Il tempo dei giusti e degli onesti: da ‘orrendo banchetto’ al ‘sacco del lucroso bottino’; dalla ‘rivoluzione morbida’ alla ‘primavera italiana’
«La disperazione più grande che possa
impadronirsi di una società è il dubbio che
vivere rettamente sia inutile.»
Corrado Alvaro
«Non ho paura delle parole dei violenti,
ma del silenzio degli onesti.» Martin Luther King
In questi ultimi due anni, dal 17 febbraio 1992 in poi, dallo scoppio del cosiddetto scandalo di Tangentopoli (come l’hanno definito i giornalisti con il loro linguaggio approssimativo ma ad effetto), i fattori perversi che ormai da decennî impedivano la nascita d’un’autentica democrazia in Italia sono venuti tragicamente a maturazione, determinando una conflagrazione senza precedenti nella storia del nostro Paese.
Per capire un fenomeno così complesso è certo indispensabile risalirne alle origini: Giulio Bollati tira giustamente in ballo, a proposito, Gramsci: «Per esempio, Gramsci: quando dice che l’unità d’Italia è il prodotto dell’azione della classe dei produttori del Nord che si è spartita il Paese con i proprietari e gli avvocati del Sud, mi pare che colga il vero. Poi si è lasciato il governo interamente agli avvocati del Sud. Hanno invaso il Nord, hanno meridionalizzato l’Italia? Ma gliela avete data.»2 «La classe di governo fondiaria meridionale non ha tutte le colpe. Le ha anche la classe dei produttori del Nord, che per noncuranza non si è costitutita classe di governo. Probabilmente il dramma italiano sta qui.»3 E nello stesso tempo possiamo giustamente chiederci, ancóra con lui: «ma perché il popolo italiano non ha il diritto ad essere governato e a non avere una classe dirigente cadorniana, che conduce allo sbaraglio e poi se va male la colpa non è dei capi? I soldati hanno sempre ragione rispetto ai generali.»4
Una sorta di maledizione politica, in effetti, sembra gravare sul popolo italiano sin dalla caduta dell’Impero romano: ma se nel Quatrocento e nel Cinquecento, ad esempio, l’Italia seppe esprimere, in un’antinomia violenta col suo vertiginoso declino politico, una vita culturale ed artistica ineguagliabile, oggi, di là dallo sfascio politico e civile, che cosa esprime il nostro Paese? L’immagine che ci viene in mente è quella, pasoliniana, di un cumulo di macerie, dove quasi tutto è da ricostruire su basi nuove5.
L’ingiustizia in Italia è stata istituzionalizzata, al punto che tutto ciò che debordasse da quella linea maestra è stato visto in questi anni con rabbia e sospetto, come da antichi signori feudali cui venissero sottratti i proprî privilegi, tanto consolidati da essere ormai sentiti come naturali. L’exemplum più lampante è certo costituito dalla questione fiscale: benché la Costituzione indichi a chiare lettere fra i suoi principî fondamentali che le tasse vadano pagate in proporzione al proprio reddito, in Italia, come nei regimi aristocratici d’un tempo, esse sono pagate per la più gran parte dai dipendenti a reddito fisso e, dunque, in proporzione inversamente proporzionale al reddito; contro tale assurda ingiustizia, che è communis opinio, nessuna componente politica ha mai levato la propria voce, per timore di perdere voti ed intaccare interessi costituiti. S’intende che una certa evasione fiscale è fisiologica nelle democrazie occidentali: ma è il livello da essa raggiunto nel nostro Paese che è unico e che rappresenta una perdita per lo Stato dalle proporzioni incalcolabili.
Di fronte ad una crisi economica galoppante, della quale pure era direttamente responsabile, il governo, ovvero i partiti di potere, non hanno saputo far meglio che gravare gli Italiani d’una selva di tasse ingenti e cervellotiche, nel tentativo disperato di drenare soldi dopo anni di follia: l’acme è stato toccato dal prelievo sui risparmî del sette per mille, un vera e propria estorsione legalizzata, sul tipo del racket camorristico, visto anche che andava ad intaccare un àmbito sacro per il piccolo risparmiatore, sovente frutto del lavoro di tutta una vita. Sicché giustamente si potrebbe dire che il cittadino onesto ha oggi in Italia tre nemici acerrimi: la mafia, la camorra e lo Stato.
