“ Papà ti devo dire..”. È questo l’urgente pensiero di Michele Amitrano, nove anni, protagonista di Io non ho paura, dopo l’angosciante scoperta del bambino tenuto prigioniero in un buco, nei pressi di una casa abbandonata. Michele ha la necessità di raccontare, di rendere partecipe suo padre di quanto ha scoperto, di far entrare, attraverso il suo racconto, l’intero mondo degli adulti nella sua realtà e nella sua dimensione. La necessità di raccontare la sua storia non avrà abbandonato Michele, 22 anni dopo l’accaduto, quando sarà pronto a restituirci, voce narrante del romanzo di Niccolò Ammaniti, una ricostruzione di avvenimenti perfettamente concatenati a creare una storia che merita di essere letta “tutta d’un fiato” .
Jerom Bruner[1], sostiene che “raccontare storie, su noi stessi e sugli altri sia la maniera più naturale e più precoce con cui noi uomini organizziamo la nostra esperienza e le nostre conoscenze e che gli esseri umani danno un significato al mondo raccontando storie su di esso”. È della medesima opinione un famoso biologo americano, Stephen Gould[2], studioso di evoluzione delle specie animali, il quale sosteneva che la nostra specie avrebbe dovuto ricevere il nome di Homo Narrator anziché di Homo Sapiens, in quanto la modalità narrativa ci riesce naturale come mezzo per organizzare pensieri e idee. L’attività del narrare sembra quindi essere un bisogno dell’essere umano per indagare su se stesso e il mondo che lo circonda attraverso la propria storia e le mille storie delle persone intorno. Dice Margherita di Fazio[3] :“Il racconto è intorno a noi perché è dentro di noi. È la forma con cui diciamo il nostro rapporto con il mondo e sveliamo noi a noi stessi; è il modo con cui diamo senso alla nostra esperienza organizzandola in una serie ordinata di fatti”. La stessa psicoanalisi, per accedere all’inconscio e al ricordo, utilizza il mezzo del racconto. Come ricorda Donald Spence [4], Freud fu un antesignano nel rendersi conto dell’importanza della narrazione ai fini psicoanalitici. Lo stesso Spence afferma inoltre che una storia ben costruita possiede, dal punto di vista psicoanalitico, un tipo di verità narrativa reale e immediata di particolare importanza e significato nel processo terapeutico.
È in luce di questa prospettiva che intendiamo offrire una lettura del romanzo Io non ho paura che valorizzi il racconto di Michele in quanto affabulazione elaborata come traccia esistenziale. Vogliamo proporre di volgere lo sguardo non già a una storia o, per meglio dire, alla “storia” di Michele Amitrano e del coetaneo Filippo, bensì alle molteplici storie che si intrecciano nel romanzo, attraverso cui Michele racconta se stesso e l’intero mondo che lo circonda. Intendiamo condurre la nostra analisi attraverso un dialogo con il testo che esaminerà in particolar modo alcuni tipi di storie raccontate dal narratore all’interno del romanzo. Un primo tipo sarà rappresentato dalle storie di animali, che per Michele (come per tutti i bambini), hanno un grande fascino. Analizzeremo poi storie narrate da Michele con la funzione di esprimere i propri sentimenti, inclusa la paura che costituisce la parola chiave del romanzo. Infine, focalizzeremo la nostra attenzione sulle storie di alcuni adulti che vivono intorno a Michele e che rappresentano il suo mondo in termini di esempi di riferimento attraverso cui crescere per avvicinamento o per separazione. Intendiamo dimostrare come, grazie a queste storie di insolita ricchezza, Michele sarà in grado di guidarci attraverso un mirabile tessuto narrativo per un percorso che lo ha condotto a una crescita che forse, a distanza di ventidue anni, sta ancora cercando di rielaborare.
Il Michele narratore ha sicuramente molte storie da raccontare sulla sua infanzia. Una domanda che è legittimo porci è che cosa renda una storia meritevole di essere raccontata e un’altra no. Entra qui in gioco l’idea di rottura della canonicità, intesa in termini di rottura delle aspettative, da riconoscersi nell’elemento in grado di generare una narrazione interessante. Willliam Labow[5] definisce la struttura narrativa sostanzialmente composta da due elementi: ciò che è accaduto nei fatti e la ragione per cui vale la pena di raccontarlo. La narratibilità di un evento deve quindi mettere in luce qualcosa di inusuale. Questo è ciò che sicuramente accade nelle storie che Michele ci racconta. Anche quando appaiono prevedibili, hanno sempre qualche elemento inusuale e inaspettato, come le storie di animali che inizieremo, qui di seguito, a prendere in esame.
STORIE DI ANIMALI
Le storie di animali sono molto importanti per i bambini. Per citare dalle opere di Freud[6], i bambini si sentono, in qualche misura, più vicini agli animali di quanto si sentano, a volte, agli adulti. Anche nel mondo di Michele gli animali rivestono una grande importanza. Rappresentano la natura che lo circonda ma, fatto ancora più importante, vengono investiti delle proiezioni psicologiche di Michele (pensieri, desideri, paure). Pensiamo ad esempio alla storia di Togo, cagnolino randagio:
Togo, un bastardino bianco e nero, rincorreva la palla e finiva tra le gambe di tutti. Togo era apparso ad Acqua Traverse all’inizio dell’estate ed era stato adottato da tutto il paese. Si era fatto la cuccia nel capannone del padre del Teschio. Tutti gli davano resti ed era diventato un grassone con una pancia gonfia come un tamburo. Era un cagnolino buono, quando gli facevi le carezze, o lo portavi dentro casa si emozionava e faceva la pipì[7].
