Di tulle vestita, Daniela Rizzo

DI TULLE VESTITA

 

Il Filo, Roma, 2007: cap. I da pag 11 a pag. 15.  

 

  Ho guidato la mia Nissan, in un silenzio interrotto solo dallo stridore delle gomme, lisce e quasi voluttuose, sopra all’asfalto. Conosco bene le anse e i tornanti di questo itinerario di campagna. Soprattutto, e in via generale, conosco quanto sia duro risalire dal basso la china, trangugiando l’amaro sapido di una sconfitta, avendo davanti il proprio futuro come un immenso punto interrogativo. Ho abbandonato la mano sullo sterzo e il mio bracciale tempestato di zirconi, al polso sinistro, balugina in questa notte piena di stelle. Mi rendo conto che questa mano, recando impressi i postumi del mio infortunio, non è più bella come un tempo. Intanto che mi alambicco il cervello più sulle mappe stellari che sul tenere la destra in strada, la mia Micra color cremisi giunge in collina ricordandomi così una caravella, pioniera di nuovi mondi, e scampata a furibonde tempeste. Io, però, sono calma e guardo placidamente il cielo. Mi capita di perdere di vita l’asfalto per acchiappare il carbone di Magellano in groppa a un centauro corridore, piuttosto che altri ammassi globulari, disseminati nella volta celeste. Il fatto inedito è che, pur essendo sola, non mollo neanche per una frazione di secondo lo sterzo: il timone è saldo e la rotta fin troppo chiara nel mio cuore. Come nelle mie preghiere di bambina, quando mi questionavo su cosa indicasse l’espressione “pericolo mortale” e davvero non mi immaginavo la morte, pensavo invece a una non vita. All’incapacità di amare e, forse ancor più, di lasciarsi amare. Quasi sapessi che ne avrei poi patito, mettendomi in cerca di un uomo spiritualmente artistico, perfetto per me, come un’esiziale linea, diritta piuttosto che curva, tracciata dal Kandinskij.

  Che spettacolo meraviglioso mi si offre, ora, dinanzi. Dopo ieri sera, quando sono andata a ghermire stelle sul lungomare, e neppure schermarmi gli occhi con una mano è servito a vedere altro che non fossero zampilli, cirri e lapilli nell’arabesco di coltri, sul plumbeo violetto, nella notte. I fulmini sono degli eventi naturali semplicemente affascinanti, forieri del cambiamento, spesso del dolore, a volte della gioia. Il maltempo oggi è fortunatamente cessato e il cielo è terso: io ho smesso di penare per l’ennesimo uomo che mi sia piaciuto e vado alla villa a ripescare i ricordi, sbiaditi, di una famiglia che ormai non ho più.

  Sono nata in una famiglia strana, cioè normale nella sua assoluta stranezza. Mio padre era un astrofilo, bibliofilo e faceva il militare. Papà obbediva tutti i giorni a dei comandi, impartendone, a sua volta, ad altri maschi in divisa. Alla sera, tornato a casa, lo vedevi su una chaise longue, con le palpebre socchiuse, mentre ascoltava una sonata per clavicembalo di Bach e in quella rigidità armoniosa, dovevi ammetterlo, lui trovava la sua pace. Teneva gli occhi aperti, per l’arco notturno, solo al fine di mirare gli astri. Credeva all’esistenza degli ufo e, in maniera più inconfessata che inconfessabile, scrutava il cielo non già per tuffarsi subito nel piccolo carro detto mestolo dagli anglisti, ma inseguendo con pervicacia, un disco volante disperso magari alla sua marziana flotta. Non so quali fossero i suoi sogni, certe volte penso che lui sognasse di individuare un ufo lanciando poi un SOS planetrario. Sognava di ritornare al big bang dell’universo, di violare un segreto per non diffonderlo mai a nessuno. Probabilmente desiderava essere protagonista, pure lui, delle vicende guerresche di quel cielo.

