Vita di Oliviero Sciacaluga di Serena Magrì

Vita di Oliviero Sciacaluga

 

I

 

Da sotto le foglie del cavolo, Oliviero Sciacaluga rifletteva.

Pensieri sincopati lo collegavano ai tasselli frastagliati di cielo che intravedeva – venati delle venature delle foglie del cavolo, iridescenti e palpitanti come glomeruli sanguigni – scostando appena il sipario carnoso del grande cavolo che lo avvolgeva.

Intravedeva un cielo a frange, sul quale il gioco della retina proiettava le membrane sinuose e aggrovigliate del cavolo, e deduceva che tutto il resto del cielo fosse una matassa abbacinante.

Tant’era starsene dov’era, concludeva regolarmente, con un pensiero che, rapido e uguale, si riproduceva, come novità ogni volta, nella sua mente.

 

Da tempo incalcolabile Oliviero si trovava sotto il cavolo.

Era tutto per lui.

Culla, tetto, cibo.

E col pensiero, Oliviero arrivava invariabilmente alla conclusione che nulla del cielo che avvolgeva il cavolo fosse desiderabile.

O meglio.

Scintille di pensieri – pensieri secondari che il pensiero principale sancente con regolarità la indesiderabilità di quel cielo produceva, e che ricadevano spenti ai piedi delle radici affollate ed emergenti del cavolo – illuminavano un cielo, al contrario, tentante.

Fatto a somiglianza dello scheletro linfatico del grande cavolo, eppure suggerente scioglimenti dei nodi infiniti entro i quali Oliviero Sciacaluga viveva.

 

Cresceva vigorosamente una catena di pensieri, a sostenere scintillanti e sempre meno caduche intuizioni di un cielo desiderabile.

E Oliviero Sciacaluga un giorno si disse di desiderare il cielo che circondava il cavolo.

Un pensiero non più immemore testimoniava in quel cielo l’alternarsi di chiaro e scuro, linee a delimitare forme, e movimenti sconosciuti alle spesse, immote efflorescenze del cavolo.

In quel cielo Oliviero Sciacaluga si decise, infine, a entrare.

II

 

Oliviero Sciacaluga portava pantaloni larghi in vita – bassi al cavallo – dai quali spuntavano piedi malcalzati e un tronco fine, carenato all’altezza dello sterno e sormontato dalla prominenza della cartilagine tiroidea.

Il collo era sottile, e torto a spiare tra le tramezzature del cavolo il cielo.

Sciacaluga strizzava le palpebre, e ciglia particolarmente lunghe e arcuate davano ombra agli occhi, nei quali viaggiavano le nuvole.

A mezza strada tra una fronte resa alta dalla calvizie e la bocca serrata su denti decimati.

A tracolla Oliviero portava un tascapane, stipato di bottiglie d’acqua minerale.

Non portava calze, niente camicia – sotto il cavolo faceva caldo.

Accoccolato tra le radici, si riposava ricercando con le guance non sbarbate il crepitio delle foglie.

 

E mentre cresceva il suo desiderio di cielo – nei momenti in cui non lo spiava alla ricerca di punti di repere, per indovinarne l’ingresso – Oliviero Sciacaluga si occupava del rumore proveniente dall’area di contatto del tascapane gremito d’acqua con il polmone sinistro.

Rumore somigliante allo srotolarsi clamoroso di un bocciolo avvinto come un’elica – la sistole purpurea con la quale il suo cuore lo nutriva.

III

 

“Toni validi, puri, ritmici” disse l’internista sollevando il capo dall’incavato torace di Oliviero all’equipe psichiatrica che gestiva il suo ricovero coatto.

Dovuto a ‘perdita di contatto con la realtà, ritiro, mutacismo’.

Così era scritto nella diagnosi di quell’Oliviero Sciacaluga trovato a smaniare con occhi tempestosi e la bocca serrata dentro un chiosco di gelati e bibite dal proprietario all’orario di apertura.

 

Dagli scaffali aveva preso l’acqua, e stipatala nel tascapane, nessuno gliel’aveva potuta togliere.

