L’attrice, Angela Ada Mantella

L’attrice

 Prefazione

«È attraente e creativa la finzione di entrare in un altro da sé, in un personaggio che ha vita propria ma è assolutamente necessario sapere tornare se stessi, pena l’impossibilità della chiusura dell’azione stessa e il pericolo dello sconfinamento nella fantasia delirante» (dott. Angelo Guarnieri, psichiatra).

L’attrice, Katia, è un personaggio che si caratterizza e si struttura, come una matrioska, attraverso un diadema di altri personaggi che Katia indossa entrando e uscendo dalla propria coscienza.

L’autrice, Angela Ada Mantella, intende, attraverso l’analisi del lavoro dell’attore su se stesso nella costruzione dei personaggi, rappresentare l’esasperazione di alcuni meccanismi artistici fino alla distorta percezione del sé e della realtà.

 Non a caso, l’autrice sceglie di utilizzare più livelli narrativi: accanto al livello monologico proprio della narrazione, il lettore scopre il livello dialogico e plurilogico tipico della drammaturgia. I diversi livelli, sapientemente orchestrati, potrebbero disorientare il lettore che è invitato, attraverso il continuo cambiamento di punto di vista, a seguire Katia nel suo entrare e uscire da se stessa. Il lettore si ritrova calato nella distorta percezione della realtà della protagonista senza tuttavia restarne sopraffatto. L’autrice propone lo “spaccato” di una psiche delirante dando la sensazione di potersi aggirare tra le pieghe della mente. Un labirinto intricato, dove si incontrano le allucinazioni di Katia, proiezioni delle sue paure e del suo inconscio, rese plastiche dalla penna dell’autrice che coinvolge la collettività, mettendo in discussione atavici modelli religiosi, familiari e sociali. Il percorso non pretende di offrire una chiave di lettura e di interpretazione della realtà: sviluppa una realtà altra da sé, che invita alla riflessione e che spinge alla formazione di una coscienza nuova.

Katia sembra uscire dalla “Giraffa in fiamme” di Dalì: “l’immagine della donna smontabile che rivela il suo interno a cassetti, la donna stipo priva di volto e di identità esteriori” si erge in un deserto dove valori etici, sociali e morali bruciano squarciando il cielo e attraversando il placido orizzonte della realtà.

Al culmine della rappresentazione, l’autrice si manifesta e offre un messaggio: il diverso, l’alterità che ci appare inferiore e ci fa paura perché oscura, che nega le certezze e pone continui interrogativi, offre a chi osa addentrarsi in essa, la possibilità di vivere “percorsi interiori”, sì, “dolorosi, ma che arricchiscono… semplicemente chiedendo e dando amore”.

 

 
Giovanna Petrelli

Capitolo 1

 

Era un pazzo.

Katia fissava ipnotizzata la fiamma nel camino e ripensava a quello che le chiedeva.

Era un pazzo.

Questo regista…

Era ancora scossa.

Nella sua lunga carriera d’attrice, si diceva Katia, si era abituata alle strane coincidenze tra la sua vita artistica e la realtà in cui s’imbatteva quando lavorava a costruire un nuovo personaggio.

Ma gli eventi di quella lunga giornata l’avevano proprio scossa.

Portava ancora i capelli rasati.

Aveva interpretato, di recente, il personaggio di una ebrea, catturata dai nazisti e rinchiusa nei campi di concentramento, violentata e messa incinta.

Nel film, nasceva una strana storia d’amore tra il suo personaggio e un soldato nazista…

«Uccidimi» lo implorava lei, legata ad un letto, cosciente degli esperimenti a cui i nazisti avrebbero sottoposto lei e il suo bambino.

«Uccidimi…»

Il soldato l’aveva uccisa e si era tolto la vita, sparandosi in fronte.

“Uccidimi” le fece eco il pensiero.

Ecco, come ebrea era morta.

Nessun lieto fine.

Non era riuscita, lei, a sopravvivere ai campi di concentramento.

Sentiva l’esigenza di spogliarsi di quel personaggio e subito indossarne un altro.
Ave Maria piena di grazia

Il Signore è con te

Tu sei benedetta fra le donne

Benedetto è il frutto

Del tuo seno Gesù…

 

Recitò ad alta voce la preghiera salutando il suo nuovo personaggio, Maria.

La Maria che le proponeva questo regista era una Maria riscritta, nuova, una Maria che non era Maria.

Rilesse il canovaccio che teneva in mano:

 

Maria:

O padre, cosa mi accade?

Il mio ventre è gonfio

è della vita il soffio?

Sarà stato il vento

o della Luna il canto.

O padre, non ti adirare

Io non sapevo

Sai tu forse spiegare?

 

Una Maria che non sa spiegare, che ha paura.

Una Maria donna.

Uff! Quante polemiche avrebbe creato!

Continuava però ad accarezzare l’idea.

No, no… quei presagi…

Quella mattina…

Quella mattina dei testimoni di Geova avevano suonato alla sua porta. Mentre Katia s’intratteneva con loro davanti al cancello, suo figlio Manuel correva in bicicletta in giardino.

Manuel era caduto. Era finito con la fronte su un roseto. Le spine si era conficcate in una tempia e scorrevano gocce di sangue.

Per un istante, Katia, mentre teneva tra le braccia suo figlio sanguinante, aveva sentito il tempo fermarsi intorno a lei…

«Gesù!» aveva esclamato uno dei testimoni di Geova.

E Katia si era sentita davvero la Maria, sopraffatta dall’ineluttabilità del destino…

Che sciocchezza! Pensò.

Alla fine era solo un graffio.

Continuò a leggere il copione.

 

Maria:

Pazza, Signore?

No, solo muta.

Muta

Perché quel che mi opprime

Non posso dire

E se pur lo dico

Non è mai inteso.

Ecco,

Avevo un fiore

Con undici petali d’oro

L’ho smarrito

Qualcuno l’ha rapito.

Lo rivoglio.

Signori, avete per caso visto qualcuno passare

con un fiore dagli undici petali d’oro?

 

Una Maria pazza di dolore.

Come poteva essere pazza colei sulla quale si era posato lo spirito santo?

Lei, illuminata dalla grazia divina…

Lei che parlava con Dio.

Katia ricordò le parole che le disse un frate quando era piccola: «Dio può parlare con noi solo nella misura in cui è presente in noi».

“Dio in noi, dio in me” pensò Katia “… e con Dio, il senso di tutte le cose che si può solo intuire senza mai poterlo dire…”

“Sì” pensò “si può impazzire”.

«Cosa direbbe la Maria impotente davanti alle immagini dei bambini vittime della pedofilia venduti al mercato di internet, quanti, quanti Gesù?» le aveva chiesto il regista.

Niente.

Non direbbe niente.

Maria sarebbe restata muta.

E se pur lei avesse compreso il senso di tali atrocità, sarebbe, sì, impazzita di dolore.

A Katia parve di vedersela innanzi, Maria nel bagliore di una luce divina: piangeva e le porgeva da bere le sue lacrime.

 
Cade una lacrima

da un volto stanco

ultima lacrima

di un insensato pianto

 

«Perché diavolo piangeva? Per l’umanità» sussurrò Katia.

“Questo personaggio l’aveva già coinvolta a tal punto?”.

Sorrise, ripensando alle parole di un’anziana signora che aveva incontrato in occasione della Pasqua a Badolato.

«Noi di Madonne ne abbiamo tante», le aveva detto l’anziana signora «e quando mancano ce le inventiamo!… Qualche tempo fa, degli sconsiderati hanno messo una madonna su un carro tirato da buoi e l’hanno ricoperta di uva, tanto che pure negli occhi, quella povera madonna, aveva i chicchi… l’hanno fatta sfilare in giro per il paese come Madonna dell’uva».

La Madonna dell’uva! Ne avevano fatto una baccante!

Rise.

Le piaceva.

Le piaceva una Maria che fosse un po’ Atena, Giunone, Artemide… una Maria cangiante, un diadema di facce che nel complesso ne facevano una madre, la madre delle Madri.

Una madre con tutti i connotati divini che faceva la sua entrata impazzita!

La divinità che si erige ad umanità.

Dio è morto, aveva detto qualcuno.

Maria languiva nelle mani di questo regista.

Al contrario, pensò, forse la follia era proprio la sua forza.

Katia pensò a sua madre, alle sue zie, a sua nonna… quante madonne che aveva a cui ispirarsi!

Da secoli, queste donne recitavano la loro parte statica, ripetitiva, sempre uguale, di madri dedite alla famiglia e ai figli, di regine del focolaio.
Regina, reginetta

Quanti passi devo fare

Per arrivare al tuo castello

Con la fede

col gioiello

e con la punta del coltello?

 

Recitò ad alta voce.

Ma voleva veramente arrivare al loro castello?

Indossare la loro corona e, prigioniera del mare, farsi sirena che ammalia con il suo canto, un ritornello che si ripete all’infinito come l’onda che si abbatte placida sulla riva, una riva da sfiorare senza mai poterla toccare, guardare da lontano sconosciuti sentieri che non avrebbe mai potuto esplorare.

No, lei aveva voluto essere maremoto, rompere gli argini, e spingersi oltre, al di là della ragione, in cerca di un senso da attribuire ad ogni sua singola azione, un senso continuamente da inventare…

D’altronde, lei attrice nella vita, nella sua condizione di madre separata dal marito si era ben allontanata dal modello di Madonna che sua madre e suo padre avrebbero voluto per lei!

Ancora non le era chiaro se avesse volontariamente cacciato o involontariamente fatto scappare il marito!

Poco importava.

Non lo amava.

Non l’aveva capita.

«Promettimi che non cambierai mai» le aveva chiesto dopo sposati.

E già allora Katia aveva intuito che la loro unione non sarebbe durata.