  Anch’io mi sono cimentata, per emulazione, nella ricerca di intelligenze extraterrestri. Andavo così allegramente a caccia, nel firmamento, di tegami a forma di pastiera napoletana o di doppi nodi simili a babà. Per me, gli extraterrestri, amati da mio padre, erano dei dolci amici somiglianti alle goduriose paste le quali, in un battibaleno, sparivano dal nostro cabaret domenicale. Un giorno, intorno all’età di quattro anni, mi sentii particolarmente fiera di me stessa. Guardando il cielo estivo, al calar della sera, vidi una lucetta rossa intermittente e il cuore mi balzò in gola per l’emozione. Prima di mio padre, avevo scovato un oggetto volante non identificato ed ero depositaria di un segreto pazzesco, le cui implicazioni erano di là di venire. Avrei ricevuto gli elogi non solo di papà, ma dell’intera famiglia; alla domenica, avrei potuto mangiare una razione tripla di patatine fritte senza che, per questo, nessuno brontolasse. La mia vita sarebbe cambiata ed io avrei stretto un sodalizio interplanetario, per cui, alla sera, avrei potuto discorrere con gli omini verdi, anziché con le piante, come era peraltro già mia abitudine fare. Di solito, parlavo con i fiori cosiddetti <<belle di notte>> che coloravano, con rapide ed intense macchie, il giardino della villa. Erano i miei fiori preferiti, si schiudono come farebbero una lumaca in gita con una tartaruga, o ancora come una cozza sposata ad una vongola, se soffrissero di crisi identitarie: in altre parole, fanno capolino per un lasso determinato di ore, nell’oscurità ed, al sorgere del sole, come dei rettili o dei molluschi stizziti,  si ritirano nel proprio guscio. Ho iniziato a comunicare con quei fiori, non appena ho avuto il dono della parola. Mi intrigavano, al pari di mio padre che rifuggiva, per le notti estive, nel suo guscio: il cielo.

  Il giorno che feci questa scoperta, mi recai subito di buon mattino a confabulare con i fiori. Esordii con un <<non sapete cosa vi siete persi, perché ieri sera eravate ancora mezzi chiusi>>. Sottovoce, sussurrai loro: <<ho trovato un extraterrestre>>. La mia rivelazione dovette, però, lasciarli indifferenti. Con rammarico, non notai nessun sussulto di foglie, nessuno scampanellio nelle corolle sigillate quasi con la ceralacca. Quel giorno, le mie delusioni crebbero, in mole direttamente proporzionale, al mio infantile stato eccitativo.

  Gravida del mio mistero, riuscii a non svelarlo solo fino a mezzodì, quando, ritrovandoci tutti insieme attorno ad una mensa, discutevamo della giornata e di quanto la strada, pur adiacente alla villa, fosse chiassosa e disturbasse il nostro sonno con i rombi di moto ed auto, di diversa cilindrata, nel corso della notte. Quello era un leitmotiv di conversazione e sembrava che i rumori, come di tuono, si incuneassero nel passaggio da una portata all’altra, in guisa di araldi della prossima pietanza. Prima della crostata di mirtilli, guadata la boa dei formaggi, dichiarai la mia scoperta al mondo che, per me, equivaleva allora ai sei membri della mia famiglia. Nonni, genitori ed una sorella più grande di me di qualche anno. Dissi di aver visto un extraterrestre intorno alle otto e trenta della sera. L’esperto in materia, che era mio padre, posticipò la nostra querelle poiché, pure lui, aveva qualcosa di molto interessante da mostrare. Nel pomeriggio, sospesa come un piccolo chimico ai primordi della nomenclatura di Lavoisier stilata in tavola periodica da Mendeleev, giocai con i miei utensili di rame armeggiando con destrezza la padellina, manco si trattasse di un disco volante in miniatura. Mio padre non sarebbe vissuto ancora per molto e ci furono dunque, tra noi, poche altre stellate condivise. Lui ed io, mano nella mano, ci demmo appuntamento alle venti e trenta per scrutare il cielo. In quel momento esatto, una luce magenta garibaldino squarciava, a intermittenza, il velo all’imbrunire. Papà mi fece montare sulle spalle, indicandomi poi quel bagliore oriundo: <<E’ l’aereo che porta la posta>>. Chiosò dicendo una frase, apparentemente poco importante, per spiegare il fallimento della mia neonata teoria: <<Le cose, spesso, non sono ciò che sembrano>>.

