L’affittacamere
“Maria!” chiamò due, tre volte; poi, non udendo risposta, risoluta la vecchia spinse l’uscio socchiuso che si aprì su un piccolo vestibolo arredato con un divanetto e due poltroncine di vimini intorno a un basso tavolino dislocati nell’angolo a specchio di uno stretto corridoio dal cui fondo semibuio si disegnò a mezzavia un’alta ciabattante figura di donna la cui risonante voce precedette di un istante il suo arrivo: “Eccomi, Concetta! Che c’è?” “Questi signori cercano una camera ” con inclusivo gesto indicandoci disse la vecchia alla quale per strada avevamo chiesto l’indirizzo di una pensione e che ci aveva guidato fin lì. La sopravvenuta fissandoci con un intenso sguardo che mixava indagine e premura ci invitò a entrare; quindi: “Eccola qua la stanza!” esclamò mettendo una mano sulla maniglia di una delle tre porte nella parete di fronte all’ingresso, “Ci sono per l’appunto tre letti. Dormono insieme, non è vero?” Annuimmo. Cavò dalla tasca del camice celeste una chiave e l’infilò nel buco della serratura. “Qual è il prezzo?” chiesi. Si bloccò e volse il capo a fissarmi col malcelato disappunto di non avere scansato o almeno ritardato quella domanda. “Qual è il prezzo?” ripetei. Mi gettò un’occhiata rigurgitante disgusto e riprovazione. “Prima guardate la camera!” disse rigirando la chiave, e spalancò di colpo la porta; con un gesto perentorio della mano ci invitò a entrare. Feci segno ai compagni di non varcare la soglia e di nuovo chiesi il prezzo. La donna ebbe un moto di dispetto e tacque. Reiterai la domanda. “Sono quarantamila a testa!” sbottò infine; poi, con finta placidezza, giunse le mani sul ventre e ci guardò a sfida studiando le nostre reazioni. Alta, florida, gli ampi fianchi modellati nel corto e attillato camice, campeggiava nel riquadro della porta, nei grandi occhi di mitilo correvano lampi volpini. “E’ caro” dissi e tuffai uno sguardo alla malandrina nel bitume luminoso dei suoi occhi spiando un varco per ottenere uno sconto. Sostenne il mio sguardo con tranquilla fermezza, con spassionato distacco se non proprio con indifferenza, insomma senza fare una piega al deciso sfruconìo delle mie pupille. ” No,” disse “non è caro!” e scosse il capo facendo ondeggiare la folta massa di capelli impeccabilmente corvini. “Guardate prima la camera!” Varcammo la soglia. Nell’ampia camera spiccavano tre letti rifatti con le testiere contro la stessa parete; vi erano inoltre un armadio, un tavolo e tre sedie. “E’ bella e starete comodi” disse e si chinò per allisciare la sopracoperta del letto accanto scoprendo per meccanica risalita del camice cosce voluminose tornite non velate da calze e indugiò in quel gesto. Erminio e Orazio fissarono ipnotizzati quel bendidio. Anch’io vi appuntai avidi occhi. Finalmente la donna si drizzò; distolti dall’eccitante visione i nostri sguardi rifluirono in un vertice che immediatamente sanzionò la comune decisione. “Vada per quarantamila a testa!” dissi con un tono e un’occhiata spumeggianti di sottintesi. La donna abbassò le palpebre su un impudico sfavillìo degli occhi, trasse un respiro e malcelò un vittorioso sorriso.
Era tardo pomeriggio quando riposati e rassettati uscimmo per passeggiare senza una meta nelle vie del centro; non avevamo nulla da fare sino all’indomani mattina quando avremmo affrontato le prove di una selezione per una assunzione in banca. Passeggiammo per più di un’ora manifestando senza inibizioni ma in contenuta misura quello spirito di sana gogliardia che di solito caratterizza i comportamenti di giovanotti di buona famiglia in trasferta, oltretutto stuzzicati dal fottìo di belle donne che s’incrociavano e che spargevano paprica a iosa sui nostri sensi. Sedemmo infine a un tavolo di una trattoria con cucina tipica. Terminato l’eccellente pasto: ” Andiamo dall’affittacamere!” esclamai. Agli amici che mi fissavano interdetti: ” Con lei abbiamo un conto da regolare! ” spiegai. Benché non avessero l’aria di avere esattamente compreso a che cosa alludessi, prontamente mi seguirono.