Come poteva chiedere ad un’attrice di non cambiare?

Le veniva naturale come la notte che succede al giorno…

La sua era una vocazione, ecco, proprio come la Maria, si era sentita chiamata dal suo destino.

Tornò a sfogliare il copione.

“Che cosa avrebbe fatto sua madre – pensò Katia – o le sue zie se lo spirito santo avesse loro rivelato che il loro figlio era figlio di Dio?”.

Rise.

Una qualsiasi donna calabrese, nei panni di Maria, avrebbe dato quattro schiaffi a Gesù, fosse pure figlio di Dio, intimandogli di stare zitto se non voleva finire sulla croce!

Rilesse l’ultima scena.

 

Gesù:

Madre!? Perché in questi luoghi mi cerchi?

Quale pallore ricopre il tuo volto?

Quali parole…

 

Maria:

Ho fatto un sogno,

avevo smarrito il mio bambino

ma ora ti ho ritrovato,

Ti ho portato qualcosa.

 

Maria prende una pozione.

 

Ecco, bevi.

Me l’ha data un angelo.

È per alleviare il tuo dolore

di essere nato poeta

che tutto vede e poco gli è celato…

E mi ha detto:

«Sei tu che devi finire la leggenda

che tuo figlio sta tessendo»

 

Gesù beve.

 

Gesù:

Ora devi andare.

 

Maria:

No, non prima d’averti addormentato.

Ho imparato una nenia.

Con essa mille volte, in sogno,

ti ho cullato.

Non ti ho mai cullato…

Non ti ho mai amato…

 

Gesù:

Perché, madre, mi uccidi?

 

Gesù abbraccia la madre e si abbandona tra le sue braccia.

 

Maria:

Lascia che ti ami

di quell’amore

che solo la Morte sa dare

Donna fatale

solo lei sa veramente amare.

 

Maria culla il corpo di Gesù per terra.

 

Maria:

Avevo un fiore

Con undici petali d’oro.

L’avevo smarrito

Qualcuno l’aveva rapito

L‘ho ritrovato

E nel mio grembo ora l’ho celato.

 

Era un pazzo.

Il regista le proponeva una Maria che avvelena il figlio per risparmiargli le sofferenze della croce.

Katia pensò alla possibilità che la società dava alle donne di abortire.

Sapendo che dovranno soffrire…

Katia si sfiorò il grembo con la sensazione di sentire un bambino muoversi pur sapendo che non era ancora possibile.

“No, no…” pensò.

Non le piaceva.

Chiuse il copione e lo gettò nel fuoco.

Lo guardò bruciare, pensando alla storia che sarebbe potuta essere, al personaggio che non poteva essere.

Avevo un fiore

Con undici petali d’oro.

L’avevo smarrito

Qualcuno l’aveva rapito

L’ho ritrovato

E nel mio grembo ora l’ho celato.

Le fece eco il pensiero.

Uccidimi…

Le fece eco il pensiero.

 

Capitolo 2
 

“Io sono colei che è nata per visitare viva, sola, libera, nuda l’Ade”.

Katia si svegliò di soprassalto. Una sensazione di dolore pervase il suo corpo; non riusciva a muoversi, braccia e gambe erano diventati sassi.

Chi era?

Era Antigone sepolta viva nella grotta.

Questo personaggio la chiamava spesso.

Si alzò, si vestì e uscì.

Sapeva dove andare.

Quant’era bella la sua terra, pensò, mentre percorreva in macchina la costa.

Calabria, maledetta Calabria.

Parcheggiò e scese.

Innanzi a lei, dall’alto di un dirupo, il mare, bello, azzurro, baciava all’orizzonte il cielo che le parlava.

Katia allargò le braccia e mentre una leggera brezza le sfiorava il viso, poteva volare.

Poteva volare…

Ma doveva tornare, suo figlio l’aspettava. Cosa avrebbe detto non vedendola tornare?

Scese lungo un sentiero fino alla spiaggia.

Mentre correva lungo la riva, si voltò a guardare le sue orme sulla sabbia.

Il mare le avrebbe cancellate, non sarebbe rimasta traccia.

Come la Morte che bussa ad una porta.

Si arrampicò sugli scogli e, attraversando agilmente la parete rocciosa contro cui le onde s’infrangevano, arrivò alla sua destinazione.

Innanzi a lei, la grotta di Caminia. La sua grotta.

Una meravigliosa grotta naturale nell’insenatura del mare.

S’inginocchiò e rievocò la sua Antigone.

Che cosa aveva fatto Antigone rinchiusa viva nella grotta? Che cosa aveva detto?

E recitò:

 

Antigone:

Dove sono? Luce, luce…

Accendete una fiaccola…

Emone, amore, svegliati, parlami, non lasciare che la tua sposa tremi nel suo talamo…

Perché è così buia questa stanza nuziale?…

Emone, amore, perché non mi rispondi? Non odi il timore che fa danzare la mia voce?

…Oh… Meschina me!

Il ricordo si ridesta e rinnova un inutile sordo lamento…

Respiro! Eppure respiro…

Chi ha ritagliato questa veste, questa mia veste di sasso?

…Soffoco!…

Emone, amore, perché è così triste quest’amplesso?…

 

 

Triste, triste amplesso.

Katia non si era mai sentita veramente padrona della sua sessualità.

Sentiva di dover rispondere anche dei suoi trasporti e delle sue scelte sentimentali alla sua famiglia.

Il suo Emone era scappato.

Antigone figlia del fratello e della nonna.

L’incesto.

Era poi così strano questo mito?

Per Katia era estremamente naturale indossare i panni di Antigone perché le sembrava di riconoscere le tracce del mito nella sua famiglia.

L’incesto.

C’erano tante forme d’incesto, pensò.

Quello che da millenni si ripeteva nella sua famiglia era un incesto simbolico, secondo lei.

Il padre era padre di tutti, fratelli, sorelle, nipoti, generi e nuore.

E i fratelli minori si contendevano con il maggiore il ruolo di pater familias. Guerre. Guerre.

 

Antigone: O Eteocle, o Polinice… fermate questo fratricidio… ahimè, non mi ascoltano. Ah ferita mortale… destino circolare che congiunge quel che chiamiamo nascita all’orrore della fine… Polinice, Eteocle, la vita, che vita, vi ha reso nemici, la morte riallaccia il vostro destino, reclama il vostro legame sancendolo nel sangue, il sangue, impuro sangue il nostro… fosse esso acqua! Basterebbe a lavare la nostra macchia, che se è vero che è una colpa, è una colpa vera essere nati dal talamo incestuoso di una madre intemperante.

 

Katia era cresciuta con una gran confusione di ruoli familiari, quello che le sembrava di vedere era che ad un certo punto il padre venisse spodestato dal figlio maggiore ma che quest’ultimo rimanesse sempre e comunque “sposato” simbolicamente alla madre che fino alla tomba restava la matriarca.

 

Antigone: Madre, madre… perché non hai saputo contenerti? Non ti bastavano i baci, i tepori, gli odori dei tuoi legittimi amplessi con Laio… No, non ti bastavano… Hai dovuto serpeggiare tra le lenzuola calde del respiro di tuo figlio, covando un nido d’infelici creature… Consunto talamo il tuo, Madre, rende vergine il mio… No, non avvicinarti, non toccarli, non sai distinguere amore da amore e contamini tutto con le tue labbra assiderate, così asciutte, spezzate… labbra che sanno bere dissetando… labbra…

 

Tutta colpa della madre.

Tutta colpa di Giocasta!

Morto Laio, non si sarebbe dovuta risposare con Edipo e la tragedia si sarebbe evitata.

Katia si era sposata.

Aveva portato nella sua famiglia allargata un nuovo fratello, il marito.

Katia aveva messo al mondo un figlio.

Ma dai genitori si sentiva declassata dal ruolo di madre a quello di sorella del figlio.

Avrebbe anche lei innalzato il figlio a marito un giorno?

Katia si era sposata.

“Ma con chi?”. Si chiese.

Anche quando il marito le era accanto, le decisioni per la sua famiglia spettavano sempre al padre di Katia.

E Katia aveva accettato l’invadenza e l’autorità paterna, l’aveva lei stessa cercata, perché nessun uomo poteva competere con suo padre…

Ma ora che il suo Emone era scappato poteva realmente il padre assumere il ruolo di marito?

 

Antigone: …e ancora ramingo, cieco, vecchio, canuto e stanco il povero Edipo, che se stenti e vergogna non l’hanno ucciso, morrà certo, morirà sapendo me, Antigone, sua prediletta figlia, chiusa in una grotta, sepolta non ancora morta… Avrebbe forse preferito darmi in sposa al figlio del suo peggior nemico? No, né a lui, né a nessun altro. Per sé lui mi ha voluta, per lui io mi sono serbata…

 

Già il mito.

E come Antigone, eccola sola in una grotta d’incomprensioni e incomunicabilità.

 

Antigone: Oh Emone, Emone, Emone… perché non hai saputo uccidere il padre per avere la tua amata? Non ho saputo suscitare in te lo stesso forsennato amore che ha guidato la mano di mio padre contro suo padre?

No, non ho saputo… Poco eredito della minacciosa geniale arte di quella che mi fu madre in parte e che nonna avrei dovuto chiamare ma come una figlia ho dovuto consolare…

Eccoti Destino!

Nella tua tela è un tutt’uno…

Il tuo passato, Madre, è il mio.

Il tuo atavico passato, Nonna, è il mio.

La mia fine, il mio inizio…

Perché gli occhi degli uomini morendo cercano il Sole?

 

Capitolo 3

 

Katia si stava costruendo una ghirlanda di fiori.

Amleto l’amava.

Katia era Ofelia.

Di cosa l’accusava Amleto?