  Quanto è grande il tema della verità inteso come equilibrio, variante per ciascuno, dei due piatti della bilancia su cui adagiare i principi freudiani di piacere e di realtà. Nelle giornate in cui mi sento avvinta da uno spleen leopardiano, mi dispero pensando che gran parte delle teorie scientifiche con le quali abbracciamo il mondo vantano il destino, inesorabile, di essere smentite. Qual è il confine della verità nella vita di ciascuno di noi, il limite fra il vissuto e il non vissuto, fra la terra ed il mare o, come disse un grande spagnolo, fra la vita ed il sogno? Per Calderón de la Barca, la vita era sogno, anzi è. Un tempo indicativo presente, affermativo, compulsivo. Forse la velleità genialoide di un drammaturgo di risolvere, mediante l’intuizione dell’arte, il fatto dell’esistere. Anche io ora, mentre vergo queste pagine, in un breve e dozzinale segmento dell’umana storia, difendo una verità a malapena passabile. Che nessuno ci può rubare i nostri sogni, né tantomeno i nostri ricordi. E che la nostra mente, spesso turbata, ha una sorta di retino stregato per captare il plancton della nostra vita: l’elisir sul repertorio di chi siamo e di cosa, un giorno, potremmo divenire. Per me, quella sera, accreditare il responso di papà è stato in un certo senso increscioso. Quel lucore amorevolmente donizettiano nel cielo non adduceva una falange di omini lattuga con alabarde laser nel mio ecosistema, di allora, già popolato sia da fiori loquaci che da alati pentolini; questi ultimi, dal canto loro, collimavano però con la costellazione di Pegaso, nell’emisfero boreale, a sud-est di Andromeda.  Un’altra spiraglio, per emendarsi dall’abiezione di taluni grossi svarioni, sta nell’ammirare la natura. La sua vigorosa potenza mescolata alla sua certosina delicatezza, come avviene nelle belle di notte le quali si aprono e si chiudono in base ai flussi della luce solare. Il mondo è fatto di costanti e non certo episodici miracoli, basterebbe solo avere la giusta sensibilità per accorgersene. Non ho molti punti fermi, questa è, per me, un’atavica sicurezza fruibile come la stagnola dei divinatori baci perugina. Ora che è morta anche mia madre ed io sono una giovane donna, sento che qui e soltanto qui alberga, ad oggi, la mia forza.

Cap. II, pp. 17- 18.

 

  Il caldo incalzante dell’estate è una delle stimmate che gli antropologi lombrosiani imputerebbero, drasticamente, alla donna del sud: l’ouverture scarlattiana, a giugno, è poi come un’esplosione attesa, eppure sempre sconvolgente, di spighe e di castagni in fiore. Trascorrere quel mese, alloggiati nella villa, costituiva sempre un’esperienza straordinaria. Ricordo le mie corse a perdifiato vicino ai gradini della Chiesa ed il gioco della campana, con quei salti di finta zoppia, da un quadrante al successivo, come se fosse facile. E non è per niente facile. Cambiare, mutarsi, adattarsi all’esistere è faticosissimo, impegnativo come null’altro mai. Ricordo le mie borsette blu cobalto, quelle che desideravo ad ogni compleanno e che erano come il marsupio, lo scrigno regale in cui conservavo il mio apprendimento ed i prodigi sul genere dei fiori parlanti. Quanto ho parlato, con le belle di notte. Una volta cresciuta, ho saputo che quel nome si riferiva pure alle lucciole, cioè a dire alle prostitute. Ma forse tutti noi ci vendiamo ogni giorno, per poter contemplare una notte stellata, assaporare un pasto ristoratore dalla fame dei clochard o affinché qualcuno si inchini, umilmente, di fronte alla nostra presunta avvenenza.

  I pomeriggi di giugno erano dedicati all’attività culinaria. Mentre mia nonna e mia mamma, rispettivamente, lavavano ed asciugavano i piatti, andavo nella mia stanza e tiravo fuori il set di pentolini di rame. Come una Penelope che disfaceva con il favore delle tenebre la tela dianzi lavorata, ricominciavo idealmente a cucinare, dialogavo con mia sorella e stabilivo che alcune ricette sarebbero state, ad esempio, minestre di conchiglie. Ho iniziato prestissimo a raccoglierle deambulando sul bagnasciuga e, nella mia cucina immaginaria, esse tornavano molto utili prendendo le fattezze di qualunque pietanza, e ciò esclusivamente in base al mio capriccio dell’istante. Ogni tanto, davo un’occhiata esterna alla persiana per allestire la prossima occupazione. Con le formine di plastica, sfuse dal formaggino, costringevo le formiche ad entrare ed uscire dagli occhielli mimetizzati che l’industria alimentare crea allo scopo di far traspirare il cibo. Studiavo con cinismo l’ingresso e la fuoriuscita delle malcapitate formiche e quando, come Ugolino, ero sazia del vuoto intrinseco alla torre della Muda, le lasciavo tutte libere dando loro appuntamento all’indomani. Sono volubile e crudele, apostrofe in rima baciata con tutte le donne.

 

Cap. III; pp. 21-23.

 

Le pergole di bouganville ornano ogni più recondito anfratto delle terre di mia madre. Le abbiamo, meglio le avevamo, di un fucsia cangiante talmente leggiadro da essere ineffabile. Un nuovo colore assoluto, che in teoria assoluto non è: un ibrido peculiare, ed a sé stante, di rosso valentino e quarzo ametista. Le stesse nuance del cielo quando si infuoca, al tramonto, intanto che il disco del sole si inabissa nei flutti marini. La fragranza è altrettanto ineguagliabile: il profumiere più raffinato non sarebbe in grado di riprodurla perché, oltre all’essenza odorosa del fiore, non si riesce a cancellare l’umore gagliardo dei ceppi. Sono piante che si inerpicano a reticolato sui muri, hanno degli strascichi che fendono gli stucchi d’intonaco, resistendo così alle ingiurie prevedibili del tempo, ma anche a quelle immeritate degli uomini.