É noto il legame che i bambini stabiliscono con gli animali e la loro capacità di rapportarsi ad essi. Togo è indifeso, e suscita sentimenti di protezione. Il cagnolino, come ci dice Michele “è stato adottato”. Michele narra di un altro episodio in cui ha temuto per la sua sopravvivenza.
Ho guardato Barbara che trascinava Togo, gli aveva legato uno spago intorno al collo e lo tirava verso l’acqua. La mamma ora ti fa un bagnetto… Lo ha afferrato, lo ha baciato, si è sfilata i sandali, ha fatto un paio di passi nell’acquitrino e lo ha immerso nella melma fetente. Togo ha cominciato a divincolarsi ma Barbara lo teneva inchiodato per la collottola e la coda. Lo ha spinto sott’acqua. L’ho visto scomparire nel fango… non lo tirava più fuori. Lo voleva ammazzare[8].
Proseguirà raccontando del suo intervento per salvare il cagnolino e delle giustificazioni di Barbara che cercava di spiegare il suo gesto con il tentativo di liberare Togo dalle zecche, se pur in modo brutale. In realtà, dalla narrazione di Michele non sarà completamente chiaro se questa sia l’unica ragione dell’azione violenta di Barbara o se invece faccia parte di quel clima di sottesa violenza che aleggia in tutto il romanzo.
Michele conosce bene gli animali che vivono intorno a lui ma viene colto totalmente alla sprovvista quando sente menzionare, per la prima volta gli “orsetti lavatori”. Gliene parla Filippo, il bambino prigioniero nel buco, che diventerà poi, nella storia di Michele, un amico, l’alterità in cui riconoscersi e il compagno di viaggio verso la scoperta di sé e della realtà che lo circonda. Filippo dice:
Se lasci aperta la finestra della cucina gli orsetti lavatori entrano dentro e rubano le torte e i biscotti, a seconda di quello che si mangia quel giorno…se tu per esempio lasci la spazzatura davanti a casa, gli orsetti lavatori vengono la notte e se la mangiano … Chi cavolo erano questi orsetti lavatori? E cosa lavavano? I panni? [9]
Michele non sa di che cosa Filippo stia parlando e quando chiede al padre se questi animali esistano o no, il padre, che a sua volta non li conosce, ne nega l’esistenza. Scoprirà solo dopo, dall’amico Salvatore, che gli orsetti lavatori esistono davvero e si trovano in America:
Esistono gli orsetti lavatori – Sono rimasto a bocca aperta –come esistono? Mio padre mi ha detto che non esistono – – Vivono in America – Ha preso la grande enciclopedia degli animali e l’ha sfogliata. Eccolo, guarda – Mi ha passato il libro. C’era la fotografia a colori di una specie di volpe. Con il musetto bianco e, sugli occhi un mascherina nera come quella di Zorro. Però era più pelosa di una volpe e aveva le zampe più piccole e ci poteva prendere le cose. Tra le mani stringeva una mela. Era una bestiolina molto carina[10].
É interessante quello che Michele ci racconta. Gli Orsetti lavatori collegano, con la loro storia, due mondi ben distinti e lontani tra loro: il sapere di bambini come Filippo e Salvatore, di classi sociali agiate e il sapere di Michele, più povero e socialmente inferiore; il sapere enciclopedico, con quello popolare; la lontana America con l’Italia del Sud. Raccontare storie si rivela quindi un mezzo per metterci a conoscenza di fatti che vanno al di là della storia stessa, per farci scoprire un po’ alla volta, una sfaccettatura in più della realtà in cui vive.
Non tutti gli animali tuttavia sono dolci e rassicuranti come Togo e simpatici come gli orsetti lavatori. Ci sono le vipere da cui Michele è spaventato, ci sono i ramarri i cui soffi, dice Michele, assomigliano alle urla degli adulti arrabbiati che litigano in cucina. E ci sono i terribili e temibili maiali di Melichetti, la cui storia troviamo quasi in apertura di romanzo. Li incontreremo anche alla fine, in una sorta di circolo che chiude il ciclo della paura. Sarà infatti, proprio nella fattoria di Melichetti, che si ambienterà l’ultima grande avventura di Michele. Così comincia il suo racconto: “ Si parlava spesso, tra noi, dei maiali di Melichetti. Si diceva che il vecchio Melichetti li addestrava a sbranare le galline…”[11] Michele cede poi però la parola al Teschio per la rivelazione che renderà la storia degna di essere raccontata:
Finora non ve l’ho mai raccontato, perché non lo potevo dirlo. Ma ora ve lo dico, quei maiali si sono mangiati il bassotto della famiglia di Melichetti…Melichetti glielo ha lanciato nel recinto. Il bassotto ha provato a scappare, è un animale furbo ma i maiali di Melichetti di più … Massacrato in due secondi[12].