 

Amleto:

Ché, se siete onesta e bella, la vostra onestà non dovrebbe accettare alcun dialogo con la vostra bellezza.

Ofelia:

E potrebbe la bellezza, mio signore, avere commercio migliore che con l’onestà?

Amleto:

Sì certamente, perché il potere della bellezza trasformerà l’onestà da quello che è in una ruffiana, prima che la forza dell’onestà riesca a mutare la bellezza secondo la propria immagine. Questo era un paradosso un tempo, ma i nostri giorni confermano la verità. Io vi amavo un tempo

 

Ofelia era colpevole, si disse Katia.

Ofelia aveva lasciato che suo padre, Polonio, insinuasse l’ombra del Dubbio nell’amore di Amleto.

Ofelia si era fatta ruffiana del padre, si era prostituita alle ragioni del padre, alle ragioni di stato.

 

Ofelia: …Dicono che la civetta sia figlia di un fornaio. Signore, noi sappiamo cosa siamo ma non sappiamo cosa possiamo essere. Che Iddio sia alla vostra tavola.

 

Katia indossò la sua ghirlanda di fiori.

 

Ofelia:

Domani è san Valentino.

Era ben presto di mattina

Quand’io, fanciulla innocente,

bussai alla tua finestra

per essere la tua Valentina.

 

Ed egli si alzò, qualcosa indossò,

e corse ad aprir la porta

per far entrare la vergine,

che vergine mai più

se ne partì.

 

Katia si tuffò in mare e si lasciò galleggiare tra i fiori.

Quanto sarebbe stato dolce annegare.

 

Capitolo 4
E da duemila e cinquecento anni

Ogni notte

I cavalli accorrono danzando a suon di musica sulla piana di Sibari,

i guerrieri si ridestano e la guerra tra Sibari e Crotone si ripete.

Gli argini della diga vengono infranti e Sibari soccombe allagata.

 

Katia era appena tornata dall’Inghilterra. Ora desiderava andare in Egitto… nel pomeriggio ci sarebbe andata!

In Inghilterra aveva proiettato il suo ultimo film: narrava della guerra tra Sibari e Crotone, causa del conflitto era stata una Sfinge cresciuta e istruita da Pitagora.

Katia sfogliò i giornali: “Anche oggi parlano di me” si disse “Questi giornalisti ancora confondono la mia persona con i personaggi che interpreto”. E si riconobbe in prima, seconda, terza, quarta pagina! Con tanti nomi… lei usava tanti pseudonimi.

Al piano di sotto sentì sua madre e suo padre discutere.

Litigavano per lei.

La madre l’accusava di trascurare suo figlio Manuel.

«Sei diventata una madre assente, distratta, poco premurosa, ma non pensi a tuo figlio?» le aveva detto la sera prima.

Il padre di Katia la difendeva, ma non la capiva più.

Pensò al suo personaggio:

 

“Giove l’amava, bellissima ninfa, l’aveva onorata del prezioso dono della saggezza che mal si abbinava alla sua indole guerriera, usava l’arma della seduzione e non conosceva temperanza ma solo trasgressione. Adirata Atena le falciò il capo e tremava l’Olimpo per il dolore del padre che si vide rotolare ai piedi quel volto tanto amato.

Giove prese lamentoso quella testa e creò per essa un corpo felino simile al leone in cui incastonare la grazia sfigurata di una donna di cui era ancora assetato, le fornì un paio di ali cosicché nulla dovesse più temere seppur Atene ancora tramava, era un affronto che non poteva dimenticare.

Da ninfa era diventata Sfinge.

Ferita, la Sfinge accusò il Padre delle sue sventure da cui librandosi in volo scappò cercando recondito un luogo in cui posare.

Giunonica folgore le bruciò le ali, cadde in quel mare che ancora porta il nome del suo andare”.

 

E la sfinge era rinata, bambina, dalla schiuma del mare. Una Venere approdata sulle coste della Calabria.

 

“Un cielo stellato…

La Luna piena…

«Non si è mai visto un mare così» sussurrava qualcuno, quasi avesse paura che il solo suono della voce potesse turbare l’incantevole equilibrio di quelle acque dormienti…

Un brivido carezzevole sembrava percorrere quel manto marezzato in risposta alle parole che qualcuno sussurrava.

Qualcuno passeggiava sulla sabbia in riva al mare e mirava il riflesso della Luna piena su quello specchio arcano.

Un riflesso d’ascoltare…

Un riflesso che sarebbe voluto essere un pensiero, forse una parola, magari una frase… e soccombeva invece al silenzio.

Gli occhi di qualcuno che camminava sulla sabbia in riva al mare, riflettevano quel riflesso e in questo gioco di specchi si smarriva il senso di un pensiero, forse di una parola, magari di una frase… e restava un semplice gioco di punti immateriali, entità misteriose che segnano il confine tra ciò che è, e ciò che non è, tra il nulla e il nostro tutto, che dicevano una sol cosa a cui soccombevano i pensieri, le parole, le frasi.

Dicevano: silenzio.

Forse ascoltando quei silenzi, combinandoli, intrecciandoli, quel qualcuno che camminava sulla sabbia, avrebbe saputo chi era quella bambina nuda che dormiva sulla riva, avrebbe capito perché il mare non si muoveva, perché l’onda si ritirava, perché il riflesso della Luna esigeva Silenzio.

Qualcuno che camminava sulla sabbia in riva al mare vide una bambina nuda sulla riva, disse:

«Per Giove…».

Avvolse la bambina nuda nel suo manto e la rubò al mare e al riflesso della Luna piena sul mare”.

 

Quel qualcuno era Pitagora.

La bambina sfinge era così cresciuta con Pitagora, mostrando una predisposizione naturale verso i numeri…

Il numero.

La scoperta della filosofia pitagorica per Katia era stata fondamentale.

Katia disegnò istintivamente un uno.

L’unità.

“Un’unità vasta come la notte e il chiarore” le fece eco il pensiero.

Katia cadde in quell’uno e le sembrò di percorrere sentieri che si sgretolavano al suo passaggio dando origine ai corpi celesti e ai moti dell’intero universo intorno a lei, era lei il fuoco del cosmo, e stendendo una mano, poteva afferrare i pianeti, poteva numerare sfiorandole con un dito le costellazioni.

Improvvisamente Katia si sentì cadere nel vuoto.

Un vuoto infinito lasciato da un rapporto mancato con la madre, che Katia negli anni aveva cercato di colmare con un’aspirazione continua verso l’oggetto amato, verso il suo cielo.

Un amore smisurato verso il Padre che l’aveva portata ad imitarlo, a seguirlo, a parlare come lui, a pensare come lui, a voler essere lui, ad identificarsi in lui.

E così Katia si era scoperta attrice: un giorno si rese conto che non viveva, recitava suo padre.

Disegnò uno zero intorno all’uno e un infinito sopra. L’uno nello zero, o nel cerchio era uguale, con i connotati dell’infinito.

Quando la madre di Katia vedeva quel simbolo inorridiva, pensava che la figlia fosse dedita ad una qualche religione esoterica!

Era semplicemente il simbolo di come Katia si percepiva.

Aveva imparato a recitare il padre per anni, ma lei per sé quale realtà aveva?

Così come aveva imparato a recitare il padre imparò a recitare e a indossare le persone.

Era un’esigenza, non un gioco.

Si faceva istintivamente specchio dell’altro nei rapporti…

 

Qual era il senso della sua esistenza?

Una corona di personaggi le danzava sempre intorno, erano il suo pi greco, ma la sua identità si sgretolava all’infinito in un moto perpetuo.

E così aveva costruito il suo personaggio, la sua meravigliosa Sfinge, uno specchio che rifletteva semplicemente quello che l’altro era, ma nessuna vi si riconosceva, e non si rendevano conto che erano loro stessi l’enigma che la Sfinge proponeva.

 

Pitagora:

I tuoi occhi

Sono fragili

specchi di legno

in cui rimirarsi

senza mai vedersi.

Un’urna vuota

In cui rimbomba

L’eco di un canto

Che altri vanno tessendo.

 

Sfinge:

Chi sono?

Sono te e non lo sai.

 

Rispondeva ed uccideva.

 

Capitolo 5

 

«Che cosa accade se la razionalità si spinge a tal punto da diventare sensazione?» le chiese lui.

Katia era inebriata.

La voce di lui era calda, profonda, avvolgente… Da dove proveniva questa volta?

Come una coperta poggiata sulle spalle l’avvolgeva, come un fuoco che brucia nel cuore la scaldava…

Pianse confortata dalla sua presenza, era di nuovo qui, da qualche parte, con lei.

Aveva bisogno di lui.

Katia si raccontava continuamente attraverso i suoi personaggi in cerca di unità, e nel momento in cui le era sembrato di sfiorare la sua essenza, di raggiungere una piena percezione di sé, si era sgretolata.

Era nessuno. Quindi poteva essere chiunque e qualunque cosa.

La finestra? Era lei.

Un albero? Era lei.

Il mare? Era lei.

Il cielo? Era lei.

Pulsava.

E ad ogni battito si chiudeva, ritirandosi in una particella infinitesima, si annullava in un buco nero in cui confluiva la realtà circostante:

La finestra? L’ingoiava.

Un albero? Lo sradicava.

Il mare? Lo risucchiava.

Il cielo? Lo mangiava.

«S’intuisce» continuò lui «è un processo razionale, rapido, lampante che ha tutte le qualità della sensazione».

Katia indossava dialetticamente le sue tante facce, talvolta inconciliabili tra loro, si faceva ora ebrea, ora Maria, ora Ofelia, ora Antigone o Sfinge… ed era cosciente che ognuno dei suoi personaggi rappresentava un suo conflitto interiore… danzava nelle parti cercando il ruolo che le racchiudesse tutte e intuiva che la soluzione era nell’irrazionale: nella passione.

