva, non poteva proseguire nel lavoro dal momento che l’altro essere meccanicizzato, con cui era stato messo in contatto sin dall’inizio del suo esistere in quella forma, non inviava alcun segnale.

 Erano entrambi, come tutti coloro che dimoravano sulla Piattaforma00119 e sulle tante altre vaganti nello spazio, antropi dell’ultima generazione, vale a dire entità fisiche e mentali totalmente modificate, molto diverse da quelle delle lontanissime ere terrestri. La loro materia, attraverso il susseguirsi delle selezioni di elementi compositi, di elaborazioni sempre più complesse, risultava volta all’obiettivo ritenuto primario, quello di superare il deterioramento, in modo da poter attuare esplorazioni cosmiche oltre l’immaginabile. E lo scopo sembrava raggiunto dato che avevano potuto vagare nel sistema eliocentrico, conoscere condizioni e possibilità di ogni massa rotante. Ora stavano addirittura sganciandosi da esso per avviarsi alla esplorazione del circuito Beta001 presente nella loro galassia.

 Era ancora ben poco rispetto all’universo, alle infinite galassie sconosciute, ma poteva il loro avanzamento considerarsi di grandissimo rilievo, ritenersi essi stessi superiori oltre misura non solo rispetto agli ultimi terrestri, che venivano giudicati protoentità molto limitate, ma anche in confronto alle più vicine generazioni di interplanetari. Potevano infatti i nuovi antropi autorigenerarsi al di là delle precedenti possibilità: bastava sorvegliare il livello dei componenti presenti in loro, intervenire qualora si rilevasse, nella visualizzazione del proprio controllo, una qualche alterazione.

 “Perchè non mandi ancora segnali? Attendo le tue elaborazioni. Inviale!”

 Omega00358 continuava a sollecitare l’entità con cui era in contatto, andando oltre il numero di richiami stabilito dall’Omega arconte di quella piattaforma.

 “Perchè? Perchè non rispondi?”

 Sperava che comparisse un riscontro, un minimo segno di presenza. E notò ad un tratto qualcosa…

 “O mio Omega00359!”

 Vedeva nel suo occhio la propria materia rigarsi di linee sottilissime, avvertiva in sè una condizione mai provata.

 “Cos’è questo male?”

 Il fenomeno, insolito e strano, non apparteneva alle variazioni per le quali era necessario che l’entità si autorigenerasse; era senza precedenti, non segnalato in nessuna elaborazione.

 “Che mi sta succedendo? Cosa debbo fare?”

 Ma il suo interrogarsi era soltanto retorico. Omega00358 ne avvertiva la provenienza, percepiva quale potesse essere la motivazione.

 Era quella sospensione che l’aveva improvvisamente colto, l’incertezza nell’accettare quanto rientrava nel compito decretato dall’Arconte. Proprio la titubanza gli provocava le righe sottili nella materia programmata ad essere indeformabile.

 Sapeva bene che non tutti gli antropi meccanicizzati riuscivano ad essere estremamente attenti ad autorigenerarsi quando qualcosa non era più nel rigore della programmazione. Qualcuno trascurava talora il controllo o si lasciava sfuggire qualche elemento. Quando accadeva ciò, entrava in tilt l’equilibrio generale del soggetto, la sua stessa esistenza, e non c’era possibibilità di ricomporla.

 “Omega00359 non è stato attento -continuò a pensare rigandosi in tutto il suo essere- non è stato attento e non si è autorigenerato al momento opportuno. Ora tocca a me, sì, tocca proprio a me che gli sto accanto inviare l’ordine di annientamento. Come posso? Dal nostro tempo infinitamente lungo, da quando siamo esistiti, io ho avuto contatti con lui, semplici contatti elaborativi, quelli degli esseri meccanicizzati, ma a noi parevano anche altro… affinità… affinità strane, inspiegabili negli antropi ‘piattaformali’. Solo i terrestri, a quanto tramanda l’archeologia del pianeta scomparso, avevano le affinità. Era anche attrazione della diversità allora esistente, quel genere maschile e femminile che in noi non ha poi avuto ragion d’essere. Perchè dunque la mia materia si riga? Occhio, dammi risposta!”

 E comparve una piastrina, una delle tante piastrine di cui era composta la sua materia metallica.