Michele prosegue la narrazione, e per spiegarci il suo stato d’animo di preoccupazione all’idea di spingersi fino alla fattoria del temibile Melichetti e dei suoi altrettanto temibili maiali racconta, ancora una volta, una storia:
Ero preoccupato perché uno come Melichetti ti poteva sparare, gettarti ai maiali o darti da bere acqua avvelenata. Papà mi aveva raccontato di uno in America che aveva un laghetto dove teneva i coccodrilli e se ti fermavi a chiedergli un’informazione, quello ti faceva entrare dentro casa, ti dava un colpo in testa e ti buttava in pasto ai coccodrilli. E quando era arrivata la polizia, invece che andare in galera, si era fatto sbranare. Melichetti poteva benissimo essere uno così[13].
STORIE DI SENTIMENTI E DI PAURA
Con la storia sopra citata, di cui Michele attribuisce la provenienza al padre, Michele mette in atto un meccanismo che si colloca tra il tentativo di esprimere i suoi sentimenti e quello di esorcizzarli. Dice Bruner[14] che ogni racconto deve costruire contemporaneamente due scenari. Uno è quello dell’azione, i cui ingredienti sono i tipici elementi consecutivi dell’azione stessa. L’altro scenario è invece costituito dal livello di coscienza , ovvero da ciò che il protagonista pensa o sente. Con questa storia, dai contenuti non certo emotivamente rassicuranti, Michele chiama in causa il padre, qui per la prima volta. Gli attribuisce, in questo caso, un ruolo educativo, affidandogli la trasmissione di conoscenze che giungono da paesi lontani[15].
Troviamo altri casi in cui, per esprimere o spiegare stati d’animo il narratore fa ricorso a storie. Un altro esempio che vale la pena citare è quello in cui Michele vuole spiegarci cosa prova dopo essersi liberato di un difficile segreto che aveva custodito . Non aveva infatti parlato con nessuno della sua scoperta del bambino prigioniero nel buco ma per una scatola di giocatori di calcio, a lungo desiderata, svela il suo segreto all’amico Salvatore. Prima di provare qualunque forma di pentimento per quello che poi percepirà come un tradimento, prova un grande senso di sollievo e così lo descrive:
Provavo una sensazione bellissima. Come quando mi ero mangiato un vaso di pesche sciroppate. Dopo ero stato male, mi sembrava di scoppiare, nella pancia avevo il terremoto e mi era venuta pure la febbre e mamma prima mi aveva preso a schiaffi, poi mi aveva messo la testa nel gabinetto e ficcato due dita in gola e avevo tirato fuori una quantità infinita di una pappa gialla e acida. E avevo ripreso a vivere[16].
Raccontare storie si presta particolarmente al racconto dei sentimenti. Non solo, come fa notare Palmer Wolf, raccontare “is the centerpiece of counseling and therapy”[17] grazie al suo potenziale espressivo. É anche un processo di trasferimento simile a quello della metafora in cui, quando non si è in grado di rappresentare mentalmente un concetto astratto, si ricorre al trasferimento di qualità da domini che appartengono, invece, al mondo degli oggetti fisici[18]. É ciò che fa Michele nell’esempio che abbiamo appena citato. Sa spiegare benissimo il senso di sollievo provato dopo l’indigestione di pesche e lo applica ad un altro dominio, questa volta di natura emotivo/affettiva. È un’operazione che, dal punto di vista narrativo, ha una perfetta riuscita. Leggiamo e proviamo una profonda empatia per il suo stato d’animo, comprendiamo il peso del segreto che Michele stava conservando e lo perdoniamo per il supposto tradimento.
Felice Natale è in grado di provocare un vero e proprio terrore in Michele il quale, ancora una volta, per comunicarci il suo stato d’animo, ricorrerà al racconto di una breve storia:
Una volta a scuola, avevo rotto una vetrata del cortile con uno di quei bastoni che servono per fare ginnastica. Volevo far vedere ad Angelo Cantini, un mio compagno di classe, che quel vetro era indistruttibile. E invece si era trasformato in un miliardo di cubetti quadrati. Il preside aveva chiamato mamma e le aveva detto che le doveva parlare. Quando era arrivata mi aveva guardato e mi aveva detto in un orecchio: – noi due facciamo i conti dopo- ed era entrata dal preside mente io aspettavo nel corridoio.
In questo caso, un’esperienza già provata in relazione a qualcosa di concreto, aiuta Michele a descrivere il suo stato d’animo. Costituendo un termine di confronto, lo aiuta a stabilire una sorta di comparazione tra l’emozione vissuta in passato e quella presente, così da poter spiegare l’una attraverso l’altra.
Michele, come tutti i bambini, deve confrontarsi con le sue paure. Sono le paure di cui l’immaginario infantile si è sempre nutrito[19]: il buio, i mostri, le streghe, la morte, l’uomo nero… Anche in questo caso, sarà il racconto di storie che ci metterà in contatto con questo mondo fantastico che sarà esplorato, in parte attraverso i sogni, in parte attraverso la sua fervida immaginazione. Quando Michele, dopo aver scoperto Filippo, prigioniero nel buco, decide di tornare alla casa abbandonata per vederlo di nuovo, è spaventato ed è così che racconta la sua paura:
E se arrivavo su e c’erano le streghe? O un orco? Sapevo che le streghe si riunivano la notte nelle case abbandonate e facevano le feste se partecipavi diventavi pazzo e gli orchi si mangiavano i bambini. Dovevo stare attento. Se un orco mi prendeva buttava anche me in un buco e mi mangiava a pezzi, prima un braccio, poi una gamba e così via… Sarebbero venuti gli zii e e mia cugina Evelina con la Giulietta blu, il teschio non si sarebbe messo a piangere, figuriamoci… [20]
Le streghe e gli orchi sono figure ricorrenti nelle paure infantili[21]. Nel passaggio sopra citato, Michele alterna fantasie attinte all’immaginario mostruoso a fantasie legate alla realtà del suo privato familiare e del tessuto sociale che lo circonda. Dove risiede la linea di demarcazione? È Michele in grado di individuarla? Molto probabilmente, come bambino di nove anni, lo è solo parzialmente. Fino all’età dei nove-dieci anni, i bambini non hanno sempre una precisa cognizione di dove inizi e dove finisca la realtà e, soprattutto, non ne hanno sempre l’esatta percezione[22].