Sedemmo nel vestibolo deserto. Erminio e Orazio accesero le sigarette, io la pipa. Di lì a poco, annunziate da un fruscio di pianelle, aggallarono dal semibuio corridoio, vennero avanti tre ragazze vestite di nero – tutte e tre somiglianti tra loro e tutte rassomiglianti all’affittacamere, sicché arguimmo – e chiedendoglielo poi ne avemmo conferma – erano le sue figlie. Si bloccarono formando groppo spalla contro spalla le teste in scalena postura per le differenti loro altezze sulla soglia del vestibolo. Una in particolare – la più alta e – poi sapemmo – la maggiore delle sorelle (l’età non la precisò: noi la valutammo tra i venti e i ventidue anni ) – reagì con ruvidi se non proprio scostanti modi ai nostri garbati tentativi di avviare una conversazione che – a dirla tutta – fungesse da preludio a qualcosa di ben diverso del puro e semplice accademico piacere di scambiare due chiacchiere, secondo le nostre più riposte pulsanti intenzioni. Devo però prevenire che non avevamo finallora peccato in alcun modo per forma tatto civiltà da noi le parole sempre accuratamente scelte per qualità peso e calibro secondo pratica e criterio di persone di ottima famiglia e beneducate. Perciò la deludente reazione della maggiore delle sorelle che tuttavia non si ritirava come pure le altre dalla soglia, plausibilmente doveva ricondursi a un istintivo senso di disagio o di allarme che in lei (e presumibilmente nelle altre) il nostro virile compassato consesso suscitava benché da parte nostra tutto si facesse per rassicurarle. Ciò nonostante incauti e maldestri si riusciva comunque nel comunicare giacché i nostri eloqui fatalmente viravano in sornioni segnali e ambigui richiami. Alta, bruna, inguainata in una semplice veste nera, la faccia un po’ ottusa dai tratti marcati che a dolcezza solo apriva lo sguardo di due nere luminose pupille sin dall’inizio con intensa severa attenzione appuntantisi su di noi, i lunghi capelli assestati senza un ordine preciso, una spalla appoggiata allo stipite una mano sul fianco e l’altra con un aereo volteggio volata in alto a nido sul piedritto, quietamente lasciava che indovinassimo e forse inconsciamente lasciava che pregustassimo le sue gambe stupende colonne sotto la nera veste.
Circonfuso dalle azzurre volute della mia pipa io le parlavo dolce-suasivo, le parlavo con studiata innocenza sfiorando semplici gracili stuporosi argomenti mentre i compagni si impegnavano in un sapiente lancio cronologicamente ben ritmato di malandrini sguardi sulle grazie delle due sorelle più piccole che pure immobili l’una stretta all’altra tacevano rovesciando quando dritto negli occhi di uno di noi quando altrove la piena luminosa dei loro neri occhi dal taglio di cerbiatta accompagnando con un vibrante strabuzzare delle palpebre dalle belle ciglia. Erano – tutt’e tre – piccantissime. La più piccola spiccava tra tutte per l’incantevole collo da cigno esatto anche nel colore che tirava i baci.