Katia bruciava di passione per lui.

Lo amava come figlia, come madre, come sorella, come moglie, come amante, come donna, come attrice e lo sfidava come Sfinge, perdendo sempre.

E lui si faceva ora padre, ora figlio, fratello, marito, amante, maestro: per Katia lui era il regista.

«Il pensiero è luce» disse lui «e come la luce dilata e restringe il tempo e lo spazio, pulsa».

E Katia come un’onda luminosa si propagava, come una particella per effetto della gravità cadeva.

«Sono luce» disse Katia tremando, si vedeva proiettata ai confini del creato dove si sarebbe smarrita nell’infinito.

Ma l’infinito era lui!

Katia assaporò il piacere di fondersi in lui, di annullarsi per lui e in lui, lasciando che la definisse, che le attribuisse una realtà, anzi che cancellasse la sua realtà.

«Come tu ti vuoi» disse lui.

Katia desiderò essere sfiorata, baciata, toccata da lui…

«Se ti amo ti uccido» le disse leggendole nel pensiero.

 

Capitolo 6

 

Manuel, porgendo un soldatino di plastica a Katia, disse: «Mamma, questo lo facciamo essere il cattivo».

Katia osservò il soldatino tra le sue mani.

Un oggetto inanimato a cui il figlio dava vita nella possibilità di significare qualcosa, qualunque cosa, nell’intenzione di significato.

«Non lo rompere, mamma» le raccomandò Manuel.

“Un esperienza d’amore” pensò Katia “che non si traduce mai in intelletto”.

Katia osservò gli oggetti intorno a lei.

“Le parole di Dio” si disse.

Parole mute che tanto più dicevano quanto più rappresentavano una mera possibilità di dire senza mai poter realmente capire.

 

Capitolo 7

 

Katia aprì il rubinetto dell’acqua e si lavò le mani.

«Il Nilo» disse «scorre nelle mie mani».

Si guardò allo specchio.

“Chi sono?” si chiese.

Ebbe paura della sua immagine riflessa.

“Che cos’è la realtà?” si chiedeva continuamente.

Si affacciò dalla finestra accendendosi una sigaretta.

La sigaretta era per lei una sorta di pendolo, scandiva il ritmo dei suoi pensieri, delle sue fantasie.

Il tempo di una sigaretta per visitare l’Egitto.

“Ho il dono dell’ubiquità” si disse “Sono contemporaneamente qui e altrove!”.

“Lo spazio ingloba tutto ed io sono solo un punto in movimento in un tempo immaginario”.

Osservò le strade, le case, i tetti, il cielo e il mare e le sembrò che fosse tutto curvo, distorto:

Quel che è

è sempre stato e sarà.

L’uomo gira in tondo,

passa e ripassa

e il destino lo aspetta al varco.

Camuffato

or da soldato,

prostituta,

vittima,

imperatore

che comanda la stessa esecuzione

 

Osservò le auto e le persone passare, salutarsi, parlare…

«Stanno tutti recitando una parte… Basta» disse «Basta, sono stanca, tanto stanca, voglio che finisca questa commedia».

Katia rientrò e abbassò il volume del televisore.

“S’intuisce… s’intuisce… s’intuisce…” le fece eco il pensiero.

Si sentiva osservata.

«È una finzione» disse «Sono prigioniera di un palcoscenico allestito nelle pagine di un libro, qualcuno muove per me le fila del mio destino».

Un pubblico dunque la fissava.

Aspettavano lei.

Sono a teatro, pensò, a Milano… anzi no… nella capitale, a Roma.

«Volete che reciti?» urlò «Sono un’attrice, reciterò».

La fiamma del camino ardeva.

Lui la guardava.

La pendola suonò.

«Mi rifiuto! Io mi rifiuto di recitare ancora per te» urlò Katia alla fiamma del camino.

Katia camminava lungo il limite di quello che era per lei il palcoscenico e muoveva le mani come a toccare un muro invisibile.

«Lo vedete?» chiese Katia al suo pubblico.

«Ma che stai facendo? Che stai dicendo?» chiese lui.

«Silenzio… Taci… quest’istante è mio… solo mio… parlerò… Oh sì se parlerò e mi ascolteranno tutti…

Quello è il regista! O meglio avrebbe voluto e sarebbe potuto esserlo, ma non stasera, ah no, non almeno per quello che concerne me… cioè la rappresentazione della mia parte, del mio personaggio… mio, mio, mio, solo mio».

Katia tornò a toccare il muro invisibile.

«Lo vedete?

No, certo, non lo vedete, non potete, non volete.

Eppure c’è.

E voi sapete che c’è, vi pasciate della sua esistenza, vi sentite al sicuro e confortati, perché sapete che qui, ora, tra me e voi, c’è un muro invisibile di un qualche misterioso cristallo.

E non si sfonda!

Vi parlerò dunque da una finestra!

Ah no… non temete… è una finestra con le sbarre. Passa il tempo seppur fermo nell’attesa di quello che dovrebbe accadere per farvi capire, per dar forma e per strapparvi una lacrima.

Che cosa siete venuti a fare voi stasera qui?

Perché mi leggete?

Siete venuti per vedere, per capire, per piangere.

Bene: PIANGETE! Perché quello che dovevate vedere l’avete già visto ma ciechi, e spero che abbiate abbandonato anche qualsiasi vostra pretesa di capire!

Ah, ah… già vi vedo…

Lei, proprio lei Signora, io la vedo innanzi allo specchio stasera abbottonarsi l’ultimo bottone della camicia, passarsi le mani nei capelli e controllare il trucco, luminosi colori per esaltare naturali i lineamenti del viso… no, non per mascherare: la maschera, si è detto, innanzi allo specchio, stasera non serve… no, non serve, posso togliermela: VADO A TEATRO! Qualcun altro lì indosserà per me una maschera.

E quel qualcuno che avrebbe dovuto mascherarsi per lei, Signora, questa sera, quel qualcuno sono io, proprio io, l’attrice.

Già la Signora pregustava l’istante in cui avrebbe visto aleggiare su questo palcoscenico uno spettro: è l’attrice, avrebbe pensato, sì, è l’attrice… ma no, non è l’attrice: è la maschera!

Dio mio! È viva! Respira! La maschera respira nelle parole che incalzano e rallentano, che dilatano e restringono il tempo, e per un istante, ah sì, lo fermano! Le parole fermano il tempo, è il concetto lo spazio e il tempo… È il tempo l’evento!

E sempre lei, Signora, si sarebbe un po’ riconosciuta in questa maschera intrappolata negli angusti confini di questo muro invisibile, una maschera si dibatte per parlarle attraverso una finestra con le sbarre…

Ed io… io chi sono?

Non lo so più chi sono…

Le sapevo indossare le maschere e far parlare, ma sapevo, io sapevo, che era una finzione, sicuramente più interessante della finzione che la vita reale impone come mondo ideale, ma sapevo che era una finzione, un gioco, recitazione.

E scopro invece che il mondo ideale impone una finzione come vita reale…

E in questo gioco di specchi, io chi sono?».

 

«Ho finalmente preso coscienza della realtà» disse Katia.

«Mamma, sei impazzita?» chiese il figlio guardandola allibito «Con chi parli?».

«Lo so io» rispose Katia.

 

Capitolo 8

 

«Katia, io e tuo padre vorremmo consultare un medico» le disse la madre.

«Un medico? Per chi? Perché?» chiese Katia.

«Per te, tu non stai bene, sei fuori di te, forse è il caso di parlare con uno psicologo o uno psichiatra…» la implorò la madre.

«Io? Io sto benissimo, ho finalmente capito come stanno le cose».

«Quali cose?».

«Sssh…ci sentono, ci spiano».

«Chi? Katia mia, chi ci sente? Chi ci spia?».

«Dimmi la verità, tu lo sapevi, tu sapevi tutto, tutti lo sanno e fanno finta di niente».

«Cosa?».

«Cosa? Anche i muri hanno occhi per guardarci… nel cielo un satellite ci riprende… siamo continuamente spiati».

«Ti rendi conto delle idiozie che stai dicendo?».

«Idiozie? Ti rifiuti anche di parlarne… che cos’è questo muro del silenzio? È forse una congiura?».

«Quale congiura, Katia? Nessuno ti vuole fare del male, ti vogliamo solo aiutare, stai attraversando un periodo difficilissimo, la separazione da tuo marito, il bambino da accudire e quest’altra gravidanza inaspettata…».

«Zitta! Niente è reale. Niente. Vedi questo vaso? Non esiste. È solo una rappresentazione» Katia scaraventò il vaso per terra.

«Che fai?».

«Niente è reale. Siamo solo lettere e consonanti di un qualche misterioso libro… attori di una qualche misteriosa rappresentazione… tu stai recitando e reciti bene la tua parte… vattene! VATTENE! Sei venuta a fare l’attrice con me, proprio con me… Vattene!».

La madre di Katia uscì piangendo dalla stanza.

 

Katia si sedette davanti al camino fissando intensamente la fiamma.

«Non possono capirti, Katia» le sussurrò la fiamma. Era lui.

La sua voce, eccola, calda, avvolgente… ma era ancora troppo arrabbiata, si sentiva ingannata.

«Ah, rieccoti, ti eri nascosto, perché a mia madre non hai parlato? Chi sei tu?» gli chiese Katia.

«Sono il diavolo» rispose lui.

Katia tremò.

In effetti era diabolico quello che le stava accadendo.

“Possibile?” si chiese. Quella voce che da mesi le faceva compagnia, narrandole storie e dandole identità, che l’aiutava a dimenticarsi della sua tragica realtà… no, non poteva essere il demonio.

«Non ho mai creduto al diavolo» gli rispose Katia «Tu sei Dio».

«Forse per te sono Dio, ma sono solo l’io che ti sta scrivendo» gli rispose lui.