Il repertorio di mostri a cui il nostro narratore ci introduce è senza alcun dubbio vario ed interessante. Una notte, in camera sua, Michele dichiara che “si stava organizzando per fregare i mostri”[23]. La sua organizzazione consisteva in un brillante stratagemma per esorcizzare la paura, immaginando di veder sfilare tutte le rappresentazioni spaventose della sua mente, come in una processione:
La strega Bistrega gobba e rugosa. Il lupo mannaro a quattro zampe, con i vestiti strappati e le zanne bianche . L’uomo nero, un’ombra che scivolava come una serpe tra le piante. Lazzaro, un mangiacadaveri divorato dagli insetti e avvolto da una nube di mosche. L’orco, un gigante con gli occhi piccoli e il gozzo, le scarpe enormi e un sacco sulle spalle pieno di bambini. Gli zingari delle specie di volpi che camminavano su zampe di galline. L’uomo con il cerchio, un tipo con una tuta blu elettrico e un cerchio di luce che poteva lanciare lontanissimo. L’uomo pesce che viveva nelle profondità del mare e reggeva la madre sulle spalle, il bambino polpo nato con i tentacoli al posto delle gambe e delle braccia . Avanzavano tutti insieme verso un posto imprecisato…[24]
L’elenco di Michele è di sorprendente ricchezza e varietà. Un caleidoscopio di immagini che si affollano al sopraggiungere del sonno. Non pare Michele abbia tralasciato alcuna categoria mostruosa: le streghe, l’uomo nero, l’orco con il sacco di bambini sulle spalle, rappresentazione umana e ai limiti dell’umano, della cattiveria e del male. Lazzaro, frutto di un retaggio culturale religioso, trasformato in qualcosa di mostruoso per la sua inusitata capacità, di rinascere uomo da cadavere, inspiegabile agli occhi di un bambino. Gli zingari rappresentati come volpi, che rendono evidente come spesso il mondo umano e quello animale si intreccino nei racconti di Michele. E ancora la deformità umana del bambino polpo che ci riconduce ad un altro tipo di deformità: quella mentale che ha colpito l’immaginazione di Michele, al punto da elaborare l’idea che lo stesso Filippo fosse un fratello pazzo, allontanato dalla mamma [25]. C’è un esempio di follia in paese, di cui Michele ci racconta, ancora una volta, la storia; si tratta di Nunzio, il fratello pazzo di Salvatore:
Una volta l’avevo trovata aperta (la camera di Nunzio) ed ero entrato. Non c’era niente, tranne un letto alto con le ringhiere di ferro e delle cinghie di cuoio. Al centro le mattonelle del pavimento erano tutte rigate e rovinate. Quando passavi sotto il palazzo lo vedevi camminare avanti e indietro, dalla porta alla finestra. L’avvocato aveva provato ogni cosa per farlo guarire, una volta lo aveva pure portato da padre Pio, ma Nunzio si era attaccato a una Madonna e l’aveva fatta cadere e i frati lo avevano cacciato dalla chiesa. Da quando stava in manicomio non era più tornato ad Acqua Traverse[26].
È una storia questa di reclusione e di allontanamento che si svolge quasi come trama parallela alle fantasie di Michele sul fratello pazzo. Attraverso una situazione che attiene alla categoria di realtà -Nunzio -, Michele cerca di spiegare le sue fantasie sul possibile allontanamento di Filippo dalla famiglia, in quanto fratello pazzo. È un processo mentale comune ai bambini, quello di attingere alla vita reale per spiegare situazioni altrimenti inspiegabili, trasferendo categorie dal mondo reale a quello fantastico.