D’altra parte, il rapporto fra cittadini e istituzioni è biunivoco, e la classe dirigente di uno Stato, specialmente se elettiva, non è altro, al fondo, che l’espressione del livello civile d’un Paese. Nell’Italia dell’ultimo dopoguerra, come scrivono gli psicologi individuali Parenti e Pagani, si è venuto affermando — o meglio si è semplicemente andato consolidando, sulla scorta, appunto, di tutto un antico, secolare retaggio storico-politico — una sorta di «trasformismo furbesco»6: uno ’stile’, aggiungiamo noi (per dirla in termini adleriani), improntato ad una compiaciuta, egocentrica, derisoria soddisfazione per la frode ed il raggiro dell’istituzione (avvertita come il nemico sleale contro cui, dunque, a nulla varrebbe la lealtà), nonché all’elusione opportunistica del ‘regolamento etico’, del quale l’unica misura valida è la legittimazione proveniente dal ‘successo’. Gli Italiani non sono meno colpevoli della loro classe dirigente: quello che di corruzione e di malaffare è venuto fuori in questi ultimi due anni come un inarrestabile fiume in piena era in effetti ben noto ad un elettorato che dappertutto — ma al Sud in maniera pressoché esclusiva — operava le sue scelte sulla base del meccanismo perverso e sciagurato del ‘voto di scambio’, di un peraltro spesso illusorio do ut des.
A questo punto viene legittimo chiedersi perché solo ora si sia saputo; perché solo ora il ghinsberghiano Moloch del torbido e tentacolare meccanismo di collusione fra potere politico, potere criminale e magistratura non sia più riuscito, stavolta, ad impedirne l’emergenza. Tre fattori, fra i tanti ipotizzabili, sembrano ergersi sugli altri: l’indebolirsi del potere dei partiti tradizionali in séguito, principalmente ma non solo, ai risultatati negativi delle elezioni del 5 aprile (anch’essa una data storica per il rinnovamento civile del Paese); l’acuirsi vertiginoso della crisi economica, determinata dalla gestione criminale da essi tenuta della cosa pubblica; il fatto, infine, che i meccanismi clientelari o proprio delinquenziali di gestione del potere siano diventati cosìpreponderanti ed esclusivi da giungere ad un punto di rottura, o meglio ad un punto morto, determinando di fatto una paralisi nella vita del Paese: in questi anni, in Italia, si può ben dire che non si sia mossa foglia che non sia stata decisa dai politici, che hanno esteso la loro manus tentacolare fin nei più riposti angoli della vita pubblica, operando nel migliore dei casi — e non poteva essere altrimenti — con la più assoluta incompetenza, quando non con la più proterva ladroneria. È stato un vero e proprio colpo di Stato morbido, che il regime ha attuato lentamente ma con sublime astuzia, estendendo di giorno in giorno il proprio potere a sempre nuovi settori, impadronendosi progressivamente di tutte le strutture pubbliche, delle banche, della radio, dei giornali, della televisione: ne è nata una sorta di dittatura, sia pure sui generis, che si è servita delle fonti di informazione, emarginando contemporaneamente la cultura, da anni consapevole di quanto stava avvenendo e presaga di quanto sarebbe avvenuto.
Certo non può essere una coincidenza che molti capi mafiosi, che fino a qualche tempo fa si aggiravano tranquillamente per Palermo nonostante la loro antica e feroce latitanza (Riina in primis)7, siano stati improvvisamente e agevolmente catturati: la responsabilità di un Andreotti come «garante della mafia»8 — insuperato alfiere di una surrettizia ‘democrazia ereditaria’ e della brama diabolica del ‘potere per il potere’ — sono indiscutibili sul piano politico, ma ormai sempre più lampanti anche su quello strettamente penale. Per anni il leader democristiano (oggi inchiodato dagli infamanti articoli 110 e 416 bis del codice penale: concorso in associazione di stampo mafioso) ha imposto il suo famigerato ‘garantismo’, contrabbandando sotto il nobile ma fraudolento eufemismo della difesa dei diritti costituzionali un machiavellico meccanismo teso alla difesa ed all’impunibilità dei mafiosi; oppure ha aggiustato, in qualità di referente politico, attraverso il giudice Carnevale — capace di annichilire, per un cavillo giuridico, un intero processo contro criminali crudelissimi9 — una gran mèsse di sentenze; drenando poi voti in Sicilia attraverso il suo proconsole Lima.
‘Uomini per tutte le stagioni’ (riprendendo il titolo del bel movie di Zinnemann)10 come il senatore a vita democristiano, che non hanno vergogna di afferamare che «si fa la guerra con i soldati che si hanno»11 (dunque anche con i mafiosi più abietti) devono sparire dalla vita politica italiana: e dobbiamo augurarci che questa specie di animale politico sia già in via di estinzione.
È insieme triste e terribile, nel contempo, constatare come un’ideologia comunque umanitaria, nata da un nobile sogno di uguaglianza e di giustizia, abbia potuto degenerare al punto che il Partito Socialista Italiano sia divenuto un’azienda, il fosco ricettacolo in cui confluisse chiunque avesse l’idea, purtroppo non peregrina, che attraverso la politica — ma diremmo meglio il politicismo — si acquisissero soldi facili e potere immeritato: le responsabilità di un Craxi, il maggiore uomo-simbolo del sistema insieme al senatore a vita romano, avvicinato opportunamente a Ceausescu per la sua forma mentis dispotica ed i suoi modi senza scrupoli nella gestione del potere12, sono naturalmente non soltanto le sue, ma quelle di tutta una classe politica che ha accettato qualunque patto e qualunque compromesso pur di drenare voti.
