L’ariostesco Calvino a cura di Maria Angela Cernigliaro Tsouroula
«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»[1]: sono esattamente queste le parole che si leggono in un libro-saggio di Italo Calvino, dal titolo Perché leggere i classici e che ci hanno indotto a porci alcuni interrogativi. Primo fra tutti: «C’è una forma di “comunicazione” tra libri appartenenti a diversi autori?» E poi: «È possibile, o impossibile, una relazione tra scrittori del passato e scrittori contemporanei?».
Provando, dunque, una grande curiosità di indagare sui motivi che avevano spinto Cesare Pavese a definire il primo romanzo breve di Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno[2], come un racconto dal «sapore ariostesco»[3], desideriamo esaminare più a fondo i misteriosi legami tra lo scrittore ligure, antesignano della letteratura moderna e postmoderna, ed Ariosto, esponente del mondo tardo rinascimentale. In particolare ci intriga approfondire se e in che misura la lettura dell’Orlando Furioso[4] abbia inciso sull’immaginario calviniano nella stesura della prima e delle opere successive dello “scoiattolo della penna”, come affettuosamente Pavese chiamava il suo amico Calvino. Ci teniamo, pertanto, a precisare che, con il presente studio, non abbiamo la presunzione di offrire un esame analitico dell’intero corpus narrativo dello scrittore ligure, ma solo quello di analizzare alcuni scritti di Calvino che, in quanto ispirati alle soluzioni formali del “racconto fantastico”, ci pare abbiano una più o meno stretta relazione con l’opera di un grande poeta della letteratura rinascimentale: Ludovico Ariosto (Reggio Emilia 1474 – Ferrara 1533).
Per raggiungere tale scopo ci muoveremo entro limiti precisi, sulla scia degli itinerari proposti dallo studioso danese Lene Waage Petersen. Lo studioso, in un breve ma notevole saggio[5], ha tracciato le tappe della presenza di Ariosto nella narrativa di Calvino, definendo il primo periodo di presenza ariostesca come “implicita”, il cui prodotto narrativo più emblematico è il racconto Il sentiero dei nidi di ragno (1947);il secondo periodo come “trasfigurazione fantastica” dell’OF[6] il cui risultato è la scrittura dei tre romanzi brevi, contenuti ne I nostri antenati[7], con particolare riferimento a Il cavaliere inesistente (1959), il più ariostesco dei tre; il terzo periodo di presenza ariostesca “esplicita” in cui il nome dell’Ariosto è presente nella riscrittura dell’OFC[8] e in due episodi de Il castello dei destini incrociati (1969-1973)[9]: Orlando il cavaliere e Astolfo sulla Luna.
Per quanto concerne il romanzo d’esordio dello “scoiattolo della penna”, il Sentiero dei nidi di ragno, collocabile nel primo periodo di influenza implicita o indiretta dell’Ariosto su Calvino, la prima osservazione da annotare è che si tratta di una storia della Resistenza a cui Calvino partecipò dal ’43 al ’45. Ebbene, non si può non constatare con interesse il tentativo calviniano di un rinnovamento letterario che si deduce dal fatto che questa storia non viene raccontata “di petto” secondo i canoni del Neorealismo allora imperante, ma “di scorcio”, cioe’ “filtrata” attraverso gli occhi di un adolescente, Pin, un monello, un vero e proprio scugnizzo, un puer-senex -come sagacemente lo caratterizza il critico Belpoliti[10]– il quale vive le sue avventure tra i carrugi, insieme agli avventori di una taverna, ed i sentieri di montagna, insieme a una scalcagnata brigata di partigiani.