 “O bella stranezza! -esclamò- Tu non sei come le altre, no, tu appari diversa. In te vedo un quark di luce. Eredità remota? Dimenticanza nel corso delle trasformazioni? Cos’è un quark? Una particella minima, apparentemente insignificante, eppure questo quark è grandezza, per me ora dolore grande della perdita, un dolore che riga la mia materia. L’aveva forse anche Omega00359. Era questa la nostra affinità, l’anomalia che ci ha uniti. Amico, amico mio, come posso annullarti? Annullerei me stesso. E intanto Omega arconte percepirà nel suo occhio la tua inutilità, la mia disubbidienza. Saremo eliminati. Terribile sorte l’inesistenza! A che fine saremmo esistiti? Per le elaborazioni? Per questo inutile vagare nello spazio? Avanti, sempre più avanti la nostra materia rigida e insensibile, la mente finalizzata ad uno scopo che non possiamo cogliere come vero piacere. L’Arconte ci annienterà, sì, a breve ci annienterà. Potrei ancora salvarmi, potrei… se volessi annientato te solo. Non lo voglio. Penso altro, penso che non finiremo… che non finiremo così. Ci sarà per noi un Arconte Supremo, diverso dagli arconti delle piattaforme, un Arconte che può dare esistenza, un’esistenza al di là della rigenerazione. Sì, ci sarà. Lì, oltre la Grande Barriera, quella che inutilmente tentano di elaborare, dove ogni cosa resta ignota. Ci sarà. Lo credo. Tu, amico, non puoi divenire inesistente. Il quark di luce non è materia annientabile, e forse anche altri ce l’hanno, quelli che non sono interamente meccanicizzati. Ma ecco l’Arconte della piattaforma! Ci revisiona e…”

 “Omega00358 non esegue l’invio di annientamento su Omega00359. Eliminati entrambi!”

 Il pensiero dell’Arconte divenne immediata distruzione d’ogni loro piastrina.

 Ma i due quark di luce non furono parte di essa, non scomparvero, volarono all’istante via dalla piattaforma,  furono immediatamente lontanissimi.

 Non si voltarono indietro. Se l’avessero fatto appena fuori da essa, l’avrebbero già vista come un insignificante puntino nero, una prigione della quale si erano finalmente liberati.

 Procedevano a velocità inimmaginabile e s’andavano via via ingrandendo sino a divenire bellissime forme di luce. E il godimento, mentre volavano tra le infinite galassie e protogalassie, era tale da mandare in oblio la precedente esistenza di antropi ‘piattaformali’.

 Si avviavamo alla Grande Barriera, e non erano soli.  Schiere di luce, nelle quali si specchiavano cogliendo la propria immagine di esseri cosmici, erano volte tutte insieme alla dimora oltre la conoscenza antropica.

 L’osanna riempiva il silenzio siderale.

 

 

 

 

   

 

 

 

 

Poesia

 

 

 

PRESENTE

 

 

Un cane annusa la straniera sulle Murge

farfalle alitano festose voci liceali

sogni in corsa oltre barriere

ed il rombo stritola dell’escavatore

roccia assenza alle generazioni

il tricolore consunto arrotolato all’asta

 

non vede il cane manifesti nè colori

nè scontri d’uomo con colline sventrate

razzismi ignora totalitarismi gl’infiniti ‘ismi’

l’angoscia dell’enigma universale

 

vita scorre al presente adattata

nel prato va a segnare il dominio

farlo suo ognun potrà… più in là va

del prima incurante della zampa che avanza

 

incerta l’aurora sull’uomo incombe pena

ed è il tramonto perdita nell’assenza di Dio.

 

                  ANTONIETTA BENAGIANO

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CONTA

 

 

A me… a te

a te… a me

nessuno sopravanza

di qua l’urna di là mena contenti scontenti

chi vince?

status quo nike

arraffi tu

a un’esile canna ‘la turrita’ s’aggrappa…

 

don! don! don!

campana a martello per te

grande sconto hai avuto del peso

lo pago io centuplicato

rosso bianco ogni colore furbizia non ho

difettano gli amici anche piccolini

con l’una parte nulla cambia con l’altra

 

un medico alla moribonda!

di pelle nuova abbisogna e sangue sano

di fegato e cuore e d’intelletto

via ogni schizofrenia!

violenza ingiustizia ineguaglianza

piatto sbilenco la bilancia

e l’oriolo segna la stessa ora

chi toglie la vela dal pantano?

 

ho giocherellato

va il mondo secondo perfezione solita

equilibrismo evviva!

a spese del tassato sta in poltrona

‘pro domo sua’ il pubblico servizio.

 

                                                     ANTONIETTA BENAGIANO

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