«Quindi è vero, sono prigioniera in un libro, io non esisto, sono solo un personaggio nato dalla fantasia di uno scrittore?».

«Non è vero che non esisti. Tu sei me ed io sono te» rispose lui.

«Perché mi hai creata?» chiese Katia.

«Nessuno meglio di te sa perché nasce un personaggio. Per rappresentare il mio mondo interiore».

«L’Universo sei tu? Sono in te?» gli chiese Katia.

«Vivi in uno dei miei possibili universi interiori».

«Ne esistono altri?».

«Tanti».

«Mia madre, mio padre, mio figlio…».

«Sono me».

«Perché non parli con loro?».

«Non vogliono. Non possono».

«Perché?».

«Non hanno coscienza della mia esistenza».

«Non puoi dare loro questa coscienza come l’hai data a me?».

«Te la sei presa questa coscienza, non te l’ho data e mi hai rubato la penna».

«Voglio venire da te, voglio uscire da questo libro, la storia della mia vita non mi piace» lo implorò Katia.

«Bambina mia, tu sei questa storia, esisti perché esiste questa storia».

«Mettimi in un’altra storia».

«Non saresti tu, ma un personaggio diverso da te».

«E allora riscrivi questa storia, cambiala, apri una porta nel cielo e fai entrare la fantasia».

«La fantasia?».

«Sì, un cavallo alato, un mago, la magia» sognò Katia.

«In un universo parallelo in me queste cose esistono, ma cosa direbbero tua madre e tuo padre se ora bucassi il vostro cielo e comparisse un cavallo alato, quale sarebbe il senso?».

«Deve per forza avere tutto un senso?» urlò Katia.

«La Fantasia libera, senza un vaso che la racchiuda, è caos, bambina mia, vi ingoierebbe l’entropia e sarebbe la vostra morte nel non-senso» le spiegò lui.

«Puoi foggiarlo solo per me un cavallo alato, lo nascondiamo, non lo vedrà nessuno».

A Katia sembrò di vederlo, un fumetto che con la plastilina e un martello scolpiva un bellissimo cavallo alato, per lei, tutto suo!

«Ma io lo voglio toccare» protestò Katia «Così è solo un’allucinazione».

«Non può essere concreto nel tuo universo quello che ha una realtà solo per te, è la logica dell’universo in cui io stesso vivo» disse lui.

«Che ne sarà di me?».

«Non puoi vivere a lungo in questa dimensione, con questa coscienza».

«Lasciami stare con te, lasciami visitare gli altri infiniti universi di cui sei fatto, raccontami di te».

«Ti smarriresti in me».

«Perché mi hai creata».

«Per rispondermi».

«A cosa?».

«Che cos’è la pazzia e qual è il limite tenue che intercorre tra arte e follia».

«Il cervello è un velo di cipolla, diceva mia nonna, basta un soffio per bucarlo… Qualcuno ha soffiato: io sono pazza, è colpa tua se sono pazza».

«È colpa mia, ti ho creata il più possibile simile a me» rispose lui.

 

Capitolo 9

 

Che cosa sarebbe successo ora?

La notizia era certa.

Le torri gemelle negli Stati Uniti d’America erano crollate.

Un attacco terroristico.

Le vittime ancora non si contavano: innocenti, tanti.

«Perché stai facendo questo» urlò Katia nella speranza che lui la sentisse «Non ha nessun senso».

«Sono crollate in me delle certezze» rispose lui dalla fiamma del camino.

«Sono crollate in te delle certezze? E uccidi?» gli chiese Katia.

«Una nazione, Katia, perché la tua mente è una nazione, spedisce satelliti nello spazio, buca il cielo e vuole sostituirsi a Dio. Il terrorista che è in me questo non lo sopporta e semina terrore nel nome di Allah».

«Ti riconosci in Allah?» gli chiese Katia

«Io sono come ognuno di voi vuole che io sia».

«E gli innocenti che hai ucciso? Perché? Che senso ha?».

«Rappresentano quello che sarebbe potuto essere e non è stato, tutte le possibili linee d’eventi, tutti i possibili risvolti che questa storia avrebbe potuto avere e non avrà».

«Sei crudele».

«Esistono comunque in me, in un’altra dimensione, in un’altra forma, in un’altra storia».

«Uccidimi, se sono queste le conseguenze della mia esistenza» lo implorò Katia piangendo.

Entrò la madre di Katia nella stanza.

«Hai sentito la notizia, Katia? Perché piangi?» le disse.

«È colpa mia, mamma, tutti quei morti… è colpa mia» disse Katia.

«Cosa stai dicendo? Cosa è colpa tua?».

«Il crollo, il crollo delle torri gemelle…» disse Katia con un filo di voce ma nell’istante in cui lo diceva si rese conto che non avevano alcun senso nella realtà, la sua realtà, quelle affermazioni.

«Come puoi sentirti responsabile di un attacco terroristico?» le chiese la madre sempre più perplessa.

«Dio gioca a dadi con l’umanità» disse Katia.

 

Capitolo 10

 

Lui era un artista.

“Anch’io sono un’artista” pensò Katia “Mi ha creata il più possibile simile a lui, anch’io so creare personaggi, anch’io so dare loro vita e farli vivere in una qualche dimensione in me”.

Katia si sentiva sola.

“Anche Dio è solo e gioca con se stesso” pensò Katia.

Katia sentiva l’esigenza di riappropriarsi della sua interiorità sgretolata, si era fatta profeta dell’assurdo, sacerdotessa di una chimerica religione, aveva denudato la sua fragile essenza per denunciarne a se stessa l’incoerenza, si era impastata di dualismo per morirsi infine in una forma, una qualsiasi forma, ripudiata e ora disperatamente cercata non essendosi senza essa bastata.

E si era inventata lui, si era inventata un Dio a sua misura che la scrivesse, che creasse per lei una forma, una qualsiasi forma in cui riconoscersi, che la contenesse in una candidissima veste.

«Io sono Dio» disse Katia «Io sono solo Dio che è solo».

No, non era sola.

Una vita in lei cresceva.

Chiamò a rassegna i suoi personaggi, chiamò Maria, l’Antigone, la Sfinge e Pitagora e lasciò che si disponessero intorno a lei mimando una scenografia.

Katia si sdraiò per terra, in posizione fetale, lei era un libro aperto, da leggere.

Antigone era una grotta.

Pitagora era una candela accesa accanto al libro, a lei.

La Sfinge era un geroglifico da interpretare su una delle pareti della grotta, l’altra faccia di Antigone di spalle.

Maria era un raggio di Sole che filtrava nella grotta.

«Noi siamo lo Spazio» disse Antigone.

«E il Tempo» rispose Pitagora.

«In verità, Signori, io sono una “e” con l’accento». Affermò la Sfinge.

« È il concetto il Verbo». Spiegò Maria.

«Lo Spazio». Aggiunse Antigone.

«E il tempo». Disse Pitagora.

«Noi siamo l’inizio del tempo.» Precisò la Sfinge.

«Un proponimento». Specificò Maria.

«Noi siamo lo spazio che osserva riflette e induce». Analizzò Pitagora.

«Eppure dove risiede la nostra esistenza?» domandò la Sfinge.

«In un componimento senza passato presente e futuro». Rispose Antigone.

« È un buco nero che ingoia con le parole». Disse Pitagora.

«Ahimè, quanto dolore!». Esclamò Antigone.

«Di Dio è il cuore». Affermò Maria.

Noi siamo lo Spazio.

E il Tempo.

In verità, Signori, io sono una “e” con l’accento.

È il concetto il Verbo.

Lo Spazio.

E il tempo.

Noi siamo l’inizio del tempo.

Un proponimento.

Noi siamo lo spazio che osserva riflette e induce.

Eppure dove risiede la nostra esistenza?

In un componimento senza passato presente e futuro.

È un buco nero che ingoia con le parole.

Ahimè, quanto dolore!

Di Dio è il cuore

 

Capitolo 11

 

«Mamma, oggi a scuola ho scritto una favola» disse Manuel.

«Raccontamela» lo esortò Katia.

«C’era una volta un villaggio dove vivevano tanti lupi. C’era un lupo speciale con gli occhi rossi che aveva una maledizione, ogni notte, con la luna piena diventava gigante e cattivo e distruggeva tutto: tetti, case, mobili e tutti i giocattoli e accendeva tanti fuochi e bruciava tanti libri.

Gli altri lupi piangevano.

I lupi grandi piangevano.

I lupi piccoli piangevano e avevano paura.

Allora il lupo dagli occhi rossi quando vide tutti piangere capì che gli volevano bene e guarì dalla maledizione e promise ai lupetti che la maledizione non sarebbe mai più tornata e divenne il lupo più bravo di tutti».

Katia si riconobbe nella descrizione del lupo: «Io ti faccio paura?» chiese al figlio.

«Alcune volte».

«E ti faccio piangere?».

«Certe volte, mamma… mamma, ma secondo te esiste Dio?» le chiese Manuel.

«Certe volte penso di sì, certe volte penso di no».

«Mamma, sai, io non voglio essere Dio, è noioso essere Dio, Dio si annoia» affermò il bambino.

 

Capitolo 12

 

Katia guardava il telegiornale seduta ad una sedia.

L’ennesimo caso d’infanticidio…

La notizia la turbò particolarmente.

Spense il televisore.

«Perché l’ha fatto?» chiese Katia rivolta alla fiamma del camino.

«Vieni con me» le rispose lui.

A Katia sembrò di essere ingoiata dall’inferno dantesco, di ripercorrere l’intera struttura conica fino al fondo.

Silenzio.

Tutto intorno a lei le sembrò appeso, i colori erano parole mute sospese in un’immobilità eterna.

«Dove siamo?» chiese Katia.