Sventato qualsiasi tentativo di forzarlo, stese infine docilmente la mano alla dottoressa che, fin da bambina portata per gli alieni, gli aveva docilmente steso la propria.

 

L’equipe lo osservava senza poter capire che viveva sotto un cavolo, spiava il cielo in attesa di desiderarlo, si cullava tra le onde sinuose di radici millenarie.

Veniva registrata come stato allucinatorio la sua esplorazione tra le foglie del cavolo, mentre – attivata la protocollare terapia – l’equipe attendeva lo spegnersi dell’uragano di dopamina che gli squassava il lobo limbico.

IV

 

E avvenne che Oliviero Sciacaluga, avendo desiderato il cielo che circondava il cavolo, a lungo spiatolo, riuscisse un giorno a individuarne il punto d’ingresso.

Guarda e guarda, accadde che un giorno riconoscesse là fuori dita simmetriche alle sue.

A lungo indugiò su tale simmetria, ovvero evidenza d’uguaglianza e duplicità e alterità.

Oltre la linea di confine del cavolo, Oliviero Sciacaluga potè sopportare – con soddisfazione dell’equipe che lo osservava – dita uguali alle sue, non sue, che, come nel chiosco delle bibite, gli apparvero docili.

 

L’equipe incoraggiò Alice – così si chiamava la dottoressa – a intensificare i suoi contatti con Oliviero, dal momento che aveva mani che lui non sfuggiva.

E sembrava l’avvicinamento a un gatto randagio, a un E.T. mugolante.

Lo stesso sfiorarsi i polpastrelli che aveva incantato Alice da bambina nel film sull’alienità extra-mondana, inducendola in seguito a visitazioni a naso all’insu fino al capogiro dello sfioramento tra dita impresso nella volta della Sistina, e poi a cimenti clinici con umani privi di convenzioni.

Oliviero indovinò un varco nel folto e sbucò dall’altra parte.

 

V

 

– Buon giorno signor Sciacaluga – lo salutò Alice.

– Buon giorno – rispose lui, stupendosi della propria perizia lessicale, tanto che frugò nel tascapane alla ricerca dei cubetti con impresse le lettere dell’alfabeto con cui aveva sillabato in prima elementare.

Non li trovò, contenendo il tascapane solo bottiglie di acqua minerale. Pensò di averli perduti. E valutò che, nonostante questo, l’alfabeto lo maneggiava.

Alice gli sventagliava le dita davanti.

– Cinque più cinque – contò Oliviero. Evitò di cercare nel tascapane il pallottoliere con cui aveva imparato a far di conto. File di sfere colorate – in testa a ogni decina una rondinella faceva capovolte.

Ricordava il pallottoliere ben piantato sul parquet di casa, sfogliato dalle sue piccole dita. Ricordava vertiginosamente, vertiginosamente ricostituendosi il castello di carte in cui vertiginosamente andavano riordinandosi i ricordi e le evidenze naturali perdute.

Fragile contenitore, inadatto a resistere a battiti di mani, ai tuoni della vita.

Un soffio e il castello di carte si dissolveva.

Rovinando, si dissolvevano ricordi ed evidenze.

Portato a illuminazioni e catastrofi, Oliviero Sciacaluga era privo di storia e di giudizio, per l’effimero invincibile del suo castello interno.

 

Alice sorrideva, intuendo la torre di babele in velocissima ricostituzione, intravedendo pennacchi vittoriosi insinuarsi tra le iridi ombreggiate di Oliviero, di nuovo raggiunte da sommità ordinate.

Il suo sguardo s’era fatto meno selvatico – come contenesse un’armonica, un tono ascoltabile – e Alice s’insinuava in quella indicata direzione d’intesa.

L’equipe ritenne Oliviero uscito dalla fase acuta, acquietatasi la tempesta biochimica, risoltatasi la fase catastrofica del suo ciclo psicotico, e la terapia entrò in fase di mantenimento, mentre la dottoressa capace di empatizzare con lui veniva sollecitata a riferire del suo parlare forbito e del suo sguardo comunicativo.

 

Si formulò un piano di riabilitazione, prevedente, in primis, lo svuotamento del tascapane e la ricostruzione del tragitto – dal chiosco di bibite e gelati all’indietro – dal chiosco di bibite e gelati in avanti.