Del resto, va pure detto a chiare lettere che non è in alcun modo pensabile che chi era ai vertici di un partito, pur non avendo rubato in prima persona, non sapesse cosa facevano i suoi compagni: un esempio per tutti può essere quello di Amato rispetto al suo maestro Craxi. In effetti, il sistema era quello, in un certo senso frutto anche dei costi sempre più faraonici della politica: e chi non praticava la disonestà personalmente, certo sapeva, e ne era, almeno indirettamente, complice e consenziente.
Nessuno dei partiti di potere può dirsi al di fuori o al di sopra di questa nostra vergogna nazionale: si può sconsolatamente dire, anzi, che la compromissione di ciascuna pars è direttamente proporzionale alla quantità di potere da essa gestita.
È stato un modo di amministrare — anzi: di malamministrare — lo Stato, che ha impedito un autentico sviluppo economico e civile del Paese, che andasse al di là dei bagliori surrettizî e ingannevoli d’un vuoto consumismo: una ‘dolce vita’ sul baratro d’un debito pubblico che cresceva a dismisura, di posti di lavoro creati dal nulla per un pugno di voti (e che oggi nel nulla stanno inesorabilmente risprofondando).
Sono stati anni all’insegna di un assistenzialismo cieco, che ha impedito che il tessuto economico si fortificasse e restasse concorrenziale, mentre fiumi di denaro irrigavano il deserto, accrescendo sempre più vertiginosamente il disavanzo pubblico.
Una nazione è come la terra per il contadino: non regala nulla, ma produce lavoro e ricchezza nella misura in cui la si lavori bene e con l’occhio vigile anche al futuro.
Ai partiti hanno colpevolmente tenuto bordone i sindacati, abbracciandone e secondandone la folle demagogia: essendo del resto essi stessi, direttamente o indirettamente, espressione dei partiti o di gruppi d’interesse politico o finanziario (il che, in fondo, è lo stesso); una sorta di corporativismo sindacale, che ha rappresentato uno dei poteri cruciali di quest’Italia meschina e parassita. Intere classi professionali si sono gelosamente chiuse in corporazioni e clan, a cui si può accedere solo attraverso legami diretti o indiretti (di parentela, di amicizia o politici), ma mai per puro merito: un esempio valga per tutti, quello dei giornalisti.
Nelle cieche concessioni, nel lassismo continuo, specialmente del pubblico impiego, la qualità dei servizî è vertiginosamente degenerata, appaiando l’Italia ai Paesi del terzo mondo e tagliandola inesorabilmente fuori dalla possibilità di competere alla pari con le altre nazioni industrializzate. Qui certamente cogliamo, dal basso, un’altra ragione della decadenza italiana: al di sotto dei grandi beneficiarî del malcostume e della corruzione, una fitta, inestricabile selva è germogliata di piccoli fruitori, ai quali il sistema è andato bene semplicemente perché dava loro dei meschini vantaggi o permetteva loro delle illecite libertà; perché nessuno controllava l’adempimento del loro dovere (si pensi anche all’evasione fiscale) o la correttezza del loro comportamento professionale. Oggi, molti di quelli osano sfacciatamente levare la loro protesta, unirsi al coro degli arrabbiati — le vittime autentiche — quasi perché è di moda.
Ora, forse, non è difficile dire queste cose; ma difficile lo era negli anni ‘70, quando lo dicevamo in tempi non ancóra sospetti.
E poi, una selva di altri poteri, palesi o clandestini, ha attraversato il Paese in questi anni oscuri, sulla base di legami più o meni diretti con i partiti: citeremo, a mo’ d’esempio, Comunione e Liberazione. Il movimento, nonostante il proclamato spiritualismo, si è innanzi tutto caratterizzato negli anni come un gigantesco ufficio di collocamento per i proprî affiliati, grazie alla ricchissima rete di legami politici, ben al di fuori dei pur vantati criterî di merito o di giustizia (loro la chiamano, candidamente, «amicizia»…); integralisti neo-medievali, i Ciellini si sono sempre proposti come assertori dell’autentica fede e della vera libertà: in realtà, non hanno avuto alcun ritegno ad invitare ed acclamare al loro happenning annuale, il Meeting di Rimini del ‘93, un Andreotti in odore di mafia, e comunque emblematico esponente del vecchio regime al tramonto sotto i colpi della crisi e degli avvisi di garanzia; al punto che uno dei loro leader più in vista, Giancarlo Cesana, Presidente del Movimento Popolare, il braccio secolare di Cl, ha pronunciato a proposito del senatore a vita democristiano parole che, alla luce delle ultime vicende giudiziarie, non possono non risuonare tragicamente paradossali: «Magari ci fosse gente che vivesse il catechismo un decimo di quanto fa lui…»; concludendo con un patetico tentativo di difesa di quel sistema che pure è, in realtà, quanto di più anti-cristiano si possa immaginare: «Si parla tanto di rivoluzione italiana, ma spesso le rivoluzioni lasciano le cose peggio di prima…»13. Ma davvero le cose potrebbero andare peggio che in un sistema fondato quasi esclusivamente sulla corruzione e sul malaffare? Un sistema che, privo com’è stato d’una libera e giusta dialettica delle istituzioni e delle idee, i classici non avrebbero esitato a definire non ‘democrazia’, ma la sua fosca corruzione: ‘demagogia’.