STORIE DI ADULTI
Nunzio non è la sola storia di adulti che Michele ci racconta. Gli adulti intorno a lui sono importanti. Sono i suoi punti di riferimento. Come ogni preadolescente Michele è alla ricerca di risposte e di esempi da seguire. Dove trovare questi esempi e queste risposte se non negli adulti, nella famiglia[27]? Tuttavia, questo repertorio di storie di adulti che Michele ci propone, con le loro crisi irrisolte, con i loro problemi, le loro complessità e i loro fallimenti, rappresentano l’evidenza del fatto che Michele li osserva con occhio attento e vigile, senza mai esprimere un giudizio morale ma con quell’intuitiva prudenza che permette ai bambini di discernere il bene dal male. Tuttavia, nel dipanarsi di queste storie si metterà in evidenza la difficoltà di Michele nell’individuare dove siano schierati i “buoni” e dove i “cattivi” e se ci siano dei veri e riconoscibili schieramenti. Il primo adulto con cui Michele si confronta è il padre. Sin dall’inizio sembra essere il suo problema irrisolto. É assente e anche quando è presente non lo ascolta. Dopo aver scoperto il bambino prigioniero nel buco, Michele ci racconta di essere corso a casa, fiducioso che il papà gli avrebbe spiegato tutto:
– Papà, papà- Ho spinto la porta e mi sono precipitato dentro. – Papà, papà ti devo dire…- Il respiro mi si è spento tra le labbra. Stava sulla poltrona, il giornale tra le mani e mi guardava con gli occhi di rospo. I peggiori occhi di rospo che mi era capitato di vedere dal giorno che mi ero bevuto l’acqua di Lourdes convinto che era l’acqua con le bollicine…[28]
Michele prosegue raccontandoci di questa ed altre occasioni, in cui il suo tentativo di raccontare l’accaduto fallisce così che, infine, dovrà realizzare la verità e, ricordando l’ammonimento della mamma – “ attento Michele, non devi uscire di notte. Con il buio esce l’uomo nero e prende i bambini e li vende agli zingari”- [29] concluderà che “Papà era l’uomo nero, di giorno era buono e di notte era cattivo”[30]. Non è una conclusione facile da accettare per un bambino, a cui improvvisamente viene a mancare un punto di riferimento come quello paterno[31].Tuttavia, ci dice Michele, questo stesso padre, usava raccontare storie a lui e sua sorella e ne cita una in particolare, la storia di Agnolotto:
Agnolotto era un cagnolino di città che si nascondeva in una valigia e finiva per sbaglio in Africa, tra i leoni e gli elefanti. Ci piaceva molto questa storia. Agnolotto era capace di tenere testa agli sciacalli e aveva una marmotta per amica. Di solito, quando papà tornava ci raccontava una nuova puntata[32].
Questa storia piaceva a Michele e alla sorella più piccola, probabilmente per una serie di motivi. In primo luogo Agnolotto era debole ed era in grado di tenere testa ai cattivi e questo piace sempre ai bambini. Rapportarsi ad un animale, come sostiene Gene Myers[33], offre ai bambini l’opportunità di costruire la propria identità. La morale di questa microstoria si inserisce poi perfettamente in quella della macrostoria in cui si viene a trovare. L’elemento più gradito ai due fratelli tuttavia era probabilmente il fatto di essere “a puntate” e che le puntate coincidessero con il ritorno paterno. Una continuità, quindi, nella discontinuità.
Sergio Materia è l’altro adulto del gruppo dei cattivi con il quale Michele entra in diretto contatto e, anche per lui, Michele non manca di raccontare una storia.
Ho saputo poi che si chiamava Sergio Materia. All’epoca aveva sessantasette anni e veniva da Roma dove era diventato famoso vent’anni prima, per una rapina in una pellicceria di Monte Mario e un colpo alla sede centrale della Banca dell’Agricoltura. Una settimana dopo la rapina si era comprato una rosticceria-tavola calda in Piazza Bologna. Voleva riciclare il denaro, ma i carabinieri lo avevano incastrato proprio il giorno dell’inaugurazione. Si era fatto parecchia galera, per buona condotta era tornato in libertà ed era emigrato in Sud America[34].
Da questo primo racconto stentiamo a credere che Sergio sia davvero cattivo. Capiamo certamente che è un rapinatore ma, in fondo, quelle parole “si era fatto parecchia galera” ci fanno ritenere che abbia scontato il suo debito con la giustizia e il fatto che sia tornato in libertà per buona condotta ci rende inclini a pensare che non debba essere così cattivo. Inoltre, pare quasi che i suoi falliti tentativi di aprire una Tavola Calda e “rifarsi una vita” siano da addebitarsi più alla cattiva sfortuna che a una sua congenita incapacità di adeguarsi alla società. Chissà, se la vita gli avesse offerto le giuste opportunità, forse avrebbe fatto panini e non sarebbe più stato un criminale. Tuttavia, quando la narrazione di Michele prosegue, riceviamo un’impressione nettamente differente. Sembra chiaro, in questo caso, che sta riconoscendo e descrivendo un cattivo:
Sergio Materia era magro, con la testa pelata. Sopra le orecchie gli crescevano dei capelli giallastri e radi che teneva raccolti in una coda. Aveva il naso lungo, gli occhi infossati e la barba bianca di almeno un paio di giorni”…” Indossava un completo azzurro e una camicia di seta marrone. Un paio di occhiali d’oro gli poggiavano sulla pelata lucida. E una catena d’oro con un sole spuntava fra i peli del petto. Al polso portava un orologio d’oro massiccio. Era furibondo”[35].
Michele ci offrirà, tuttavia, ancora uno spunto per alimentare quell’iniziale dubbio sull’autenticità della cattiveria di Sergio. Il bambino non vuole dormire nella stessa stanza con l’uomo, del tutto comprensibilmente e, quando è costretto a farlo, Sergio ne approfitta per raccontargli di sé, di un figlio morto suicida, gliene mostra le foto e infine gli svela anche di avere una seconda vita in Brasile, dove ha una giovane moglie di colore che lo aspetta. Possiamo davvero includere Sergio Materia tra i “veri cattivi”? La sua storia è, più probabilmente, emblematica di quel senso di incertezza e disorientamento che, tanto spesso, Michele prova rispetto agli adulti e ai loro comportamenti.