A ben vedere, già ad una prima lettura, si avverte che il materiale della ricca letteratura di stampo neorealistico in questo romanzo verrà utilizzato da Calvino “a modo suo” e, cioè, attraverso una «lente espressionistica»[11] che deforma sia i volti dei compagni che le azioni belliche a cui lo scrittore effettivamente partecipò come partigiano. Scorrendo questo racconto, infatti, palesemente si rivela una profonda verità: le parole “chiave”, ovvero “fiaba e favola”[12], usate da alcuni critici in riferimento ai personaggi, ai luoghi, al linguaggio de Il sentiero, seppure pertinenti, non bastano per caratterizzare l’avventura di Pin. Condividendo l’osservazione del critico Scaramucci, ci pare, invero, non solo “limitativa”[13] una lettura in chiave genericamente fiabesca, ma anche insufficiente a spiegare la portata di questa iniziale esperienza di Calvino, di cui Pavese, già al primo impatto, come abbiamo precedentemente menzionato, riuscì a coglierne il «sapore ariostesco». Questa nostra, più che un’ipotesi valutativa, è la proposta di un metodo di lettura. Spiragli a tal proposito, infatti, si apriranno se si esamineranno alcuni tratti che il romanzo ha in comune con il racconto ariostesco a partire dalla comune genesi orale, dalla stessa struttura che si basa su una ricercata “ambiguità” delle coordinate spazio-temporali del racconto (che si svolge in un luogo e in uno spazio di tempo che non si possono circoscrivere), dai personaggi, tutti “antieroi” (privati di profondità psichica e sentimentale) e dall’affastellarsi di avventure su avventure (incontri, furti, prigionia, evasioni, il vagare per i boschi, scontri, tresche, rappresaglie e perfino un incendio), dall’ariosità dei paesaggi[14], fino a giungere al linguaggio, ricco di espressioni figurate[15], tipiche del registro colloquiale, e a più piani, proprio sull’esempio di quello ariostesco.
Come Ariosto, Calvino fa di quest’opera un vero e proprio universo multicolore di storie allo scopo di rappresentare un’immagine dell’universo, una mappa del mondo, «una cosmogonia fantastica e razionale insieme»[16]
Ma se dubbi vi fossero sulla stretta relazione artistica tra Ariosto e Calvino, si potrà aggiungere un ulteriore anello, costituito dai tre racconti de I nostri antenati e, soprattutto, dal racconto o romanzo breve che dir si voglia de Il cavaliere inesistente (1959), espressamente ritenuto dallo stesso scrittore il più “ariostesco” dei tre. Negli anni ’50, infatti, essendo venuta meno quella carica d’energia rivoluzionaria che era alla base de Il sentiero dei nidi di ragno e delle altre opere di stampo neorealistico, Calvino preferì spostare la sua attenzione dalla rappresentazione obiettiva, seppur “favolistica”, della realtà, alla sua “trasfigurazione allegorica”. Un fugace, ma significativo accenno, a Il cavaliere inesistente, sarà utile per valutare la portata dell’influenza ariostesca su Calvino.
La storia si apre sul campo di battaglia dei Franchi impegnati nella lotta contro gli infedeli. Tra i suoi paladini Carlo Magno distingue un cavaliere che porta un’armatura bianca, sempre pulita e lucida, di nome Agilulfo. Ma la più grande particolarità di questo paladino è quella di non esistere. È, infatti, un’armatura vuota che si tiene in vita solo con la forza di volontà. Intorno al paladino ruotano tanti personaggi, motivi, immagini, sfondi, ambienti, intrecci, ironia e si evince che Calvino, in virtù all’argomento trattato nel suo romanzo, potrà fruire largamente dell’opera del grande scrittore rinascimentale.
È lo stesso scrittore ligure a confessarlo in un famoso saggio dove dice: «Da tempo l’Orlando sconfina nelle mie pagine. Già anni fa Bradamante e i paladini di Carlo Magno erano entrati di prepotenza in un mio romanzo, Il cavaliere inesistente.».[17]
Eppure, benché le somiglianze tra questi due grandi della letteratura siano evidenti, ci appaiono “di superficie” e, da sole, perciò, non le reputiamo sufficienti a spiegare l’amore di Calvino per Ariosto e per le avventure dei paladini ariosteschi. Per questo motivo, onde comprendere a fondo l’originalità del romanzo, vale la pena spingersi oltre tali stretti legami che uniscono Il cavaliere inesistente al mondo dell’OF. Ci sarà, così, consentito di individuare l’aspetto fondamentale che, a nostro avviso, caratterizzò la profonda ammirazione di Calvino per l’opera del poeta rinascimentale e che, in definitiva, sembra concentrarsi su un crocevia dell’immaginario: probabilmente lo “scoiattolo della penna” restò incantato dall’atteggiamento distaccato e ironico di Ariosto verso i suoi personaggi e la materia cavalleresca, come pure dal modo di narrare di quest’ultimo, che in un’ottica del tutto originale era riuscito a intrecciare i fili della vita in una «mescolanza di felice divertimento e profonda serietà»[18].