Facendosi il chiosco punto O, a riformulare il tempo, a ridisegnare la vita di Oliviero Sciacaluga.

Ruotavano le rondinelle capofila, sventagliavano cinquine di dita, ticchettava Oliviero come una calcolatrice con i martelletti. E infine enunciò la sua età, cinquantadue anni da compiere, tra i battimani dell’equipe, che esultava, avendo verificato all’anagrafe l’esattezza del dato.

 

VI

 

– Oliviero, parlami dei tuoi anni prima del chiosco – gli disse Alice.

Oliviero si era sbarbato e asperso di colonia 4177.

Aveva scelto il flacone nello spaccio dell’ospedale – come fosse lo scaffale del bagno di casa – guidato da ricordi di atti antichi di suo padre.

Sospirava, stretto al cuore, ora più calmo, il tascapane vuoto.

– Tuo padre usava colonia 4711. E tua madre? – gli chiese Alice.

– Parca con i profumi e con le parole –

IL telegrafismo verbale di Oliviero fece ridere Alice.

– Alice – la chiamò, per la prima volta, per nome.

Lei, giratasi, lo scorse illanguidito, ricollegato al profumo dei suoi genitori: fondamenta volatili del castello soggetto a crolli, non perché di carte, forse, quanto perché saturo di aromi a innesco esplosivo.

Espose Alice in riunione d’equipe: – Padre e madre riemergenti.  Come pesci che, creduti estinti, albini per mancanza di luce, senza sguardo, guizzando lungo il cingolo olfattivo, sbuchino alla coscienza di Oliviero Sciacaluga -.

– L’analisi procede – commentò l’equipe, e la riunione si sciolse.

 

Grafira sonnecchiava e nel frattempo teneva d’occhio Alice e Oliviero.

Riteneva lei dotata di acume emotivo, e prossima a perdersi nel cuore squinternato di Oliviero.

A lui attribuiva una stolidezza non priva di fascino.

Ripulito, rivestito, accorto a coprire la falcidia dei denti, Oliviero aveva recuperato verve e una propensione a giocare con le instabili carte del suo castello.

Si allungavano sotto le sue dita dinoccolate canaste di ricordi, gremite di re, regine e fanti, e di jolly dal sorriso impudente, armati di campanelli.

Alice dal labirinto di quadri e picche relazionava all’equipe.

Miagolava Grafira, allungato nel vano di una finestra a pianterreno della comunità nella quale era stato trasferito Oliviero per il recupero, annusando il suo intuito felino un seme collusivo germinante tra Alice e Oliviero, e tra Alice e l’equipe, convinta di avere saldamente tra le mani il capo del filo lanciato a Oliviero Sciacaluga perché uscisse dal labirinto.

– La presa è salda, ma il labirinto è pieno di specchi – miagolava tenuemente Grafira, alle prese con uno sbiadito solicello, ascoltando attento a palpebre abbassate le parole tra Alice e Oliviero.

VII

 

– Parlami di tuo padre e di tua madre – gli chiese Alice.

Oliviero la prese per mano – Grafira si alzò di scatto, teso sulle quattro zampe, le unghie in fuori ad artigliare il granito tiepido – e la condusse nella camera da letto dei suoi genitori.

C’era al centro un grande letto di legno color miele.

Sulla testiera un Gesù Bambino dal volto rotondo, con l’aureola, scolpito a basso rilievo, abbracciava un agnello, circondato da fiori e grappoli.

Dall’angolo della stanza Oliviero Sciacaluga osservò in silenzio il letto, sormontato da un piumino gonfio di piume d’oca.

Alice gli domandò: – Chi c’è in quel letto? –

– Nessuno – rispose Oliviero.

 

– Scena primaria rimossa – relazionò Alice all’equipe.

 

Si sedettero sul bordo del piumino, sprofondando.

Lui le prese il volto tra le mani, le sorrise, la spostò al centro del letto come una bambola, la distese e la coprì con il suo corpo.

 

– Ha ricordato – relazionò Alice all’equipe.

Un operatore si alzò e scacciò il gatto che miagolava dietro ai vetri.