  Ho viaggiato nella mia vita, visto sufficienti cose e cerco di rintuzzare i rimpianti. Ho sognato mia madre e mia nonna, insieme, qualche mese fa. Sono venute a trovarmi ed hanno dato, da ex padrone, una scorsa alla casa. Da quando mia madre si è ricongiunta a mia nonna in quella dimensione ultraterrena, inesplorata ai coevi, l’abitazione in cui io risiedo sta andando in tilt. Si è rotta prima la lavatrice, ho avuto guasti all’impianto termoidraulico e le tapparelle cascano; l’altro ieri, stavo finendo ghigliottinata, come Maria Antonietta d’Asburgo Lorena, mentre provavo ad affacciarmi sul mio plebeo balcone. Vi sono spifferi nuovi, sibillini come quelli di una pizia accoccolata non su delle zolfatare vulcaniche, bensì sul buran siberiano. Tutto sembra scalpitare e io, che sono abituata a leggere e codificare i segni per la mia professione di astrologa consulente del lavoro, comprendo cosa ciò implichi. Significa che debbo vendere questo appartamento e piantare le mie tende da un’altra parte.

  Dicevo, mia madre e mia nonna hanno guardato inorridite questa casa, e sembrava che a loro per prime non gliene importasse più niente. Il possesso è una categoria che non dovrebbe, d’altronde, caratterizzare le anime dei morti. Sono state lungamente qui, poi si sono accomiatate e mia madre, con un piede sull’uscio, mi ha detto una frase che tutti noi, presto o tardi, ci ritroviamo sulle labbra: <<Eravamo felici e non lo sapevamo>>. E’ una taglia, il cui etimo risale all’economia di baratto, che definirei modica: il prezzo usuale da pagare al precipitoso andazzo, inesorabilmente in avanti, di tutti i calendari, pagani o gregoriani che siano.

  Il mio lavoro mi ha portato spesso lontano, dalla Eboli contadina che mi ha dato i natali. Da questo pur surreale fortino,  nel Deserto dei Tartari, sono scappata a iosa per ritornare nei momenti del bisogno. Sono rimasta nei periodi in cui non avevo alternative come subito dopo il mio incidente automobilistico o durante la malattia di mia madre. In molti mi dicono che sono fortunata. Posso elaborare il mandala delle stelle in qualsiasi città e fare l’invio di una mail per adempiere al mio contratto. Io, tuttavia, preferisco sempre scrutare il volto del mio interlocutore come se, grazie allo sguardo, potessi violare la sfera di Eudosso di Cnido. In realtà, adesso che non ho più apparenti stimoli per restare, mi accorgo di non poter fare a meno di certi panorami e di non riuscire a staccarmi da quei rami ubertosi di bouganville.

  Pure il mio studio assomiglia ad una sfera armillare estremamente ingarbugliata. Nel mio caos, rinvengo un ordine che è fatto di anelli concentrici e di tracce all’indietro come di chi intercetti le briciole di Pollicino.  Ogni azione mi rimanda ad un oggetto e così l’ultimo ed il penultimo sono connessi, come se si assistesse al replay di una partita di tennis infinita. I ritmi di lavoro, da quando mia madre è deceduta, sono forsennati. Sto dietro ad una casa in bilico del crollo e completo tante carte astrali da arrivare, alla sera, a parlare a tu per tu con i pianeti dello zodiaco. Il mio Urano natio era cattivello e tale si è fin qui dimostrato. Così, mi immagino di interloquire con il tronfio Giove, o con il negletto Plutone, implorando una maggior fortuna, nel senso di buona sorte, per i miei clienti. Le aziende per cui lavoro mi informano sulle date di nascite, correlate dall’orario e dal luogo, ed io mi dovrei attenere all’illustrazione di un carattere più o meno socievole a seconda delle situazioni, un po’ più leader o un po’ più gregario nella gestione del potere. L’aspetto più sofistico, del mio già opinabile compito, è che sono io la prima a non crederci. Intendo dire che non svolgo un’attività scientifica, avendo un esorbitante margine di errore, assoluto e relativo, e che io sono un’astrofisica mancata. Non sono ce l’ho fatta a laurearmi, ero troppo invischiata nei miei problemi. Quindi ho trasferito, nell’astrologia, la mia passione per le stelle.

Daniela Rizzo

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