Se neanche questo, tuttavia, bastasse a dimostrare la suggestione e la magia che il poeta rinascimentale esercitò sullo scrittore ligure, una definitiva conferma ci giungerà da un altro lavoro calviniano che si sviluppò intorno al 1967. Nel dicembre del ’67, venne, infatti, pubblicato un testo, con il titolo Orlando Furioso, raccontato da Italo Calvino, frutto di una proposta fatta a Calvino, e da lui accettata, da parte di un funzionario della Rai affinché lo scrittore ligure dedicasse all’OF una serie di trasmissioni radiofoniche, basate sulla scelta e sul commento delle ottave ariostesche. Successivamente questo testo fu ampliato e rifuso in Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. Con una scelta del poema (1970). Ritornando all’iniziativa[19] della radio, va evidenziato che essa ottenne il pieno consenso del noto scrittore e giornalista Guido Piovene il quale plaudì al tentativo di liberare il poema «dalle bardature scolastiche […], restituendovi freschezza, libertà e sorpresa»[20] e soprattutto condivise la scelta calviniana, in quanto, secondo lui, Italo Calvino portava «molti ingredienti ariosteschi sotto forma nuova. Alcuni suoi racconti fanno pensare ad una materia ariostesca ironizzata un’altra volta»[21]. Piovene espresse, inoltre, la sua soddisfazione per la riscoperta dell’attualità dell’Ariosto e sostenne: «Abbiamo bisogno di opere di fantasia e d’ironia; e non sono in contrasto con il nostro tempo scientifico, ma la sua seconda faccia»[22].
Non c’è, pertanto, da sorprendersi sul fatto che fu proprio grazie a tale incarico che Calvino potè esplicitare la sua profonda ammirazione per il complesso gioco ariostesco. Se da una parte, invero, nell’OFC risaltò con la massima evidenza la maestrìa dello scrittore ligure nel sedurre lettori ed ascoltatori con il suo irresistibile piacere di raccontare, dall’altra colpì oltre ogni misura l’abilità di Calvino nel mettere a nudo i meccanismi e le convenzioni del poema rinascimentale al punto che nessuno reputò esagerato ritenere questo lavoro calviniano un vero e proprio metaromanzo. Il testo, infatti, è come un riassunto romanzato dell’OF, interrotto da citazioni di pezzi in originale del poema ariostesco. Nell’OFC, in particolare, vengono sapientemente intrecciati molti elementi: un’introduzione al poema, il riassunto-rinarrazione a episodi delle avventure dell’OF, la citazione di passi del poema in versione originale, la presentazione e, infine, il commento del passo scelto, con una tecnica che ci permette di gustare appieno il sapore dei miti e delle espressioni del mondo poetico dell’Ariosto. Tale procedimento, che forse ha relazione con l’impostazione orale della prima versione radiofonica, consentì a Calvino di tener desta l’attenzione del lettore grazie al continuo passaggio dal testo originale al suo commento, grazie a cui mise in evidenza, in modo del tutto ammaliante, lo svolgimento del racconto poetico ariostesco, reinventando addirittura in alcuni punti le immagini del poeta rinascimentale. Va pure sottolineato che in questo libro Calvino rivelò la sua attitudine nel rivestire due ruoli importanti, quello del narratore e quello del critico, che, tuttavia, non risultano dissonanti, poiché il passaggio dall’uno all’altro avviene in modo del tutto armonioso e senza sbalzi.
Ma al di là del rilievo tutto particolare dell’OFC per ragioni intrinseche all’opera stessa, ciò che ci preme mettere a fuoco sono le stesse rivelazioni di Calvino che non fa il minimo sforzo per celare i motivi della sua ammirazione per il poeta rinascimentale, concernenti il metodo di costruzione del poema (dilazione dall’interno, simmetrie e contrasti tra episodi), la varietà d’avventure affrontate dai personaggi (senza bisogno di alcun approfondimento psicologico) e soprattutto il felice modo di raccontare, alternando ironia a gocce di saggezza, nostalgia dei valori del passato e sorriso amaro sulla vita del suo tempo.