Voltandosi commentò: – L’analisi procede – e la riunione si sciolse.

VIII

 

Grafira, severo, giudicava pericolosamente instabile il castello di carte nel quale Oliviero Sciacaluga aveva introdotto Alice, e lei incauta, e improvvida l’equipe che la teneva per un filo quando mille jolly sbilanciati e tintinnanti e semi rossi e neri e fanti e regine e re la circondavano da ogni parte.

– La rapiranno – soffiava Grafira aggirandosi con la schiena arcuata per il cortile della comunità – e loro non troveranno più nulla appeso a quel filo che tengono per mano.

– La chiuderanno per sempre in quel delirio di carte, tremulo a ogni soffio di vento. Le precipiteranno addosso in frotte i multipli fanti, le regine, i re. Povera Alice, con il suo sorriso incerto, la sua dottrina, che recita come un catechismo. E quelli dell’equipe che rispondono, sempre, amen -.

E dava unghiate alle api ronzanti sui pochi fiori, rodendosi per quel rapimento prossimo, per quel lento inghiottimento nell’inviolato castello di Oliviero.

– Codardi – soffiava furibondo, arpionando petali con le unghie affilate – mandare una donna incontro a schiere di carte matte, diritta tra le braccia del diavolo! -.

 

IX

 

Oliviero si orientava lentamente su di sé.

Ricordò un giorno di aver casa – un seminterrato con inferriate ritorte.

– La mia casa, per quanto riceva poco il sole, per quanto stia sotto alla casa di tutti, circondata dalle radici delle piante del giardino condominiale, mi piace – raccontò seduto intorno a un tavolino rotondo del soggiorno della comunità ad Alice, che sedeva di fronte a lui in una poltrona di finto cuoio non meno sgangherata della sua.

– Prevalenza di parti oscure – riferì durante la riunione d’equipe.

Grafira si aggirava tra le gambe degli operatori producendo lievissimi ticchettii con le unghie che non si decideva a ritrarre.

 

Fiorirono nel frattempo i gelsi nel giardino della comunità, nel quale Oliviero Sciacaluga passeggiava lungamente con Alice.

E un giorno si rivide bambino accanto a un giovane padre che, tra gelsi identici, gli offriva i frutti staccati dall’albero.

Raccolse Oliviero il dono di Alice, che ripeteva con grazia il gesto paterno.

– Emozioni riemergenti – relazionò all’equipe, – ricordi a tonalità affettiva. Una retina sensitiva pullulante di recettori, facilmente abbagliabile –

– Amen – rispose l’equipe, innervosendosi Grafira, che diffidava dell’acutezza sensitiva di Oliviero, parendogli irretente.

– Una lanterna magica, una giostra di cartapesta, ombre cinesi a colori – soffiava a coda ritta osservando Alice nutrire Oliviero della dolcezza del gelso, invidiandolo, perché randagio senza speranza di accudimento.

– Ha accettato i doni del padre, li ha conservati. Riemergono parti dolci -.

– L’analisi procede – commentò l’equipe, obiettando che però ancora le ragioni del collasso psichico di Oliviero non emergevano.

Alice tacque, pensierosa. Grafira si compiacque di quello che gli parve un riferimento alla mendacità delle matte che Oliviero teneva nelle maniche.

– Un padre troppo dolce ha reso solubile l’animo di Oliviero Sciacaluga? – propose Alice.

– Asserragliato nel chiosco pareva un guerrigliero – dissentì una voce.

– Giocava alla guerra – soffiò Grafira – è incapace di lotta vera – e arpionava con le unghie ipotetiche prede, e ruggiva, da gatto senza protettori e santi in paradiso.

Le sue vibrisse fremevano, rivendicando un’eroica randagità.

Tutti ormai – Oliviero, Alice e l’equipe – avevano  notato quel gatto rumoroso, e si chiedevano le ragioni del suo presenzialismo.

X

 

– Padre  profumato e nutriente, madre parca.  Habitus astenico, ma presa affettiva tenace, per il permanere di un cuore disponibile. Non violento, un giorno Oliviero Sciacaluga si ammutina nella cambusa dell’acqua minerale – riepilogò l’equipe, mentre l’estate avanzava.