Non rimane che ascoltare il racconto sotteso alle parole con cui Michele descrive la mamma. Non è questo un raccontare, propriamente inteso, ma si tratta più specificatamente dell’atto del descrivere, da cui, tuttavia, si evince, ancora una volta, una storia. È una storia di donne del Sud, sempre lasciate un po’ in disparte. Sono gli uomini infatti a dominare la scena, anche nei racconti di Michele. Apprendiamo dal narratore che la mamma mangia in piedi, in cucina, mentre serve gli altri componenti della famiglia:
Ci serviva e mangiava in piedi. Con il piatto poggiato sopra il frigorifero. Parlava poco e stava in piedi. Lei stava sempre in piedi. A cucinare. A lavare. A stirare. Se non stava in piedi, allora dormiva. La televisione la stufava. Quando era stanca si buttava sul letto e moriva[36].
Michele ci dà un’idea abbastanza chiara, in questo racconto di quale sia la vita della madre all’interno della famiglia. Un ruolo a margine, una sorta di serva senza uno spazio preciso che non trova neppure il tempo di sedersi. Persino l’atto del dormire viene espresso da Michele come una morte temporanea, quasi a significare un abbandono totale alla stanchezza, che non dà diritto al sonno rigeneratore o ai sogni. Michele racconta che sua madre era una bella donna, alta e formosa “sembrava araba” lui dice “aveva il petto grande, la vita stretta e un sedere che faceva venire voglia di toccarglielo e i fianchi larghi”[37].
Verrebbe da chiedersi quanto di edipico non ci sia in questa descrizione che Michele fa della mamma. Nulla di eccezionale, direbbe Freud[38]: sarebbe del tutto normale per un bambino desiderare inconsciamente sua madre. Apprendiamo che la mamma ha un nome solo quando Michele racconta che al mercato “gli uomini le appiccicavano gli occhi addosso” e le dicevano “ Teresa, tu fai venire i cattivi pensieri”[39]. Questa è l’unica occasione in cui il suo nome viene menzionato. Per Michele lei è solamente “la mamma”. É una mamma presente, attraverso cure e attenzioni ma non manca di dispensare sculaccioni di cui Michele ha una memoria più che viva:
Mamma ha sempre avuto le mani pesanti. I suoi sculaccioni erano lenti e precisie facevano un rumore sordo, come un battipanni sul tappeto […]Alla radio una voce cantava –Croce. Croce e delizia. Delizia del cor- Me lo ricordo come fosse ieri. Per tutta la vita, quando ho ascoltato la Traviata, mi sono rivisto con il sedere all’aria, sulle gambe di mia madre che seduta composta sul divano mi gonfiava di botte[40].
Dai racconti del narratore comprendiamo che la mamma ha sogni e aspirazioni, come tutti ma i suoi sogni non sono difficilmente realizzabili. Sono dietro l’angolo. É una persona semplice e non avrebbe bisogno di molto: le basterebbe andare al mare e al ristorante a mangiare le cozze[41]. La mamma è senza dubbio, tra gli adulti, l’unica figura positiva sebbene, come già accennato, sia difficile attraverso i racconti di Michele comprendere da che parte si trovino i buoni e da che parte i cattivi.
Ogni storia, in questo romanzo, per un delicato meccanismo di incastro contribuisce a raccontare le altre. Gli oggetti hanno una storia, gli animali, i sogni, il giorno e la notte, tutto vive di una storia propria che può essere raccontata. Gli occhiali che si rompono, in apertura di romanzo, raccontano la paura di guardare, o di vedere la realtà che è intorno a noi. La pentola familiare, a fiorellini blu, legata ai ricordi di cene domestiche e poi identificata come utensile dei rapitori, racconta la storia di Michele che comprende una realtà dolorosa e che la affronta. La televisione, “il grande scatolone Grundig”, racconta la storia di Filippo, bambino del Nord, lontano da casa e dalla mamma, prigioniero e Michele la ascolta e la apprende. La Scassona, la vecchia bicicletta, racconta storie di avventure, di corse nel grano, di giochi. Una sorta di punto di riferimento certo. La scatola del Subbuteo, racconta una storia di debolezza, di tradimento. I sogni raccontano le paure che Michele infine supererà. La grande trebbiatrice che solca il grano racconta i sogni infranti e un’infanzia di giochi abbandonata. La notte racconta l’avventura di Michele che si spinge lungo sentieri di paura nel tentativo di salvare Filippo. I maiali di Melichetti, aggressivi e temibili, giù alla gravina, raccontano la sua paura ma anche il suo coraggio.
La pistola nelle mani del padre, il fuoco che ne esplode, raccontano infine il distacco di Michele dal padre stesso, l’aver compreso di essere altro, distinto, di dover procedere su una strada differente. “E c’era mio padre” …”E c’ero io”. É così che Michele conclude il suo racconto. Sarà questo lo stadio finale della sua rielaborazione o solamente l’inizio di un nuovo percorso?