Non è, dunque, un caso se il desiderio di “emulare” in un certo senso il suo maestro, diventò ad un certo punto così incontenibile per Calvino da spingerlo alla scrittura di un nuovo romanzo, tutto d’ispirazione ariostesca: Il castello dei destini incrociati (1969-1973). Come la narrazione dell’OF, secondo la celebre definizione calviniana, si basava su «un’immensa partita a scacchi che si gioca sulla carta geografica del mondo»[23], così le storie de Il castello dei destini incrociati formavano una specie di cruciverba, incentrandosisulla combinazione in sequenze di tarocchi, ed emergevano attraverso le “parole” delle “carte parlanti”. L’accostamento con l’OF è naturale sin dalla prima lettura di questa opera, grazie al comune bagaglio di immagini cavalleresche di castelli, dame e cavalieri con il capolavoro ariostesco. Il processo di avvicinamento tra le narrazioni si può reputare, poi, giunto a compimento nel momento in cui Calvino inserisce tra le storie dei personaggi del castello perfino lo stesso Orlando e il paladino Astolfo. Αd uno sguardo più approfondito, tuttavia, nonostante nell’atmosfera, nelle tematiche, nel gran numero d’avventure e perfino nei personaggi de Il castello dei destini incrociati si possa notare una grande affinità con l’OF, si avverte che la coincidenza tra il racconto e la sua fonte è solo di superficie, in quanto la scrittura calviniana “travalica” i motivi ariosteschi. Un esempio si può rintracciare nel finale del racconto dei due autori da noi presi in esame. Se l’Orlando dell’Ariosto ritrova la ragione, che aveva perso a causa dell’amore non corrisposto e, quindi, ritorna in battaglia e alla sua vita precedente, saggio e lucido come prima del suo innamoramento, l’Orlando calviniano, seppur rinsavisce, dopo un’esperienza così totalizzante, non può essere più lo stesso. La ragione che dovrebbe aiutarci a decifrare il mondo circostante è sentita da Calvino come un ostacolo alla comprensione. La verità, portata alla luce dall’Orlando calviniano, attraverso la carta dei tarocchi detta del Penduto, in definitiva è che «il mondo si legge al contrario», ovvero l’ordine per antonomasia risiede nel centro del disordine:
Orlando era disceso giù nel cuore caotico delle cose, al centro del quadrato dei tarocchi e del mondo, al punto d’intersezione di tutti gli ordini possibili[24]
Qui, sulla scia della lezione di Pitagora, gli opposti coincidono. Il senso logico delle cose, secondo l’autore ligure, si è, dunque, perso e quindi bisogna leggere la realtà seguendo un codice diverso da quello fino ad ora imperante. Quale? «Barthesianamente»[25] rilancia al lettore il compito di decifrare i messaggi apocrifi e di riempire gli spazi volutamente bianchi dello scrittore. Non esiste un senso univoco della lettura che sta nella significazione personale e non nei significati obiettivi.
L’arioso scenario ariostesco ne Il castello dei destini incrociati diventa cupo, onirico, e pieno di simbolismi di “struttura ontologica”[26]. Calvino stesso ammise che il primo tarocco, il Bagatto, risultava il solo adatto a rappresentare chi ormai era diventato: «un giocoliere o illusionista che dispone sul suo banco da fiera un certo numero di figure e spostandole, connettendole e scambiandole ottiene un certo numero d’effetto»[27].
Per questo, a libro finito, Calvino confesserà apertamente «il senso di fastidio per la prolungata frequentazione di questo materiale iconografico medieval-rinascimentale»[28], stimando ormai maturi i tempi per «passare ad altro»[29].
In seguito a questa dichiarazione, va da sé che si considerò esaurita la “vena ariostesca” in Calvino.