«Nella Geenna destinata ai crimini materni» rispose lui.

Katia vide lo spettro di una madre avvicinarsi a loro e parlarle:

Perché l’ho fatto?

E voi davvero credete che con quattro parole in tre secondi io possa farvi anche lontanamente intuire il senso profondo del perché?

Io farei accomodare ognuno di voi qui, su questa sedia, gli farei indossare questi miei stracci

e gli spalancherei la bocca e via, giù, dentro, lo ingozzerei dei miei pensieri…

Dovrebbe divorarli, berli ad uno ad uno tutti i miei pensieri…

Senti quest’odore che ti si impasta addosso?

Annusa bene, è il lezzo di un manicomio.

Sii educato, saluta gli invitati: «Benvenuti, questo è un manicomio».

Questo è il mio letto, e questo è il letto accanto al mio

Non c’è nessun letto accanto al tuo, mi diceva mio marito, vedi? È uno specchio

Sapete cosa c’era nel letto accanto al mio?

Una cosa, una rosa, un’accozzaglia d’ossa con lembi pendenti di pelle.

Sulla cartella clinica c’era scritto: Disturbo funzionale della personalità.

Ripeto, disturbo funzionale della personalità, con tanto di sdoppiamento.

Che significa?

Niente, non significa niente.

È solo un modo per voi di catalogare, definire, cristallizzare per non temere quel che vi è ignoto…

Come se i pensieri si potessero definire, racchiudere o fermare!

Illusi!

Tu… proprio tu… hai mai provato a non pensare, a svuotare completamente la tua mente da qualsiasi pensiero e a trovarti innanzi, quasi a toccarlo, il Nulla?

Non puoi, penseresti sempre che non stai pensando.

La tua volontà non ha potere sulla tua mente.

È come essere prigioniero in un palazzo di vetri e tu lì, che ti affanni a chiudere tutte le finestre, sono decine, centinaia, migliaia…

Non farai in tempo a chiuderle tutte che, da una di esse, sarà già entrato, sarà lì con te… sarai tu, il tuo pensiero.

A me è successo… pensavo ad un vecchio storpio senza un occhio e me lo trovavo con le mani addosso…

Pensavo ad uno psicologo tirchio di complimenti e misantropo e costui iniziava a perseguitarmi con le sue idiozie su un certo Edipo, sarà stato il padre o il nonno, non ho capito bene.

Oppure un delinquente con una lama d’acciaio immanicata, tagliente, con la punta acuminata… c’era solo da scappare… correre, correre, presto… nascondersi, qui, qui, mi sembra un buon posto.

Pensate a come mi ero ridotta e vi comparirò innanzi: seduta di fronte al televisore spento, non potevo certo guardare il telegiornale.

La mia casa era diventata un bordello, migliaia di pensieri che danzavano, si ubriacavano, mangiavano, in ogni stanza un amplesso.

Sono stati loro a concepirlo, non io, quello non era figlio mio, era figlio di quelle creature abominevoli che volevano una vita, la mia vita.

Per questo l’ho fatto.

L’ho soppresso.

Non potevo certo lasciare che quella creatura crescesse… Mi stava divorando… con quella boccuccia calda mi ha mangiato un seno…

Mentre dormiva nella culla…

Soffriva d’asma…

Gli ho poggiato lentamente un cuscino sul volto…

E poi… Silenzio.

 

Capitolo 13

 

Katia era seduta nella sala d’attesa di un centro di salute mentale. Era pieno di gente.

“Quanti matti!” pensò.

Si era lasciata convincere dalla madre e aveva deciso di rivolgersi ad uno psichiatra.

Aspettava.

Non che avesse molto da dire ad un medico.

Lei era sana, anzi più che sana, lei era semplicemente geniale e gli altri non la potevano capire.

Che ne sapeva un medico di arte?

Di recitazione, di teatro.

Che ne sapeva un medico di Dio?

Aspettava.

Non un movimento, non una parola da più di un’ora.

Il suo corpo aveva assunto le sembianze di un sasso.

Un tizio la fissava.

Non un movimento, non una parola, non un respiro.

Solo lo sguardo. Quello sì, era vivo.

Il tizio aveva incrociato quegli occhi ed era scappato, si era allontanato.

Occhi neri che spiccavano da un viso marmoreo…

Aspettava.

Era sicura, sarebbe arrivato prima o poi.

Era lui ogni volta a portarle le parole, le frasi, le storie.

Non un movimento, non una parola.

Aspettava.

Era lì.

Lo aveva visto nascondersi in un quadro, il suono l’aveva tradito.

Le ronzava intorno alzando piccoli mulinelli di polvere che abbandonava all’improvviso lasciandoli ricadere sul pavimento.

Le aveva sfiorato persino una guancia.

Non erano storie come le altre quelle che lui le narrava.

Non avevano né un inizio, né una fine. Erano sospese.

Erano il soffio di anime sospese.

«Quale storia mi porti oggi?» chiese Katia al vento.

«La tua, bambina mia» rispose il vento.

«La mia?».

«La pazzia, la pazzia, che cos’è la pazzia?» urlò all’improvviso il tizio che l’aveva fissata.

Katia sobbalzò, distratta in modo spiacevole dal corso del suo pensiero. Tre uomini discutevano animosamente davanti a lei.

«La pazzia è il male che ti prende alla testa» rispose il secondo.

«A te ti prende brutta in testa, a me mi prende al cuore» rispose il terzo.

«È amore, è amore».

«O alla testa o al cuore, sempre pazzia è».

«Andiamo da Natuzza».

«Andiamo da Ellas».

«E chi è?».

«Il mago che con tre milioni ti toglie la fattura».

«La fattura?».

«Il malocchio, ignorante».

«Io non ci credo al malocchio ma le corna le faccio lo stesso ché il malocchio coglie pure chi non ci crede».

«Oggi mi sento un po’ bene e un po’ male, mi sento a metà».

«Ti devi unire, bello mio, se vuoi guarire».

«Lo vedi a quello… quello là… ogni volta che lo vedo mi sale il sangue alla testa che lo vorrei prendere a legnate».

«Perché? Che t’ha fatto?».

«Mi ha rubato la moglie, mi ha preso i soldi e mi ha rovinato».

«Ma se tu non sei mai stato sposato e non hai mai avuto una lira in vita tua!».

«Colpa sua, sempre colpa di quello là».

«Ma lo conosci?».

«No, lo vedo sempre qua».

«Andiamo da Natuzza».

«Andiamo da Ellas».

«Ancora con il mago!».

«Andiamo dal medico».

«E il medico allora? Ti fa solo un bordello di parole, ti riempie di medicine che ti stordiscono una giornata intera e ti fanno passare pure la voglia di andare a donne».

«Io quando vado a femmine penso sempre a mia madre».

«Se ti sente il medico, ti dice che hai l’Edipo».

«L’edi che?».

«Mia mamma invece dice che a femmine non devo andare».

«E certo che te lo dico» intervenne a quel punto la madre «Dove devi andare? A rovinare qualche brava figliola di mamma? Ti stai bravo bravo a casa tua ché a te ci penso io… che non ti venga qualche fantasia per la testa che porti guerra in casa… che come stiamo, stiamo bene, siamo nella pace degli angeli».

«Avete ragione Signora, l’acqua chiara viene sempre a galla».

«Andiamo da Natuzza».

«Andiamo da Ellas».

«Aspettiamo il medico».

«Che fai? Non parli? Hai perso la lingua?».

«Tu non sei quello che legge Platone?».

«Vediamo se lo sai: che cos’è la pazzia?».

«La pazzia è un problema serio, è un problema politico».

«Politico? Puah!».

« È una cosa aleatoria… come vi posso spiegare? Mi viene in mente una bella metafora: lo stato è una bella carrozza con due cavalli, uno nero e l’altro bianco, con le ali e con gli occhi giganti… se gli accechi gli occhi, secondo te, dove va a sbattere questa carrozza? La pazzia è quando si spegne la lampadina».

«Hai finito? Accendiamo un lumino».

«È un problema di coscienza».

«A me sembra che quello che ti manca è proprio la coscienza».

«Pure mia mamma me lo dice».

«E certo che te lo dico» rispose la madre «ti sei nascosto quando Dio la distribuiva».

«Ho letto qualcosa a proposito».

«Cosa?».

«Un certo Freud… parlava d’incoscienti».

«E che diceva?».

«Che son tutti delinquenti!».

«La pazzia è un problema serio, di costumi e società».

«Scostumati e asociali».

«Di etica e morale».

«Etichetta e amorale».

«La pazzia è donna! Secondo voi qual è il ruolo sociale che la donna dovrebbe avere in questo mondo?».

«Te lo dico io: la donna deve stare a casa a cucinare e crescere figlioli».

«A proposito di donne, ma perché tutte le donne in questo centro di salute mentale sono befane?».

«Guarda a quella».

«Pare una Madonna».

«E quella là? Quanti gioielli ha al collo?».

«Andiamo da Natuzza».

«Andiamo da Ellas».

«Aspettiamo il medico».

 

Katia era sul punto di andarsene.

La gente la fissava.

Voleva piangere.

Improvvisamente un signore si alzò e le si sedette accanto.

«Signora, posso leggerle una poesia?» disse.

«Certo» rispose Katia.

L’uomo srotolò un foglio che teneva in mano.

«Sa, a me piace Tommaso Campanella… chissà? Forse un giorno… la città del Sole…» ed iniziò a leggere:

Placida scorre la notte

Sotto lo sguardo materno della Luna

Che incanta silenziosa

L’etichetta di ogni cosa.

Brilla al Sole

Il senso comune

Che scandisce e attua l’azione.

È nella loro collisione

Che con ali da mercante

S’innalza un’anima

In cerca di ragioni

Scambia la consunta merce

Di ordinari valori

Con logiche divine

Di un viaggio dal drammatico ritorno.