Finalmente ruppe il silenzio parlò la bruna più alta la maggiore d’età stretta nella nera veste luttuosa come incantato il bianco volto evocante Antigone o Elettra per l’intimo pathos racchiuso compresso in lei come rispondendo a una informulata eppure risonante reiterata pressante nostra domanda. Parlò disse parole che da segreti cassetti della mente e del cuore trassero in filza ricordi di un paese in un’altra vita dieci anni prima quando alla morte del padre la madre e loro tre bambine si trasferirono in città e – adesso rispondendo a una mia precisa domanda – che per lei per tutte loro era lo stesso qui o là indifferente (comunque SENZA SPERANZA ) questo intendeva ma senza più articolare parole e lo ribadiva con altre ancora impronunziate che tuttavia intuivo: parole non dette che tuttavia ratte e sonore si materializzavano come su un cristallo iscrivendosi davanti ai nostri occhi socchiusi e vigili non interessati e neppure disinteressati all’elegia di quel muto eloquio ma semplicemente implacabili per il tirannico imperativo d’eros che ormai ci dominava e pretendeva una pronta esplicazione. E di seguito ancora ella parlò alta e forte echeggiò la voce evocando reminiscenze luoghi figure di un paese di mare eden d’infanzia risuonò la voce in cadenze di una diversa parlata improvvisamente levatasi spirando vibrante da una remota polvere di spazio e di tempo. Benché ella sola parlasse ora sembrava che tutt’e tre le sorelle si esprimessero in coro le parole delle due tacite
rifluendo assorbite nella voce della nera emblematica scultorea figura della maggiore che come da un’ideale piedistallo o su alti coturni evocava vicende dolori comuni aspettative di una dissepolta stagione e mesti giorni tra attese rinunce speranze dell’attuale il suo era un
canto o pianto piuttosto che un eloquio di cocente delusione e invitta ritornante illusione che isolava e astraeva in una vibrante sfera di pathos la declamante figura e insieme forgiava il gruppo delle tre sorelle nella plastica unità di un marmoreo monumento un nodo di scerpate esistenze però mai arrese al destino adesso come bloccate dentro l’abbagliante splendore di un occhio di bue davanti alla nostra ormai incantata attenzione. Amore la parola non detta ma che bruciava sotto tutte le altre innocue o audaci velate o allusive come l’anima della primavera dentro a un bosco al suo tempo d’oro e di forza e di azzurro sia con il tono della prudenza del disincanto e della disillusione ma con una voglia – tenera fogliolina soave germoglio – ancora di sperare e aprirsi e sia e più con il timore la diffidenza e infine una esplicita dichiarazione di ferma irriducibile cautela che avrebbe comunque accompagnato ogni eventuale intrapresa in quel campo e seguitava ancora come se non avesse scorto o dato peso al velo di indifferenza subitaneamente calato sui nostri volti senza tuttavia che smorzasse o attenuasse né l’eccitazione né i propositi tuttora implacabilmente inscritti nei nostri sguardi giacché desiderio e speranza sono entrambi duri a recedere.
Poi d’improvviso si mossero rapido il nero groppo delle sorelle si sciolse tuffandosi nell’oscuro budello alle loro spalle fu come se un repentino vortice le avesse risucchiate travolte inabissandole in un buio gorgo. E svanente vaporante spuma sui flutti un attimo sospesa si librò l’eco flautata della Buonanotte che nell’avviarsi avevano sussurrato.
“Fregati!” disse Orazio. Erminio si levò in piedi inarcò il busto rovesciando indietro il capo aprì e riportò al petto le braccia più e più volte accompagnandone la finale vibrazione su-e-giù col mugolio di rito esibendosi in una perfetta esecuzione dello “stiracchiamento” e “Ragazzi, io vado a dormire. Fate quel che vi pare, ma niente scherzi, per favore, se mi trovate addormentato!” disse, e si ritirò. “Sì, fregati,” dissi io ” ma non del tutto. Almeno lo spero!” E riaccesi la pipa.
Non restava che scambiarci affondati nelle poltroncine occhiate in silenzio e far vagare lo sguardo in giro nel vestibolo: Orazio che imperturbato finiva di fumare una sigaretta concentrato a gustarne l’intima essenza o semplicemente cascava dal sonno né altrimenti si sarebbero spiegati l’aria d’incantamento l’ipnotizzato suo fissare un’anodina oleografia appesa alla parete di fronte che rappresentava il Vesuvio con il pennacchio sotto la prospettica ascella di un pino mentre l’amico che gli sedeva accanto (io) seguitava a gettare occhiate intorno succhiando nel cannello della pipa emettendo piccoli densi sboffi di azzurrognolo fumo dalle labbra sporte a culo di piccione per concentrare poi l’attenzione su quella che gli sembrava una foglia investita dalla brezza cioè la sua (la mia) scarpa destra che sbiecata vibrava a filo d’orlo del basso tavolinetto collocato tra il divano e le due poltroncine in cui sedevamo insomma su quella pseudofoglia che vibrava per il sussultorio movimento della caviglia poggiante sul ginocchio sinistro primo movens di sussultante nervosa impazienza.