 

– Oliviero Sciacaluga lavora regolarmente come tappezziere in seta. Cerca personalmente la seta presso filande a conduzione familiare sopravvissute alle importazioni cinesi. Di drappi di seta è piena una stanza intera della sua casa, a formare una montagna, un vulcano cromatico dentro al cui cratere si cala alla ricerca delle sete per i lavori che gli vengono commissionati. Lavori prestigiosi, richiesti da amatori dell’introvabile seta nostrana, che Oliviero si procura attraverso canali che non vuole rivelare. Lavori in castelli e palazzi lussuosi, intorno ai quali, a volte, passeggiano i cervi – relazionò Alice all’equipe, avendo raccolto tutte queste informazioni da Oliviero, contento di raccontare di sé.

Aumentava nel frattempo l’inquietudine di Grafira, che Alice, l’equipe e Oliviero tenevano d’occhio, non riuscendo a capire cosa lo spingesse a seguirli e, apparentemente, ascoltarli con attenzione singolare.

 

Un giorno – l’estate impazzava – Alice si decise a parlarne in equipe.

– Oliviero Sciacaluga esprime preoccupazione per il gatto irsuto che non ci abbandona. Pensa ce l’abbia con lui – e l’equipe parlò del paziente che progrediva proiettando parti regressive sul gatto della comunità.

Alice aggrottò le sopracciglia, parendole non presa in considerazione la identica comune loro preoccupazione per quel gatto irsuto, e asserì con decisione che tutti stavano progredendo, a scapito del gatto.

L’equipe sorrise indulgente, e in molti pensarono che fosse giunto il momento – dopo tanto lavoro – di sostituire quella valida operatrice.

 

XI

 

Si consolidarono diffidenze reciproche, l’equipe ritenendo Alice in burn out, lo stesso pensando Alice dell’equipe.

– La stanno perdendo – miagolava Grafira.

Intanto Oliviero Sciacaluga ritrovava sequenze di ricordi, e di motivazioni.

Raccontò ad Alice il leggendario matrimonio dei suoi genitori, e il suo memorabile fasto.

– Com’era vestita la sposa? – gli chiese Alice.

– In seta color avorio – lui rispose.

– Seta cinese? –

Oliviero si alzò di scatto e sbarrò gli occhi.

– Seta cinese? – sibilò.

Rimasero in silenzio, lui in piedi con i pugni serrati, lei seduta su una panchina, sotto i gelsi ormai stanchi.

Poi, Oliviero si afflosciò accanto a lei – vinti entrambi da un simultaneo, formidabile insight.

– Di seta cruda era l’abito della sposa, frusciante come solo la seta dei bachi nostrani può esserlo, impalpabile come la pelle degli angeli. Solo a dita speciali è dato sfiorare quella seta senza tempo -.

Oliviero Sciacaluga si tuffava tutti i giorni nel cratere del vulcano di seta – la splendida gonna materna che custodiva nella sua casa.

– Ha costruito una onorevole professione intorno alla dimenticata fissazione sulla madre. Ha ricordato -.

– L’analisi procede – concluse seccamente l’equipe, e la riunione si sciolse.

XII

 

I miagolii e i ruggiti del gatto andavano sostituendo le iniziali vocalizzazioni senza parole di Oliviero Sciacaluga, i mugolii della fase del delirio e dell’agitazione.

Oliviero ricostruì infine l’ultimo giorno della sua vita di prima del crollo di sentimenti e facoltà.

L’equipe sosteneva che non doveva essere stato, quello, il suo primo terremoto mentale.

Alice condivideva la non documentata presunta propensione di Oliviero per gli smottamenti, parendogli il dolce dell’offerta paterna una sorta di tarlo – indebolente i contrafforti della sua architettura interna.

Il giorno precedente l’asserragliamento nel chiosco di bibite e gelati, a Oliviero Sciacaluga era giunta la notizia dell’imminente chiusura dell’ultima, unica rimasta, filanda a conduzione familiare di seta nostrana.

A partire dalle ragnatele dei solai senza luce incominciò a fremere il castello di carte, e quando il fremito raggiunse il suo cuore, crollò.