Certo, episodî di corruzione e di malaffare, anche gravissimi, si sono sempre verificati: e non solo in democrazia, ma sotto ogni tipo di regime politico; ma la cosa terribile ed unica di quanto è successo in Italia è stata la proporzione del fenomeno: non episodî, sia pur numerosi, ma un sistema generalizzato e pressoché senza eccezioni, al punto da imporre l’adeguamento coatto ad esso, pena l’esclusione inesorabile di chi non si volesse piegare.
Anche in un Paese come gli Stati Uniti, ad esempio, la grande criminalità organizzata ha assunto dimensioni enormi: ma quello che ha caratterizzato il sistema politico italiano è stato il fatto che, a differenza che in America ed in altre nazioni occidentali, quella criminalità ha finito per integrarsi con le istituzioni, divenendo tutt’uno con esse, per cui ad un certo punto è diventato pressoché impossibile distinguerle.
Il giornale di Cl, “Il Sabato” (che ogni ciellino porta orgogliosamente sotto il braccio come il Libretto rosso di Mao od il Marcuse dei Sessantottini), invece di ringraziare il cielo per l’opera moralizzatrice (e dunque, quella sì, perfettamente cristiana) di Di Pietro e di un altro manipolo di giudici coraggiosi, ha sferrato un duro attacco contro l’ormai famoso magistrato (come aveva già tentato inutilmente di fare qualche tempo prima un inconsueto Craxi, sempre più impotente e disperato), andando a pescare nel torbido alla peraltro infruttuosa ricerca di particolari compromettenti, nel tentativo tanto meschino quanto vano di macchiare la sua immagine popolare di integerrima dirittura morale.
Comunione e liberazione ed il Movimento Popolare, del resto, non hanno avuto alcun problema ad assolversi da Tangentopoli: benché direttamente coinvolte, alla faccia della carità cristiana, hanno avuto buon giuoco considerando strettamente personale ogni responsabilità dei loro esponenti14.
Una caratteristica ha contrassegnato in maniera inconfondibile la vita politica italiana rispetto a qualunque altro Paese democratico, soprattutto negli ultimi vent’anni: l’assenza di un’autentica e forte opposizione che facesse da contrappeso ai partiti di governo. Perfino negli Stati Uniti il sitema bipartitico, nonostante la sostanziale confluenza ideologica, consente un’efficace dialettica: e la dialettica è il fulcro della democrazia. La sinistra italiana ha qui una colpa precisa e gravissima: il Partito Comunista è infatti progressivamente venuto meno alla sua funzione oppositiva e critica nei confronti del sistema, astutamente fagocitato dai partiti al potere, che hanno saputo abilmente coinvolgerlo nell’orrendo banchetto, annichilendone la carica inizialmente contrastiva e rivoluzionaria; sicché fra tutte le forze politiche è stato stretto un tacito, orribile patto: la spartizione della preda, il sacco del lucroso bottino.
Neppure la Destra, d’altra parte, è mai riuscita a far sentire in maniera significativa la sua opposizione: la compromissione storica ed il legame passatistico e ciecamente nostalgico col Fascismo ne ha ostacolato inesorabilmente la crescita, restando anche in questi ultimi anni esclusa dalla montante ascesa delle Destre europee, non solo prive della connotazione di continuatrici del regime mussoliniano, ma a volte, come quella francese, marcatamente antifasciste.
Un merito va in questo senso riconosciuto alla Lega Nord, di là da ogni considerazione ideologica: quello di essere stata sul piano politico la principale artefice della rivoluzione morbida, in quanto col movimento di Bossi, dopo tanti anni, si è finalmente riproposta una grande forza di opposizione.
Al Sud viene spesso ripetuto che la Lega è razzista: se, da un lato, non se ne possono negare, sul piano ideologico, certi caratteri anti-meridionalistici e la sua connotazione essenzialmente particolaristica, garante degli interessi della media borghesia settentrionale, vessata da «Roma ladrona» (come recita un suo noto grido di battaglia), una domanda dovrebbero tuttavia porsi i Meridionali: «Se la Lega non ci ama, forse che chi ci ha governato finora ci ha amato?»; lo stato attuale del nostro Mezzogiorno, spartito da una maledetta alleanza fra potere politico colluso e grande criminalità organizzata è la risposta più eloquente. Qui non ha certo tutti i torti la Lega quando si dice contraria agli stanziamenti per il Sud Italia: le piogge di miliardi giunti da Roma sono stati sempre spartiti fra politici corrotti e grande criminalità organizzata, alimentando la corruzione ed il parassitismo piuttosto che creando sviluppo e lavoro. Nessuna ripresa potrà mai esserci per il Meridione finché non verrà infranto — e radicalmente — il potere mafioso.