Annunziata da un ovattato scalpiccìo di pianelle in fondo al semibuio corridoio e pochi istanti dopo porgente un pimpante “Buonasera a questi bei giovani!” si inquadrò nel vano d’ingresso l’aitante affittacamere. Si bloccò il busto inclinato in avanti un gomito contro lo stipite la mano a solecchio sopra gli occhi che ci fissavano lustri e amorevoli e svelta ravviandosi un cernecchio della bruna serica chioma “Le mie figlie sono andate a dormire” disse. “Io ci vado sempre dopo, quando finisco di sfaccendare e poi di cenare, purtroppo sempre da sola!” aggiunse staccandosi dallo stipite e andando a sedersi sul divanetto di fronte: sedette castigatamente curvando il corpo atletico in una posa improntata a stanchezza e il meccanico arretramento del corto camice snudò un lungo trancio delle grandi sode biancheggianti cosce. Seduta a ginocchi uniti ci fissò con pìcee lustreggianti pupille colme di un tenero interesse. “Belle ragazze le vostre figlie!”
esclamai in tono convinto e “Tanto socievoli!” con spudoratezza aggiunsi. “Congratulazioni alla bella e fortunata madre!” “Beh, sì, ” ella fece con un leggero dimenìo dei fianchi
come a cercare il giusto assetto nel divano così come nel complimento. “Beh, sì, non lo dico perché sono figlie mie, sono proprio brave ragazze!” E accavalciò la gamba destra sulla sinistra snudando in profondità una lunga bianca fetta di coscia che con avidi occhi ci affrettammo Orazio e io a delibare prima che con gesto studiatamente pudico ella traesse in avanti fin dove poteva l’orlo del corto camice verso il ginocchio sopra l’altro ginocchio schiacciato dal peso che sopra gravava del bianco tornito ginocchio paffuto come la faccia di un bimbo e sembravano l’uno sull’altro sporgenti i ginocchi due facce di bimbi affacciate l’una sull’altra. “A tirarle su, ah, quanti sacrifici!” lesta riavviandosi con un gesto veemente a due mani i capelli ella proseguì. “E da sola, una povera vedova, e…eh…eh…” e mi lanciò un saettante sguardo insondabilmente profondo. “Capisco” la interruppi, ammesso che volesse aggiungere alcunché. ” Sicuramente non deve essere stato facile. Ma lei è in gamba, una donna di grandi risorse!” “Oh, beh…, sì… sì” fece. Ci fissammo. A lungo. Fu come una presa di assaggio tra due lottatori sul ring. “Quando persi mio marito, non c’era di che campare ” ella continuò.” Lasciammo il paese e misi su questa pensione dal niente. Mi dovetti arrangiare. Per una povera vedova tutto è più difficile. Ancora oggi faccio salti mortali!” Ritornava – notai – legato a quello delle difficoltà economiche il motivo della vedovanza benché inverosimile apparisse nel senso di una casta viduitas e non soltanto in relazione all’intuibile modo di fronteggiarne le difficoltà quanto soprattutto per il fuoco d’eros che in ogni sguardo e atteggiamento ed espressione in lei si manifestava con una veemenza peraltro in perfetta armonia con la pienezza fisica vitalistica di una bella donna che mostrava di avere non più o poco più di quarant’anni.
Fu allora che io tolsi di bocca la pipa e facendogli occhietto chiesi a Orazio se non desiderasse ritirarsi a dormire ma lui stupidamente rispose che no perché si era in buona compagnia. E quella allora via a raccontare l’avvio dell’esercizio d’affittacamere “iniziato dal niente” comprando letti e suppellettili da un fornitore amico senza firmare cambiali – “che è tutto dire” sottolineò – e l’immediato successo arrisole – ” Gente che va gente che viene fin dal primo giorno grazziaddio” esclamò con un compiaciuto sorriso – tuttora però non aveva completato l’arredo delle camere, confidò sempre seguitando a fissarmi e lasciandosi ammirare con impercettibili fremiti di impaziente desiderio accompagnati da un tumultuoso sgroppare delle cosce di continuo accavallate e disgroppate. A bruciapelo mi propose di visitare le camere che di recente aveva arredato: ci teneva – disse – a un mio giudizio. Balzai in piedi sparando un euforico sì anche lei si levò e diresse alla porta della camera accanto alla nostra; svelto tambussai con un pugno in petto Orazio pure lui levatosi e che chiotto chiotto le trottorellava dietro e concitatamente gli soffiai: “Cretino, è per me, togliti dai piedi!” E Orazio obbedì.