Tania Convertini
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[2] Gould, Stephen, Jay. So near and yet so far in New York Review of Books. ( October 1994). In questo articolo sull’evoluzione della specie, Gould, scrive: “we are storytelling creators and should have been named Homo narrator (or perhaps Homo Mendax, to akwnoledge the misleading side of tale telling) rather than the often inappropriate Homo sapiens. The narrative mode comes natural to us as as style for organizing thoughts and ideas” p.8
[3] Di Fazio, Margherita. Narrare percorsi possibili Longo Editore. Ravenna (1989), p. 5
[4] Spence, Donald P. Narrative Truth and Historical Truth : Meaning and Interpretation in Psychoanalisis. New York: W.W. Norton,1982, p. 21
[5] Labov, William. Speach action and reactions in personal narratives in Gallo Barbisio, Carla. Trasformazioni e Narrazioni. Torino: Editrice Tirrenia Stampatori, 1997, p. 159
[6] Children show no trace of the arrogance which urges modern adult civilized men to draw a hard-and-fast line between their own nature and that of all other animals. Children have no scruples over allowing animals to rank as their full equals. Uninhibited as they are in the avowal of their bodily needs, they no doubt feel themselves more akin to animals than to their elders, who may well be a puzzle to them. (pp. 126-127) in:
Myers, Gene. Children and Animals: Social Development and Our Connections to Other Species. Boulder,CO: Westview Press, 1998, p.19
[7] Ammaniti, p.64
[8] Ammaniti, 10-101
[9] Ammaniti, 78-79
[10] Ammaniti, p. 139
[11] Ammaniti, p. 10
[12] Ammaniti, pp. 10-11
[13] Ammaniti, p. 13
[14] Bruner Jerom, Actual minds, Possible Worlds in Gallo Barbisio, Carla. Trasformazioni e Narrazioni. Torino: Editrice TirreniaStampatori, (1997), p.159
[15] Il padre viaggia, scopriremo più avanti, ed è spesso, o sempre, assente. Si reca in un lontano e imprecisato Nord di cui Michele sa poco o nulla, se non che è un posto ricco dove tutti, inclusa la sua famiglia, vorrebbero andare.
[16] Ammaniti p. 139
[17] Palmer Wolf, Dennis. Revealing the Inner Worlds of Young Children. New York: Oxford University Press, 2003, p 27
[18]Lakoff, G., and M. Johnson. Metaphors we live by. Chicago: University of Chicago Press, 1980.
[19] Fanno notare Arthur Jersild e Frances Markey nel loro libro dedicato alle paure infantili, scritto in seguito ad aver intervistato quattrocento bambini “ One of the most outstanding findings of the study is the apparently irrational character of children fears, The child’s fear go far afield from the actual danger which threaten him in daily life. Many children have actually suffered accident and physical injuries but only a few of their fears dealt with such prosaic matters”, p. 169. La ricerca che citiamo è non poco datata (1933), tuttavia anche un documento più recente, stilato da “Telefono Azzurro” come supporto alle famiglie e agli insegnanti conferma questa tesi: “Le paure sono episodi frequenti e comuni nella vita dei bambini. Esse accompagnano la crescita del bambino iscrivendosi nel suo normale sviluppo psichico. Anche i bambini più protetti, più accuratamente tenuti al riparo da ogni pericolo o da ogni situazione traumatizzante, nel corso dello sviluppo possono manifestare qualche paura, magari del buio,di un animale, dei mostri o di un temporale”
Jersild, Arthur, and Frances Markey. Children Fears, Dreams, Wishes, Daydreams Likes, Dislikes, Pleasant and Unpleasant memories. New York City: Teacher College Columbia University, 1933.
Foresi, Barbara. “Bambini e adolescenti di fronte alle paure.” Telefono Azzurro. 31 Mar. 2003. Telefono Azzurro. 21 Dec. 2006 <http://www.azzurro.it/ medias/PDFS/8.
[20] Ammaniti, p.48
[21] É interessante a questo proposito citare le ricerche di un gruppo di studio effettuate presso l’Università di Torino da cui risulta che sono sostanzialmente cambiate le paure, e i loro modi di rappresentazione attraverso il narrato e il disegno, nei bambini di fine anni ‘90 rispetto ai bambini degli anni degli anni 70. Michele, come sappiamo per sua stessa informazione, ha nove anni nel 1978 e, in aggiunta a ciò vive nella campagna di un Sud ancora lontano da certe forme di civiltà o “inciviltà” televisiva, come si preferisca definirla. É proprio la televisione, con la sua massiccia influenza educativa, o per meglio dire diseducativa a cui, gli studiosi che hanno condotto la ricerca, attribuiscono buona parte della responsabilità nell’involuzione delle capacità narrative dei bambini negli anni.
Si rimanda per questo studio allo studio sulle paure condotto da un gruppo di studenti dell’Università di Psicologia di Torino, pubblicato sulla raccolta di interventi curata da Carla Gallo Barbisio e Carlo Quaranta dal titolo Trasformazioni e narrazioni. Quello riportato è uno studio comparatistico sulla paura in età di latenza. Sono stati esaminati bambini appartenenti alla medesima classe sociale, delle medesime scuole, delle medesime età, a venti anni di distanza, utilizzando la medesima metodologia. Sono emerse differenze evidenti e sostanziali in termini riguardanti la rappresentazione sia grafica, sia verbale delle paure. La maggior parte di racconti de bambini di venti anni fa avevano sequenze temporali specifiche, e una struttura del racconto pressoché completa. Si riscontra anche un frequente uso di discorso diretto con domande r risposte. I bambini fanno anche uso di vari tempi verbali, tra cui uso estensivo dell’imperfetto. Le favole raccontate sono in genere a lieto fine con figure adulte positive che proteggono i bambini.