Visita civiltà

Che costruiscono piramidi

Per creare un nuovo Sole

Scorre nel tempo la sua mente

In cerca di probabili possibili

Universi neonati

Dove gli elementi

Ancora mescolandosi

Danzano per la Forma.

Stringe forte al suo seno

La Morale

Che esaspera la rabbia

Che intenerisce il cuore

Incrociando

La lama lucente

Dello sguardo di Bambini

Che conoscono la violenza

Di questo mondo.

E come un profeta

Nel deserto

Svende le sue allucinazioni

Che s’infrangono contro

il muro

di chi non accetta discussione.

 

«È molto bella» disse Katia all’uomo.

«Questa notte Gesù mi è apparso» continuò l’uomo.

«Io bussavo disperatamente ad una porta sbarrata.

Quante porte abbiamo nei nostri cuori che si aprono e si chiudono, accolgono o escludono.

E ne custodiamo gelosamente la chiave.

Per me quella porta era sbarrata.

Ed io bussavo, bussavo ma senza risposta.

E Gesù mi è apparso.

“Vieni” mi ha detto Gesù “io sono la porta che introduce al mistero del Padre e della vita eterna”.

E squarciando il velo di una falsa morale,

di un accanito arrivismo,

ma soprattutto di vuoti formalismi

e misere etichette,

Gesù mi ha offerto una lacrima forse… ma sincera… un sorriso forse… ma sincero.

E mi ha invitato a sedere alla sua tavola, a mangiare il suo pane, a bere il suo vino.

“Non son degno, mio Signore… io, io, misero che non distinguo più il vero, prigioniero dell’anima mia, il Nulla vado contemplando, per terre desolate vado vagando… Io, mio Signore, ho smarrito me stesso… Chi sono? Non lo so. Sarei potuto essere un ragioniere o forse un banchiere, un medico o un frate, un ladro o un carcerato… qualcuno e invece non sono nessuno, carnefice di me stesso, sono una vittima che non può neanche chiedere la grazia, perché io non porto la croce, mio Signore, io sono la croce.

“Piangi con me per i peccati di questo mondo” mi ha chiesto Gesù.

Ed io ho pianto.

Ho attinto il pane che mi ha passato nel vino e nel calice cadevano le mie lacrime.

Ho pianto per la pedofilia di questo mondo che miete come vittime bambini

Ho pianto per la mafia che attanaglia

per la guerra che imperversa

per la politica corrotta

per la fame degli innocenti.

Ho pianto per la malattia che non lascia scampo.

Ho pianto.

Io sono pazzo e a queste cose vado sempre pensando, se le dico non s’intende, che c’entro io con la fame nel mondo?

Ne cerco ancora il senso».

 

L’uomo si alzò ed iniziò a camminare nell’atrio fissando il soffitto.

Cercava quel senso, pensò Katia.

Lei avrebbe potuto spiegarglielo!

Era sempre lui apparso a quell’uomo come Gesù!

Le persone continuavano a fissarla.

Ora sembrava che facessero a gara per parlarle, avendo visto la sua disponibilità ad ascoltare.

Un ragazzo le si parò innanzi con un telefonino in mano.

 

«Questo è un telefonino» le disse.

«Lo sanno tutti cos’è un telefonino? No?

Serve principalmente per le telefonate urgenti, richieste d’aiuto, per affetti lontani o spenti o in via d’estinzione.

Poi noi lo usiamo per farci i fighi e delle sane chiacchierate e magari pure un po’ di pettegolezzi che male non fanno e paghiamo un botto… per non parlare poi delle suonerie, che spasso giocare con le suonerie!

Il telefonino è proprio una cosa importante: è come l’arte!

Almeno come intendo io l’arte!

Il telefonino è l’arte: l’arte che fa? Non chiede aiuto? Non squilla agli affetti lontani o spenti o in via d’estinzione?

Quanti stronzi poi si fanno i fighi spacciandosi per artisti.

Ma torniamo al telefonino.

Il telefonino ha la “cover”… ecco questa… belle le cover… ce ne sono di tutti i tipi, colori e formato…

La mia idea ora è questa: perché non mettiamo le cover ai palazzi?

Ognuno si sceglie una cover da mettere sulla facciata di casa sua ed io gliela realizzo…

Certo, ci sarebbero evidenti problemi di trasporto di una cover grande quanto una casa, ma pensa al risultato! Una città dove ogni casa ha la sua cover…

Bellissima.

Io l’ho vista!

Ho camminato anche per le strade di questa città… non proprio io, me stesso dal futuro, io ci parlo con me stesso dal futuro.

Il mio psichiatra dice che è una psicosi, la mia psicologa dice che ho paura della morte e sono depresso e mi proietto nel futuro.

Invece io dico che è vero.

Io mi sono visto: me stesso dal futuro.

Quindi so che vivrò, so che nel futuro ci sarò e che le cover ai palazzi ce le metterò.

Ed è vero.

Nessuno mi ascolta quando lo racconto… nessuno mi ascolta… nessuno mi ascolta… nessuno vuole sognare con me.

Eccolo! L’hai visto?

Ero io, era me stesso dal futuro! Si muove alla velocità della luce!

Ti saluto, lo seguo. Chissà quale città mi farà visitare stasera.

Addio».

 

«Geniale» disse Katia. «Anch’io voglio conoscere me stessa dal futuro».

 

Capitolo 14

 

Era un caso difficilissimo.

Rifiutava la terapia farmacologica.

Era incinta all’ottavo mese.

Il marito era sparito, non riuscivano a rintracciarlo, si sarebbe dovuto denunciarlo per abbandono morale e materiale della moglie e del figlio.

«È maschio o femmina?» chiese il dottore a Katia.

«È una bambina… io ci parlo…».

«Che lavoro fa?».

«Sono un’attrice» rispose Katia.

«Si? Come lavoro fa l’attrice? E la pagano? Chi la paga?… qui c’è scritto che è una casalinga» disse il dottore studiando la reazione.

«Lei non può capire».

«Provi a farmi capire».

E Katia gli parlò dei suoi personaggi, di come li costruiva, di come l’indossava, di come li agiva, delle storie meravigliose che lei viveva, che le accadevano nei confini pur ristretti delle mura domestiche, e soprattutto gli parlò di lui, del suo regista che la guidava parlandole dal fuoco o dal cielo o da un quadro… di lui che l’amava ma era crudele; lui esisteva, non sempre, a volte era lei…

«Io non recito i miei personaggi, io sono i miei personaggi» disse infine Katia.

«I suoi personaggi prendono il sopravvento su di lei?» chiese il dottore.

«Qualche volta vogliono parlare, urlare e dire quel che pare loro… entro ed esco dalla coscienza… lo so che un attore che fa questo, che perde la cognizione della finzione, non è degno di essere chiamato attore: è un catatonico, un autistico, preso da un’overdose di sensazioni che il personaggio dà a lui, non comunica niente proprio niente…».

«Mi preoccupa solo che lei così si allontana dalla realtà».

«E che piacere c’è nel recitare a memoria un copione, magari cambiando tono ed espressione, ripetere come un ritornello una parte… no, no, più bello è per me essere il personaggio».

«Mi sembra di notare che lei abbia una distorta percezione dello spazio e del tempo».

«Io? Sono gli altri che non riescono a pensare secondo il mio sistema di riferimento, nel contesto in cui io penso, secondo i miei parametri spazio-temporali».

«E quale sarebbe questo contesto?».

«Lo spazio tempo quadridimensionale di cui parla Stephen Hawking nella sua teoria quantistica della gravità, l’infinitamente grande unito all’infinitamente piccolo».

«S’intende anche di fisica?».

«No, conosci te stesso… e l’intero universo, ricco, infinito, doloroso, lo senti confluire in te… Penso solo che i modelli che i fisici usano per rappresentare l’universo vadano applicati alla mente umana, appunto, l’infinitamente grande unito all’infinitamente piccolo».

«Hawking ha rinnegato le sue teorie».

«Per me sono valide, io viaggio nel tempo, mi capita che il tempo per me vada a ritroso».

«E dove accade questo?».

«Qui, in questo punto».

«Ma è un tempo immaginario».

«Il tempo immaginario in fisica corrisponde ad un evento reale, alla somma di tutte le “storie” che gravitano intorno al mio io».

Un delirio lucido. Pensò il dottore.

«Mi ascolti» le disse infine «anch’io sono un artista, un musicista oltre ad essere uno psichiatra, se lei vuole affrontiamo quest’ultimo mese di gravidanza e il parto facendoci aiutare dalla musica, le proporrei subito delle sedute di musicoterapia olofonica, l’aiuteranno a rilassarsi e farà bene alla bambina».

Katia amava la musica.

Ecco, si disse osservandolo, aveva trovato un regista in carne e ossa con cui costruire un nuovo personaggio: Armonia.

 

Capitolo 15

 

Il dottore era stanco.

Si preparò per andare a letto.

Aveva pensato fino allo spasimo alla patologia di Katia.

“Questa donna vede la realtà come rappresentazione dell’inconscio di Dio”.

Era bella.

Lui, lui e lui…

L’aveva ossessionato con questo lui.

Si coricò e subito si addormentò.

Si trovava in una cucina.

C’erano riviste e libri accatastati e tante scale piccole e grandi.

Sul tavolo c’era un grande pendolo ad acqua.

C’era un tizio legato ad una sedia da centinaia di fili colorati.

Il dottore lo riconobbe: era lui.

Gli si avvicinò e lui gli parlò.

 

Lui:

Chi sei?

Hai bussato? Non mi pare…

Hai spalancato la porta e con passo deciso sei entrato.

Fermo!

Non ti muovere!

Ecco, così, bravo, gesti lenti e ben misurati: nell’apparente caos che qui governa c’è un ordine.