Girò la maniglia varcò la soglia premette il pulsante della luce e voltandosi verso di me che le ero già a ridosso mi indicò l’arredo con un largo gesto del braccio gesto che le proiettò in avanti le conturbanti bombature del petto ” Le piace?” domandò. La mezza occhiata che avevo scoccato entrando aveva registrato la modesta qualità di un mobilio nuovo di legno chiaro – un singolo letto con testiera ordinatamente rifatto un armadio un tavolo una sedia due stampe a colori su una parete. “Mi piace!” risposi eccitato però fissando le bianche colline aggallanti dalla scollatura del camice della donna. Allora lei mi prese per mano e mi condusse davanti alla porta della camera accanto. “Adesso le faccio vedere qualcosa di meglio!” disse e con la mano libera aprì e fu dentro rapido fui dentro anch’io e l’abbracciai le pupille perse nel caldo nero abissale dei suoi occhi accesi e affondai la bocca nelle rosse tumide labbra che lei mi offriva. A lungo ci baciammo con passione come si dice. Poi… “No” ella fece afferrandomi la mano e scostandola dal seno ” No, non ora!”. Frenai pensando Vabbe’ tanto abbiamo davanti tutta la notte! ” Ma poi deve assolutamnte farmi vedere la sua camera!” lanciai. ” Va bene, sì, sì” disse. “Ora però devo cenare. Venga con me!” Mi riafferrò la mano e mi guidò attraverso il buio corridoio fino al tinello dove c’era un tondo tavolo apparecchiato: su una tovaglia a scacchi bianchi e blu
su tre piatti era servita una cena fredda – pollo lesso insalata e una grossa fetta di anguria. “Grazie ho già cenato” opposi al suo invito sedendo accanto a lei che virò
alzandosi per caricare la caffettiera che mise sul gas giuliva esclamando “Un bel caffè a testa è proprio quello che ci vuole!”
Adesso mi sentivo davvero a mio agio la prospettiva di incartare tra momenti mi dava sicurezza euforia o forse ero solo più curioso che eccitato mentre osservavo la donna masticare piano e sorseggiare ogni tanto l’acqua dal bicchiere con eleganti-sensuali movimenti delle labbra. “Quando parte?” improvvisamente mi chiese. “Domani oppure tra un mese o tra un anno, dipende…” malandro risposi fissandola con intenzione. Emise un sospiro che a mongolfiera le gonfiò il petto; rapida masticò e inghiottì, quasi strozzandosi. Le versai dalla caraffa dell’acqua nel bicchiere, lei lo sollevò in atto di brindisi sussurrando Cin-cin e tracannò. Quasi mi sembrò di percepire il sibilìo del liquido venuto a contatto con interiori carboni ardenti. Aveva terminato di cenare. Standole seduto accanto, l’abbracciai. Si lasciò cingere con abbandono. Tutto quello che tra noi seguì lo metaforizzo nel vigoroso (da parte mia) darsi a spolverare una grande calda elastica bambola di gomma. E stemmo assai bene così.
Sul fornello la caffettiera già cominciava a borbottare quando si avvertì il tonfo della porta di ingresso che si chiudeva seguìto da un greve scalpiccìo di passi in fondo al corridoio. Svelta l’affittacamere si sciolse dall’abbraccio. “E’ mio figlio!” tutta agitata disse. “Fa il vigile notturno e durante la ronda qualche volta sale a prendersi un caffè. Se la vede sono guai!” ” E allora…?” chiesi più piccato che allarmato. Frattanto i pesanti passi lentamente si avvicinavano. “Presto esca dalla finestra!” “Dalla finestra?!… ma è alto da terra!” esclamai con flebile voce. ” Solo tre piani! Ma lei si tenga sul davanzale e resista!” ” Il tempo che prendete il caffè?” fiatai tremulo. ” No, più a lungo, diciamo un quarto d’ora!” fece in tono pratico. “Ma… ma… ma…” balbettai. “Senta, non c’è altro da fare!” e mi spinse verso la finestra che rapida spalancò. Il forte colpo che mi inferse a due mani nella schiena mise ali al mio slancio. Mentre lei richiudeva le impannate io planavo sullo stretto davanzale annaspando in bilico e brancicando contro i vetri cercavo di riequilibrarmi per non precipitare dabbasso. Dallo spiraglio di uno scuro per la di lei fretta rimasto socchiuso con dilatati occhi scorsi un Ercole barbuto sulla cinquantina entrare in cucina e l’affittacamere farglisi incontro con l’aria di una trepida Penelope e scoccargli un luminoso sguardo fedele.
Enrico Bagnato