Per quanto riguarda il materiale raccolto negli anni ’90 la decisione è decisamente differente. Le capacità narrative si sono senza dubbio ridotte. Le frasi sono divenute più corte e quasi telegrafiche. L’uso dei tempi verbali è limitano al presente. I mostri che popolano le paure richiamano quelli visibili sugli schermi cinematografici o della Tv che sembra quindi avere un grande ruolo nell’educazione infantile.
Barbisio, Carla e Quaranta Carlo. Rappresentazioni e narrazioni con parole e immagini sul tema della paura: ricerca svolta presso l’Università di Psicologia di Torino in Trasformazioni e Narrazioni Editrice Tirrenia Stampatori. Torino, 1997, pp. 135-137
[22] Da uno studio effettuato da Tanya Sharon and Jacqueline D. Woolley, è emerso che i bambini, in particolar modo se in situazioni per loro di stress e di paura, dimostrano una certa difficoltà a distinguere il fantastico dal reale. In ultima analisi, dicono le psicologhe, la loro ricerca, mostra dati di continuità con le affermazioni di Piaget: The distinction between fantasy and reality is basic to human cognition, reflecting fundamental ontological divide between the non-real and the real. Children have traditionally be en thought to confuse the boundary between fantasy and reality. Piaget (1929, 1930) he ld that children not only confuse fantasy and reality but the mental and
the physical, dre ams and re ality, and appe aranc e and re ality. The influence of this perspecive is still felt in e arly childhood educ ation, media and common-sense be lie fs ofadults (se e , e .g., Daw kins, 1995).
Tanya, Sharon, and Jaqueline Wooley. “Do monsters dream? Young children’s understanding of the fantasy/reality distinction.” British Journal of Developmental Psychology 22 (2004): 293-310.
[23] Ammaniti, p.118
[24] Ammaniti, p. 118-119
[25] Michele elabora la fantasia che Filippo, il bambino abbandonato, sia suo fratello, nato pazzo, e quindi allontanato dalla madre, subito dopo la nascita. “ Quando eravamo nati, mamma ci aveva presi tutti e due dalla culla , si era seduta su una sedia e ci aveva messo il seno in bocca per darci il latte. Io avevo cominciato a succhiare, lui invece le aveva morso il capezzolo, aveva cercato di strapparglielo. Il sangue e il latte le colavano sulla tetta e mamma urlava per la casa: -E` pazzo, è pazzo! Pino, portalo via! Portalo via! Uccidilo, che è pazzo.’ Michele prosegue raccontando che il papà o aveva infilato in un sacco e portato via da casa dove lo aveva nascosto e che la mamma pensava che fosse morto. Così come Michele ci racconta della sua fantasia relativa a Filippo, ci racconta anche della corrispondente fantasia di Filippo relativamente a lui. Filippo pensa infatti che salvatore sia un Angelo Custode. Entrambi, hanno quindi una sorta di fantasia del gemello divino. Quella del gemello divino è una fantasia che trova radici in svariate antiche mitologie. Per citare la più conosciuta, quella greca, si pensi a Castore e Polluce, i due gemelli, uno immortale e l’altro mortale.
[26] Ammaniti, p. 134
[27] Da uno studio effettuato da due psicologhe infantili, Kristin J. Anderson and Donna Cavallaro, risulta che le figure modello più frequentemente nominate dai bambini, risultano essere i genitori. Tutti i bambini che hanno indicato i genitori come figure modello di riferimento hanno motivato la loro scelta in relazione al fatto che i genitori li aiutavano e li capivano.
Kristin J. Anderson, Donna Cavallaro. “Parents or Pop Culture? Children’s Heroes and Role Models” Childhood Education, Vol. 78, 2002 pp. 161-168
[28] Ammaniti, p.54
[29] Ammaniti, p. 82
[30] Ammaniti, p. 82
[31] Biller, nel suo libro Fathers and Families: Paternal Factors in Child Development fa notare come la qualità del coinvolgimento paterno nell’educazione dei bambini sia un fattore cruciale nel determinare lo sviluppo di fiducia in se stessi. Aggiunge inoltre che i padri influenzano i bambini dal punto di vista morale attraverso il loro esempio. Pp. 21-37
Biller, H.B. Fathers and families: Paternal Factors in Child development. New York: Auburn, 1993
[32] Ammaniti, p. 93
[33] We can look at the child’s relations to animals as a subject in its own right and search for structure in what we find. My year in the nursery school produced a wealth of episodes, stories, observations, and recorded interactions that showed striking patterns. And several of these, we shall see, reinforce the idea that animals are important to the child’s sense of self.
Myers, Gene. Children and Animals: Social Development and Our Connections to Other Species. Boulder,CO, p. 46
[34] Ammaniti, p. 87
[35] Amaniti, p.88
[36] Ammaniti, p.59
[37] Ammaniti, p.59
[38] Freud, S. L’interpretazione dei sogni in Bodei, Remo. Letteratura e Psicoanalisi.Zanichelli Editore, Bologna (1982), p.18
[39] Ammaniti, p.60
[40] Ammaniti, pp.83-84
[41] Ammaniti, p. 127