D’altra parte, una tendenza particolaristica è drammaticamente emersa in questi anni in tutta Europa: come non avrebbe potuto venir fuori in Italia, dove il tessuto civile e politico è sin dalle origini particolarmente fragile e sconnesso? La Lega ha certo saputo farsi interprete, in maniera rozza quanto si vuole, ma certamente efficace, come i risultati elettorali inequivocabilmente testimoniano, di vasti e vitali bisogni popolari15.
Ed è un fatto paradossale e storicamente singolarissimo che il terremoto che sta scuotendo dalle fondamenta un sistema che fino a qualche anno fa appariva ai più granitico e intoccabile sia stato provocato dalla magistratura, che ha così assunto, nei fatti, una valenza marcatamente politica oltre che, naturalmente, moralizzatrice: sicché si potrebbe parlare di una rivoluzione magistratuale, e di una politica fatta a colpi di avvisi di garanzia. È indubitabile che alti livelli di corruzione e di connivenza col potere politico e mafioso fossero stati raggiunti anche fra i magistrati, come, del resto, in ogni settore della vita pubblica; ma è altrettanto indubitabile che esistevano settori, fino ad oggi strenuamente imbagliati dal potere, ancóra immuni da quel morbo orribile e contagioso. I cosiddetti ‘pentiti’ hanno giuocato, in tutto questo, un ruolo sicuramente decisivo, del quale va riconosciuto loro il merito: ed è anche qui paradossale, oltre che un emblematico specimen dei livelli di decadenza morale da ‘basso Impero’ raggiunti dal sistema, che un contributo fondamentale alla spallata data al regime sia venuto proprio da delinquenti e criminali, sovente fra i più feroci. In questi anni a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta, d’altra parte, così incredibilmenti ricchi di cambiamenti epocali e di crolli rovinosi, viene inevitabilmente alla mente, per la vertiginosa rapidità della rovina, il raffronto con la caduta del comunismo nei Paesi dell’Est europeo.
Il rischio quotidianamente incombente è, naturalmente, quello del famigerato ‘colpo di spugna’: un Parlamento ormai totalmente delegittimato e per la più gran parte inquisito per i crimini commessi contro il Paese si è disperatamente — e ben comprensibilmente — arroccato nella difesa della sua cittadella un tempo ritenuta inespugnabile, della sua immunità feudale e dei suoi privilegi medievali; ed è in ogni momento pronto a sfruttare la benché minima occasione per attuare, magari mascherandolo sotto l’abominevole eufemismo della ‘soluzione politica’, il suo vergognoso proponimento.
In realtà, quale pena potrebbe mai adattarsi ha chi ha messo un Paese in ginocchio, sia pure con la colpevole complicità dell’elettorato? Per crimini del genere, respingendo in ogni caso e senza eccezioni la pena di morte, giammai ammissibile, noi proponiamo l’antico sistema dei Greci: l’esilio e la confisca dei beni (o meglio: il recupero per lo Stato), in quanto ‘nemici della patria’. Sì, è questo il termine giusto: essi hanno governato l’Italia — e chi ha da difenderli, taccia per la vergogna — né più né meno che come un esercito di occupazione, spremendo il Paese e le sue risorse all’infuori d’ogni legge politica che non fosse quella del più miope degli hic et nunc, del ‘tutto e sùbito’ d’una brama divorante e insaziabile, tragicamente incapace di costruire un programma, fosse pure alla più breve scadenza. «L’incapacità di andare oltre l’opportunistica utile gestione dell’esistente è stata, insomma, probabilmente — come ha scritto Giuseppe Ayala —, la principale causa del trionfo della tanto deprecata partitocrazia e, con esso, della degenarazione del sistema politico.»16
E poi, il terribile paradosso della politica italiana: se è vero — e qui non c’è bisogno di citare Platone o Kant — che alla guida di un Paese debbano esserci, per il bene di tutti, i migliori — i più preparati, i più capaci, i più onesti —, in Italia, e specialmente in questi ultimi vent’anni, il sistema ha naturalmente selezionato i peggiori; una perversa, darwiniana ‘legge di selezione naturale’ all’inverso ha fatto emergere i più disonesti, i più astuti, i più facili a fare vane promesse od a lanciare proclami vuoti e reboanti al vento, quelli con meno scrupoli e disposti a qualsiasi compromesso per le due terribili divinità moderne (o di sempre?) del denaro e del potere; i migliori, gli onesti, i più idealisti, coloro che credono nella politica come una pratica che si occupi, insieme al proprio, anche del bene collettivo, non hanno fatto carriera, sono stati inesorabilmente ed automaticamente tagliati fuori dalle cogenti regole del sistema. Sì, abbiamo detto «insieme al proprio»: sarebbe infatti utopistico pensare ad una politica vòlta esclusivamente al bene della cosa pubblica; da sempre, ognuno ha fatto la politica badando anche ai proprî interessi. Ma chi ha governato (o meglio: non governato) l’Italia in questi anni ha badato soltanto ai proprî interessi: ed uno ‘stile politico’ del genere non può tenere a lungo; non può, alla fine, che condurre alla bancarotta ed allo sfascio, sul piano morale (che è nonostante tutto quel che più conta, come si è visto in questi anni sciagurati, per lo sviluppo d’una nazione) prima che su quello economico.