Ma mettere punto ad una questione così intrigante solo per una dichiarazione, dettata forse a Calvino da un momento di fastidio per il suo concentrarsi in modo maniacale sullo stesso materiale, lo reputiamo un modo alquanto superficiale di eludere la questione stessa. C’è da dire, infatti, che se è vero che Calvino non s’ispirerà più nella sua successiva produzione letteraria in modo palese al capolavoro ariostesco, appare altrettanto vero che la lezione di Ariosto non fu mai da lui definitivamente accantonata. Seguendo quest’ultima linea, basterà scivolare nella lettura dell’ultimo progetto di Calvino, pubblicato postumo, Lezioniamericane (1988)[30]. A prescindere dal fatto che dalleLezioniamericane manca la sesta conferenza, Consistency, che Calvino non fece in tempo a redarre per il sopraggiungere della morte, è possibile affermare che questa opera può essere considerata di enorme interesse, costituendo il “testamento spirituale” lasciato ai posteri dallo scrittore ligure. Pur senza avventurarci, nel presente e breve saggio[31] in un discorso che ci porterebbe lontano, già ad un primo esame del contenuto delle conferenze, infatti, si può individuare un elemento particolarmente emblematico. Anche se il nome dell’Ariosto appare solo di sfuggita, o è addirittura sottinteso, è implicito che a questo grande poeta del Rinascimento Calvino stesse pensando nel momento in cui cita le qualità che la letteratura del nuovo millennio, secondo lo scrittore, deve avere: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità.
Una menzione particolare merita, a tal proposito, l’appello che in questo studio lo “scoiattolo della penna” rivolge ai futuri scrittori che invita ad ispirarsi“liberamente” alla realtà inquantoritiene di fondamentale importanza che la letteratura sia soprattutto “educativa”. Questa affermazione non va intesa nel senso che la letteratura ha il compito di insegnare i “fatti” per i quali, d’altronde, basterebbe la storia o la scienza, ma nel senso che essa ha l’obbligo di lanciare dei messaggi, ispirati alla Leggerezza,(che contiene in nuce gli elementi della Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità) che riescano ad raffinare nei lettori il pensiero, sollecitarne interpretazioni, far nascere idee su cui riflettere e, soprattutto, all’“altezza” di realizzare una “personalità morale”.
Da tale riflessione scaturisce un ulteriore dato intrinseco che ci permette di sfatare il mito secondo cui, per alcuni critici[32], Ariosto e Calvino sarebbero autori del disimpegno. Anzi ci sembra che il «sapore ariostesco» acquisisca un nuovo e più profondo significato nel momento in cui ci si rende conto della predominanza di un fattore costante nella produzione artistica dei due autori presi da noi in esame e che risiede nel loro desiderio di confrontarsi con la realtà e gli “scricchiolii” sociali del loro tempo. Sarà proprio tale interesse per il reale a guidare da una parte, Ariosto a mettere in scena la crisi della nobiltà nell’epoca rinascimentale e dall’altra Calvino a rispecchiare la crisi della borghesia nell’età contemporanea. Né ad Ariosto, né a Calvino, insomma, sfugge la realtà. L’ironia di ambedue, lungi dall’offrire al lettore l’occasione di evadere in un mondo fantastico e dal costituire mero divertimento, si configura come un’arma atta a denunciare la crisi dei valori e le miserie del mondo. Si tratta di un’arma liberatrice che rompe le catene con un mondo “opaco”, preda dell’ombra e della compattezza. Lo spirito ironico mette «le ali ai piedi»[33] alla «pietrificazione»[34] e alla pesantezza della realtà, permettendo alla nostra coscienza di scoprire con “leggerezza”, proprio con quella leggerezza tanto decantata dall’ultimo Calvino, il cammino che ognuno di noi, si auspica, riesca a percorrere.