Corse Oliviero Sciacaluga avanti e indietro, smanioso di vendicarsi della invasione della seta cinese, e visto il chiosco di bibite e gelati ci si asserragliò, stipando il tascapane di molotov idriche.

Nello spazio che il crollo aveva svuotato, giacevano frotte di carte, stese, senza più collegamenti, ammassate, senza più concatenazioni e fantasie di giochi.

In quel vuoto, a velocità stupefacente crebbe il grande cavolo, a custodire Oliviero Sciacaluga rimasto senza ragione.

XIII

 

Ardua fu per Oliviero la ricostruzione della vita sotto al cavolo.

Rammentò ad Alice, sorpresa da quel primordio che le si rivelava, l’iridescenza delle foglie, i pensieri – imprendibili scintille – i sonni tra le radici tiepide, la mancanza di desiderio.

Fino a quando aveva desiderato le mani che lei gli aveva mostrate da lontano.

 

L’equipe chiamò amnios il grande cavolo – ultima tappa della fuga di Oliviero Sciacaluga dalla realtà della cessazione degli approvvigionamenti di seta nostrana.

Ritrovate con Alice le antiche intese – avendo convenuto di sentirsi coinvolta dalla vicenda del gatto di comunità – l’equipe incominciò a progettare la dimissione di Oliviero Sciacaluga, che non sarebbe potuta avvenire prima del riconoscimento delle difese di cui era vissuto fino al momento della chiusura della filanda, e della successiva messa in campo di difese d’altro tipo, a fronte dell’inappellabile decisione della vita di privarlo della risorsa della seta nostrana.

 

– Diventerò tappezziere in raso – esclamò prima dell’autunno Oliviero, ricordando che rivestite di raso erano le scarpette della sposa, e questa affermazione siglò la fine della sua analisi, venendo dall’equipe considerata come espressiva di avvenuta guarigione.

In riunione vennero riassunti i passaggi chiave della riabilitazione di Oliviero Sciacaluga, e fu posta particolare attenzione alla vicenda del gatto di comunità, che, collettore di ombre, le aveva riverberate sull’equipe, tentandola a una intestina conflittualità, con spartizione di ruoli.

E mentre cresceva la serenità di Oliviero Sciacaluga, aumentava l’agitazione di Grafira, invidioso del suo benessere, che pareva soddisfare tutti,  come era stato invidioso della sua malattia, che aveva preoccupato tutti, e geloso delle mani di Alice, che erano andate a cercarlo, e del suo ascolto, a lui dedicato.

Grafira non mangiava più, e dai ruggiti e miagolii era passato a un patetico silenzio.

Ritratte le unghie, camminava a passo felpato tra le seggiole dell’equipe.

Fino a che si decise al grande salto.

XIV

 

Per giorni non lo videro, finché fu trovato nella dispensa, con gli occhi sbarrati, asserragliato dietro ai cartoni del latte a lunga conservazione.

Lo trovò Oliviero Sciacaluga, che aveva chiesto all’equipe di ritardare la dimissione fino a che non si fosse chiarita la sua sorte.

Arretrò impressionato. Poi, raggiunto da un ricordo, allungò lentamente le mani, perché Grafira, dall’altra parte dei cartoni, le vedesse.

Lo sfiorò.

Passò le dita sotto al collo arruffato, lungo la spina dorsale.

Lo avvicinò a sé.

Lo portò via dalla dispensa.

 

Da lui Grafira, estenuato dal digiuno e dalla solitudine, ricevette le prime cure.

Poi, accingendosi a lasciare la comunità, Oliviero lo consegnò ad Alice.

Prima di salutarla, tolse di tasca il foglio di dimissione, che recitava ‘Struttura borderline. Complesso materno. Mancato agonismo nei confronti del padre. Possibili recidive’ e, dopo averlo letto, davanti ai suoi occhi imperturbabili, lo appallottolò lanciandolo con un colpo preciso nel cestino vicino alla porta d’uscita.

La baciò, le passò il gatto, le sorrise e se ne andò, lasciando spalancata la porta alle sue spalle.

 
Serena Magrì

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