E va anche detto, sotto questo aspetto, che tutto quanto è emerso finora di malaffare e corruzione non è nulla più che la punta di un iceberg, la cui profondità, probabilmente, supera di gran lunga la nostra stessa immaginazione.
Di fronte a tutto questo il ministro Conso, con il suo volto emaciato e consunto da Conte di Montecristo, attende il momento propizio per riproporre la sua vergognosa ‘soluzione politica’ (leggi: i ladri e i criminali non sono né ladri né criminali), spalleggiato da un Parlamento che, pur essendo indiscutibilmente delegittimato, continua a legiferare e, quindi, a proteggersi con leggi promulgate a sua proterva difesa. Su di esso fanno da garanti, navigando nella melma, coloro che, rappresentando le istituzioni, dovrebbero invece essere i primi a condannarlo.
È stato detto che si è creato un clima da ‘caccia alle streghe’: ma la colpa di chi è, se non di quella classe politica che ora tardivamente se ne lamenta?
Una considerazione più generale, tuttavia, si impone: in effetti, una delle cause di quello che è successo e sta succedendo risiede certo nell’abisso che si è progressivamente scavato fra cultura (intesa nella sua accezione più ampia, e quindi anche etica) e politica: così la politica è divenuta una pura tecnica, e di lì il passo a farne il più bieco degli affari non poteva essere che breve.
Bisogna ritornare a fare politica con degli ideali: sarebbe, ancóra una volta, utopistico e fuori della realtà ritenere che l’uomo possa restare insensibile di fronte alle prodigiose sirene del denaro e del potere; ma per poter resistere al loro canto malioso si debbono poter opporre degli ideali e delle convinzioni più alte: sono queste le uniche funi a cui il moderno Odìsseo può e deve oggi ricorrere per non tuffarsi fra le azzurre onde ingannatrici e perdersi inesorabilmente in esse.
D’altra parte, il sistema clientelare e corrotto della politica si è esteso, paritariamente, anche alla cultura: basti pensare, a mo’ di paradigmatico esempio, agli Istituti Italiani di Cultura all’estero, affidati, invece che a meritevoli uomini di cultura, agli scagnozzi di De Michelis.
Le Università italiane, del resto, non stanno meglio, finite come sono in mano ad una massa di burocrati ed impiegati selezionati con criterî clientelari da una classe accademica chiusasi in un vero e proprio clan, irrimediabilmente screditate sul piano scientifico: anche qui la selezione, come in politica — ma, d’altra parte, non si vede perché le cose avrebbero dovuto andare diversamente — ha nella più gran parte dei casi privilegiato non i migliori — gli studiosi più preparati e serî, più intelligenti ed originali —, ma i peggiori — i più astuti e i più potenti, quelli che hanno inteso l’Università come un luogo dove percepire uno stipendio elevato ed esercitare capricciosamente il proprio ingiusto potere. Ed anche qui la perdita che il Paese quotidianamente subisce a livello culturale, di credibilità internazionale e di produttività è ingentissima per qualità e quantità17.
Poi ci si lamenta della decadenza culturale italiana: che all’estero l’Italiano (lingua franca in Europa per tutto il Cinquecento e Seicento) ormai non lo sappia quasi più nessuno o che in Italia non nascano più grandi artisti. Ma quale spazio si riserva ai giovani, che occasioni vengono date loro di lavorare e di farsi conoscere, se non nell’àmbito, nel migliore dei casi, della cultura di partito o di una lunga catena di amicizie clientelari? Il vero artista tende a rifuggire da tutto questo; l’arte e la cultura sono come un fiore di serra: vivono e germogliano nella misura in cui dispongono di un terreno ed un clima adeguati.
Oggi finalmente sta avvenendo una rivoluzione morbida, grazie al cielo senza spargimenti di sangue: e ci auguriamo che essa possa essere altrettanto sublime e moralmente violenta nel campo culturale.
E non dobbiamo avere paura di spazzare tutto il marcio che si è accumulato in anni e anni di governo di mafiosi e di corrotti: perché solo dopo la tempesta può tornare il sereno. Da essa dovrà emergere una nuova generazione di uomini politici: facce nuove, mani pulite e la più grande fermezza interiore.