Giunti al termine della nostra dissertazione, ci chiediamo se non sia possibile concludere rappresentando il “ponte ideale” che unisce il poeta rinascimentale a Calvino con l’eloquente immagine, raffigurata sulla copertina della prima edizione di Una pietra sopra. In questo disegno di Saul Steinberg è raffigurato un enorme masso che rotola lungo una china minacciando un cavaliere il quale innalza un vessillo spiegato al vento ed insegue con una lancia appuntita un drago dalle fauci spalancate. Soffermandoci, in breve, sulla figura del cavaliere[35], possiamo notare che questo archetipo letterario nel corso dei secoli ha subito modificazioni interne, grazie a numerosi scrittori, i quali ne hanno effettuato uno «slittamento di significato, modificando il suo tradizionale statuto e attribuendogli peculiarità, qualità, vizi e virtù»[36]. Se, dunque, la figura del cavaliere nel corso del tempo si è arricchita di nuove caratteristiche, seguendo i suggerimenti di Domenico Scarpa[37], può ben essere interpretata come il simbolo dell’uomo moderno. Quest’ultimo, minacciato alle spalle da una realtà “pietrificata”, la quale vorrebbe schiacciarlo con la sua spietatezza, corre perché preferisce agire piuttosto che restare inerte, recuperando un ruolo attivo nella Storia. Corre per sfuggire all’«epoca di allarme»[38], caratterizzata da irrazionalità, decadenza e crudeltà, ma anche per uccidere il drago[39], «la bestia feroce che incontriamo tanto fuori quanto dentro di noi»[40]. L’energia morale si trasforma in energia fisica: è questa la «qualità degli uomini liberi, di chi non subisce, ma reagisce»[41]. Nelle mani di Calvino i paladini ariosteschi, per lo più ligi al loro dovere, assurgono al ruolo di individui comuni, uomini di oggi, caratterizzati da debolezze in cui tutti noi possiamo riconoscerci. Questi paladini non sono quindi degli eroi “senza macchia e senza paura”, soffrono, sbagliano, tradiscono, sono afflitti dal dolore, dalle sopraffazioni, dagli inganni, ma non si piegano davanti alle avversità, combattono e non si lasciano dominare dalla sfiducia in un domani migliore o dall’ignavia, né dal “drago” delle loro paure personali. Armandosi d’intelligenza, di volontà, d’azione, d’ironia, costoro, proprio come suor Teodora/Bradamante de Il cavaliere inesistente, “galoppano” alla conquista dei loro ideali, verso il «regno da riconquistare, futuro…»[42]. Impegno che ognuno di noi oggi dovrebbe assumersi, ma che particolarmente spetta all’intellettuale di oggi. Di tale compito si fa carico Calvino il quale dichiara: «l’ambizione giovanile da cui ho preso le mosse è stata quella del progetto di costruzione di una nuova letteratura che a sua volta servisse alla costruzione di una nuova società»[43]. Non sappiamo se Calvino, grazie alla creazione dei suoi miti e dei suoi personaggi, sia riuscito o riuscirà mai nel suo intento di comprendere e cambiare il mondo. Che tale tentativo costituisca una “pazzia” di radice ariostesca? Chissà! È comunque un fatto innegabile che l’ardito “cavaliere” – lo «scoiattolo della penna» – ha inteso infonderci un barlume di speranza. E a noi pertanto, grati, non resta che rivolgergli un semplice, ma sentito, grazie.
In copertina: Disegno di S. Steinberg
[1]I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1995, pp.5-13. Il libro, pubblicato postumo, fu curato da Esther Calvino
[2] I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, inID, Romanzi e Racconti [3 volumi], a cura di M.Barenghi e B. Falcetto, I Meridiani, Mondadori, Milano 2004-2005, vol. I
[3] C. Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno, in «L’Unità», Roma 26 ottobre 1947; ora in ID, Saggi Letterari, Einaudi, Torino 1968, p. 245
[4] L. Ariosto, Orlando Furioso, edizione integrale, a cura di D. Puccini, I Mammut, Newton e Compton, Roma, ed. 1999, 2006
[5] L. Waage Petersen, Calvino lettore dell’Ariosto, in «Revue Romane», vol. 26, n.2., 1991
[6] D’ora in poi useremo l’abbreviazione OF per l’Orlando Furioso di L. Ariosto, cit.