Così, al termine di questa meravigliosa primavera italiana potremo, forse, riottenere finalmente per diritto quello che finora ci è stato dato per favore; e potrà, forse, ritornare il tempo dei giusti e degli onesti.
Roberto Pasanisi
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Note
1) È la data ormai famosa in cui il giudice Antonio Di Pietro (poi singolarmente assurto, a livello popolare, ad una sorta di simbolo di una nuova Italia di onestà e di giustizia) ha fatto arrestare il socialista Mario Chiesa: il fatidico anno lo ha terminato con l’invio, il 15 dicembre, d’un avviso di garanzia a Bettino Craxi, con Andreotti il maggiore uomo-simbolo del sistema (cfr., per una prima corretta sistemazione generale, Salvatore Pace – Giovanni Olivetta, Cronache della storia, Napoli, Marco Derva j., 1993, pp. 172-218).
2) Generoso Picone, Povero popolo alla ricerca di un governo (Intervista a Giulio Bollati), “Il Mattino”, 10/VI/1992, p. 15.
3) Ibidem, p. 15.
4) Ibidem, p. 15. Alla domanda «Lei da dove comincerebbe questa opera di riforma delle coscienze?», l’intervistato risponde: «Dalla famiglia. Ma poi il papà è uno di quelli che ha comprato la seconda casa e guai a chi gliela tocca. La verità è che l’interesse è la molla di tutto.» E prosegue dicendo, fra l’altro: «La televisione ci propone invece una festa continua, la pubblicità ci propone una domenica che non finisce mai e chiunque abbia qualche preoccupazione o è qualunquista o moralista o emotivo. I primi che dovrebbero avere senso e responsabilità educativa sono i nostri governanti.»
5) «L’Italia di oggi è distrutta esattamente come l’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra ‘macerie di valori’: ‘valori’ umanistici e, quel che più importa, popolari.
Come quelli del 1945 gli uomini di potere italiani — a causa non solo della distruzione che hanno operato, ma soprattutto a causa dell’abiezione dei fini e della stupida inconsapevolezza con cui hanno operato — sarebbero degni di un nuovo Piazzale Loreto. Che certo — fortunatamente e sfortunatamente — non ci sarà:”» (Pier Paolo Pasolini, Pannella e il dissenso, in Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976).
6) Francesco Parenti – Pier Luigi Pagani, Capire e vincere la depressione. La ‘protesta in grigio’ dei nostri giorni, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1988, p.80; ma cfr. pure tutto il cap. intitolato Lo stile depressivo nel Paese dei paradossi: note di costume sull’Italia contemporanea (pp.80-136).
7) «L’unico mafioso senza immunità parlamentare», com’è stato detto da “Cuore” con una memorabile battuta (III, 103, 18/I/1993, p. 1). Nei titoli di testa qualche altra battuta esilarante sull’arresto del feroce boss mafioso: «Dopo vent’anni di rocambolesca latitanza nel centro di Palermo»; «Pronte scuse del governo alla mafia: “Era irriconoscibile, altrimenti l’avremmo lasciato andare”». Ed a p. 2, nelle vignette di Vincino, si può vedere Riina affermare: «Stavo andando in caserma come pattuito quando mi hanno arrestato»; oppure un carabiniere che, dopo averlo arrestato, dice al suo collega: «Dice che si chiama Bettino Craxi»; e, sotto, il commento: «Per poco non la faceva franca anche questa volta»; o ancóra, alla notizia data da Fabio Fabbri, «Arrestato mentre era in corso la riunione del Consiglio dei Ministri», la domanda: «Partecipava sotto falso nome?».
8) Così lo ha definito il leader della Rete Leoluca Orlando, già alfiere della famosa ‘primavera palermitana’, in un’intervista al settimanale tedesco “Stern”, alludendo al suo ‘stile politico’ nei confronti della mafia.
9) Si pensi, in particolare, all’annullamento della sentenza di condanna di Vincenzo Puccio, Giuseppe Madonia ed Armando Bonanno per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile: «Il processo fu annullato per un vizio di forma cosituito dal mancato avviso ad alcuni difensori della data di estrazione dei giudici popolari.» (Attilio Bolzoni, Carnevale inchiodato dai pentiti, “La Repubblica”, 30/III/1993, p. 5), mancando insomma la «par condicio»; il pentito Gaspare Mutolo lo definisce coloritamente «il pelo nell’uovo».
10) Fred Zinnemann, Un uomo per tutte le stagioni (A Man for All Seasons, 1966). Nessun’allusione, scilicet, se non e contrario, alla fascinosa storia narrata dal film: la nobile figura e l’alto ed eroico idealismo di Thomas More, magistralmente impersonato da Paul Scofield, sono proprio agli antipodi del vile opportunismo della classe dirigente italiana.
11) Con tale sfrontato cinismo rispose, come riportato dai giornali, ai rimproveri del suo confessore per gli uomini di cui si circondava.