[7] I. Calvino, I nostri antenati, I miti Mondadori, Milano 1996
[8] D’ora in poi useremo l’abbreviazione OFC per il testo: I. Calvino, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. Con una scelta del poema, Mondadori, Milano 1995
[9] I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, in ID, RR (abbreviazione per Romanzi e Racconti), cit, vol. II
[10] Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 2006, p.12
[11] I. Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in ID., RR, vol. I, cit., p. 1190
[12] A questo proposito si legga il training critico di A. Ponti, Come leggere il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, Mursia, Milano 1991, pp.117-154
[13] I. Scaramucci, La dimensione ariostesca nell’opera di Calvino, in Atti del Seminario di studi su Italo Calvino, Pro Civitate Christiana, Assisi 1989, pp.73-74
[14] Valga per tutti un esempio tra i tanti possibili: «Quando Pin si sveglia vede i ritagli del cielo tra i rami dei boschi, chiari che quasi mali a vederli. È giorno, un giorno sereno e libero con canti d’uccelli.» [I. Calvino, Il Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 55]
[15] Valga per tutti un esempio tra i tanti possibili: «Tutti abbiamo una ferita segreta per la quale combattiamo.» [Ivi, 109]
[16] A.Asor Rosa, Stile Calvino, Einaudi, Torino 2001, p. 118
[17] I. Calvino, Ariosto geometrico, in «Italianistica», settembre-ottobre 1974, p. 657
[18] L. W. Petersen, Calvino lettore dell’Ariosto, cit., p.232
[19] La radio si incaricò di far leggere anche altre opere letterarie, ma si ricordi che fu l’OF ad inaugurare la serie.
[20] G. Piovene, Il mondo senza confini dell’Orlando Furioso, in «La Stampa», 31 dicembre 1967, p. 3
[21] Ibidem
[22] Ibidem
[23] OFC, cit., p. 87
[24] I. Calvino, Storia dell’Orlando pazzo per amore, in Il castello dei destini incrociati, in ID., RR, vol. II, cit. p. 531
[25] C. Benussi, Introduzione a Calvino, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 121
[26] G. Zoras, La tecnica oniroplastica di Calvino, in via di pubblicazione
[27] I. Calvino, Anch’io cerco di dire la mia, in La taverna dei destini incrociati , in ID., RR, vol. II, cit., p. 596.
[28] I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, in ID., RR, vol. II, cit., p. 1281
[29] Ibidem
[30] I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, in ID., Saggi, 1945-1985, [2 volumi], a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 2001, vol. I
[31] Per approfondire l’argomento si legga: M.A. Cernigliaro Tsouroula, Il «Sapore ariostesco» in Calvino, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2011
[32] A questo proposito si leggano: C. Garboli, Identità di Calvino, in ID., La stanza separata, Mondadori, Milano 1969; C. Debenedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998; A.Piperno, L’ultimo Calvino, lontano dalla vita, in «Rassegna stampa del Corriere della Sera», 1 marzo 2010
[33] I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, in ID., Saggi, vol. I, cit., p. 673
[34] Ivi, p. 632
[35] Si legga l’interessante Introduzione di C. Lacirignola al suo saggio Italo Calvino e i cavalieri fantastici,Stilo editrice, pp. 15-18.
[36] Ibidem
[37] D. Scarpa, Il fotografo, il cavaliere e il disegnatore. Italo Calvino nel 1964, in «Belfagor», XLVIII, 287, 30 settembre 1993, p. 531
[38] I. Calvino, Il midollo del leone, in Una pietra sopra, in ID., Saggi 1945-1985, vol. I, cit., p. 27
[39] Si ricordi l’immagine di San Giorgio che uccide il drago che aveva tanto affascinato Calvino da dedicargli alcune pagine de La taverna dei destini incrociati (I. Calvino, RR., vol. II, cit., pp. 559-602).
[40] I. Calvino, Anch’io cerco di dire la mia, in La taverna dei destini incrociati, in ID., RR., vol. II, cit., pp. 601-602
[41] C. Lacirignola, Italo Calvino e i cavalieri fantastici, cit., p. 124
[42] I. Calvino, Il cavaliere inesistente, in ID., RR, vol. I, cit., p. 1064
[43] I. Calvino, Introduzione, in Una pietra sopra, in ID., Saggi 1945-1985, vol. I, cit., p. 7. Si tratta di un’affermazione fatta da Calvino intorno al 1980, dunque, in piena maturità artistica.