12) Così, ripetutamente, lo ha definito Leoluca Orlando: in effetti, non è difficile immaginare che, in una situazione politica diversa, il leader socialista — insuperato campione del più brutale ‘decisionismo’ —, avrebbe tentato la via della dittatura. Adorno e coll., nel loro celebre e citatissimo studio La personalità autoritaria, non avrebbero avuto difficoltà a classificarlo come una ‘personalità autoritaria’, anti-democratica ed, in senso psicologico, fascistica (T.W. Adorno – E. Frenkel-Brunswick – D.J. Levinson – R.N. Sanford, The Authoritarian Personality, New York, Harper, 1950). Perfino nella corruzione non ha mancato di essere il primo: nella classifica pubblicata su “Il Mondo” del 23/VIII/1993 capaggia la poco onorevole graduatoria delle tangenti, con 207,3 miliardi, seguìto, ma a debita distanza, da alcuni altri campioni: Severino Citaristi (73,4 miliardi), Arnaldo Forlani (36,5), Giorgio Moschetti (28,5) e Giovanni Prandini (21) (cfr. pure Domenico Allocca, Mazzettopoli, il leader è Craxi, “Roma”, 22/VIII/1993, p. 6).
13) Claudio Sardo, Giulio, applausi e benedizioni, “Il Mattino”, 27/VIII/1993, p. 3.
14) Marco Marozzi, «Corrotti, non vi espelleremo». E i ciellini si assolvono anche da Tangentopoli, “La Repubblica”, 23-24/VIII/1992, p. 11.
15) Come dice Pietro Scoppola, «Il fenomeno della crisi delle identità collettive non è solo italiano. La società capitalistica fondata sul mercato e sull’espansione continua dei consumi tende per sua natura a esasperare il senso della soggettività e dell’identità individuale a danno dei sentimenti di appartenenza collettiva; è per sua natura una società a bassa identità collettiva. Ma il senso delle identità individuali è esposto a un limite invalicabile: l’identitàper sua natura implica la coscienza di una relazione con l’altro [e questo è vero anche sul piano psicologico]; non ci si identifica da soli ma sempre rispetto a qualcosa di diverso e di simile. La spinta alla soggettività, che è un valore della società moderna, non può essere annullata ma deve essere riequilibrata. Il problema è dunque aperto in tutte le società occidentali; ma in Italia ha uno spessore più ampio proprio perché i fattori di crisi del senso di appartenenza agiscono su un tessuto già debolissimo.» (Una incerta cittadinanza italiana, in “Il Mulino”, 333, 1991, pp.47-53, p.47).
Si è insomma perduto il senso d’una ‘religione civile’, nell’accezionre di Niklas Luhmann, idest come «il complesso degli elementi di valore sui quali necessariamente si fonda la vita di una società, codificati in una costituzione e vissuti come patrimonio comune dai cittadini: in questa visione la “religione civile” non è alternativa alla religione, non è una nuova religione fra le altre ma è la proiezione civile delle esperienze religiose e in senso più ampio di ogni esperienza dei valori.» (Ibidem, pp.48-49).
D’altra parte, «il contrasto evidente fra principi e valori dichiarati della democrazia sostanziale e i livelli reali di efficienza dei servizi offerti dallo Stato ha mortificato il senso della cittadinanza. Una cittadinanza contraddetta quotidianamente come esercizio dei diritti svanisce anche come senso del dovere e della responsabilità. Il rapporto del cittadino con la pubblica amministrazione si orienta così verso i canali della clientela e del favore piuttosto che percorrere quelli del diritto. I pubblici poteri rendono spesso per favore il servizio cui sarebbero tenuti e i cittadini chiedono e ottengono per raccomandazione quello cui avrebbero diritto. Persa la speranza di interventi pubblici diretti alla soddisfazione di interessi generali, constatata l’impossibilità di decidere con il proprio voto sulle grandi scelte che interessano la vita della nazione, di formare un governo o di farlo cadere, gli elettori offrono il loro voto in cambio di vantaggi particolari.» (Ibidem, p.50).
In effetti, «il valore dei referendum abrogativi di parti delle leggi elettorali per uscire dal regime della delega partitica è stato anche questo: mobilitare i cittadini, farli partecipi e corresponsabili di una riconquista dell’esercizio della loro cittadinanza democratica. Da un punto di vista storico-politico (e a prescindere da ogni valutazione giuridica) è davvero paradossale che l’organo supremo che l’Assemblea costituente ha voluto preporre alla tutela della Costituzione e dei diritti che essa garantisce ai cittadini li abbia privati, almeno in parte, di questa possibilità.» (Ibidem, p.53).
16) Giuseppe Ayala, Le colpe della politica, “Il Mattino”, 4/X/1992, p. 17.
17) Cfr., su tutta la quaestio, l’arguto articolo di Raffaele Simone Allegro ma non troppo. Come si fa un professore, in “Il Mulino”, XLI, 340, 1992, pp. 273-285, che illumina in maniera impeccabile sulla tragicommedia dell’Università italiana.