Basta un nonnulla per rompere qualcosa, che so? Una piastrella… uno sportello…

Strano, no? In uno spazio così angusto si tessono le fila dell’intero universo creato.

Tra un po’ cambieranno le configurazioni astrali e questo posto si stravolgerà: potresti vedere la credenza a testa in giù.

È una calma apparente questa.

Qui, di solito, tutto si muove. Questo fermo immagine è dovuto alla tua presenza… qui è veramente difficile che vi approdi qualcuno… sai, la solitudine, brutta bestia…

Ma dimmi un po’: Lei dov’è?

Ha mandato te?

Tu chi sei?

Un altro padre?

Un’altra madre?

Un ermafrodito?

Un altro figlio?

Illegittimo o d’arte?

Un altro nonno?

Bisnonno?

Amico?

Compagno?

Siete amanti?

Da quando?

Vi siete sposati?

Matrimonio d’amore?

Illuso, sei solo il mio sostituto! Ecco, bravo, fammi d’assistente.

Io la conosco bene… ti sta usando… manda avanti te, vedi? non sembra un angelo?

Ti ha raccontato di quando abbiamo dato fuoco ai libri di Freud?

Che fiamme, Signori!

Arde bene Freud, sai?

E di quando siamo approdati nel ’700 e abbiamo preso parte alla Rivoluzione francese?

Che strage!

Parola mia, questo posto l’abbiamo ripulito da cima a fondo!

Chi sono io?

Io sono il suo Dio.

Strano che un Dio sia finito in catene?

Non ti biasimo è il tuo mestiere: se curate lei legate me!

Non mi riconosci?

Mi rodo il fegato per aver illuminato

opaco lo sguardo di lei

Intravede ma non vede

e scioglie in un inutile pianto

quel fuoco

che saprebbe sciogliere

misero l’incanto!

Non avresti una forbice per caso?

Va be’, come non detto, lascia perdere. E uno specchio? Ce l’hai uno specchio?

Bello, non ti pare?

È un pendolo… funziona ad acqua…

Fermo!

Non lo toccare!

È il mio orologio biologico.

Segna il tempo come evento.

Segna te in quest’istante: sei tu l’evento.

Quando c’è lei, è tutta un’altra storia. Lei… lei ha uno strano effetto sul pendolo. L’acqua si ghiaccia e il tempo si ferma, mi slega e riusciamo ad uscire da questa cucina e a spostarci nel salotto o nella camera da letto o, meglio, liberi usciamo da casa e corriamo sull’ermo colle dove leggiamo lo Zibaldone di pensieri del Gobbo.

Ecco, bravo, prendi pure una rivista o un libro.

Attento!

Stavi per far cadere la catasta!

Che fai?

La spolveri?

Sai quanta roba c’è in ogni granello di polvere?

Quella è la mia vita, amico, maneggiala con cura per favore!

Fa vedere che hai preso?

Guarda un po’, tra tante cose sei andato a pescare proprio uno degli articoli che descrive il mio TSO: trattamento sanitario obbligatorio… Ah, la conosco questa giornalista, patetico il suo punto di vista… visto come mi hanno legato per benino?

Sono un recidivo.

Da qualche parte dovrei avere pure qualche foto…

Se mi liberi una mano te le prendo…

Non ti fidi?

Fai bene.

D’accordo le foto te le mostro qualche altra volta… uno spasso comunque… io correvo intorno al tavolo mentre quattro infermieri mi rincorrevano con la siringa pronta in mano!

Tanto prima o poi queste funi si seccheranno e come rami si spezzeranno…

Non avresti una forbice nel frattempo?

 

Il dottore si svegliò ridendo.

“Dio è un pazzo legato” si disse “E viene da me per essere liberato!”.

Si riaddormentò subito e riprese a sognare.

Si trovava in uno sterminato deserto con Katia. Lei indossava i panni di Antigone. Lui quelli di Virgilio. C’erano tante porte sospese in aria tra cielo e sabbia:

 

Dottore: «Bene, rimbocchiamoci le maniche!».

Katia: «Quale apriamo?».

«La testa è la tua, non vorrai che decida io?».

«Sì, ma il metodo lo conosci tu, non io, avrai un metodo… Hai un metodo vero?…o si procede per intuizione? Lampi geniali… e se poi non piove?».

«Si chiama empatia, ignorante… e tieni bene il tempo».

«E come faccio? È sincopato!».

«Per forza con tutte quelle cadute! Non hai fatto altro che inciampare per tutta la strada».

«Apri tu?… che poi… scusa… non eravamo qui per chiuderle?».

«Aprendole le chiudiamo».

«Qui c’è l’imbarazzo della scelta, da dove iniziamo?».

«Mh … e tu così te la rappresenti? Con tutte queste porte? Suddivisa in locali? Banale».

«Se vuoi la smonto! È solo una scenografia… la faccio a pezzi se non ti piace e ne costruisco un’altra in un batter d’occhio! E la tua com’è?».

«Ogni nota è al suo posto sul pentagramma».

«In che chiave?».

«Inglese».

«Bell’idea! Così non ti sbulloni… Mh… ti manca comunque una coordinata».

«In che senso?».

«Se non sbaglio, ci sono cinque linee sul pentagramma, quindi ipotizzo tre temporali: passato, presente e futuro e due spaziali. Te ne manca una. Dove stai con la capoccia?».

«Vivo alla giornata».

«Fuori dal tempo o dallo spazio?».

«Gioco con il significante e recupero sempre la coordinata mancante!».

«E funziona?».

«A meraviglia!… Mi hai fatto indossare i panni di Virgilio… mi sento ridicolo».

«È pur sempre un mito».

«Mh… chissà?Forse siamo finiti in un archetipo. Ma Antigone che ne sapeva di coordinate spazio-temporali?».

«I miei file sono aggiornati… Sai, ti voglio indossare».

«Perché? Ti piacciono i miei paesaggi bucolici?».

«Per imparare a suonare».

«Quale strumento?».

«Le parole…».

« È passato questo?».

«Non lo so mi fa ancora male».

«Apriamo».

«No».

«Sì».

«No».

«E no».

«E aprila».

«Dammi la chiave».

«Non ce l’ho».

«Dove l’hai messa?».

«Non me lo ricordo».

«Bussiamo».

Il dottore bussa alla porta. Si sente un’onda violentissima infrangersi.

«Hai sentito? Non lo vorrai mica allagare questo posto».

«Ma che ci sta dentro?».

«Pedofilia».

«E poi?».

«Guerre».

«Poi?».

«Terrorismo».

«Poi…».

«Il vaticano».

«Un manicomio?».

«Lo uso come cestino».

«E quand’è pieno?».

«Trabocca».

«Non se ne esce?».

« È in costruzione da secoli una galleria».

«E dove sbocca?».

«Non ne ho la più pallida idea…bisogna seguire un cartello».

«E che dice?».

«Libertà, uguaglianza e fraternità».

«E questa perché è sprangata?».

«Ci sta un tizio che vorrebbe risolvere tutti i problemi dell’umano creato. Non ti ricordi? Te l’ho pure presentato…».

«Ma quando?».

«Quello legato alla sedia».

«Ma chi?».

«Il maniaco. Per l’occasione l’ho pure imbavagliato».

«Apriamo questa. Guarda un po’! L’Africa! Ci sei stata?».

«In sogno e aspettavo gli elefanti bianchi».

«E ballavi?».

«Come un’indemoniata con un uomo mascherato».

«Uno stregone».

«Ero abbagliata dai colori dell’uomo mascherato».

«E poi?».

«L’ho visto in faccia».

«Capisco… Deve essere stata una lunga attesa».

«Giravo in tondo e non sono sicura di non star girando ancora. Non se ne esce».

«Guarda! Una cometa… E questa?».

«Questa è una stanza speciale, è della mia bambina».

«Quale? Quella simbolica o reale?».

«Entrambe».

«L’apriamo?».

«Più tardi».

«Sssh… Senti?».

«Ci sono dei lavori in corso al piano superiore».

«Stanno imbiancando?».

«C’è qualcosa da cancellare… Mi fanno eco i miei canti… un ricordo avanza… il cuore di una madre piange».

Cade un mappamondo in testa a Katia.

«Che roba è?».

«Mi è caduto il mondo addosso».

«Rialzalo».

«Non può più gravitare».

«Come pensi di rimediare?».

«Dipingerò tutto di rosso».

«Di rosso? Perché di rosso?».

«Tutto… tutto di rosso… perché non sia più il colore dell’alba e del tramonto ma dell’amore che fa muovere il Sole».

 

Capitolo 16

 

Katia aveva visto al centro di salute mentale un uomo accompagnato dai carabinieri ammanettato.

Lo aveva osservato a lungo, chiedendosi quale fosse la sua storia, cercando d’immaginare la sua vita, e perché lo tenessero ammanettato.

Katia si addormentò con questi pensieri e sognò quell’uomo:

 

Potrebbero almeno togliermi le manette… guarda che lividi che mi hanno lasciato sui polsi.

Ho chiesto a questi poliziotti che mi stanno piantonati accanto che diavolo ci faccio io qui.

Non mi rispondono. Guardano fisso in avanti e un tizio mi rimprovera sbattendo il martelletto sul bancone: «Silenzio».

Io non ci capisco più niente.

Forse quello con il martelletto è San Pietro.

Io so solo che stavo lavorando al cantiere come al solito.

Che caldo che faceva… e poi quel maledetto rumore della carrucola… eppure l’avevo frizionata il giorno prima con olio…

Ci sono dei suoni che non posso sopportare: mi penetrano nelle orecchie, mi rompono i timpani e si spacca in due parti il cervello e il sangue che esce mi acceca.

È un dolore atroce, bisogna scuotersi come un puledro indemoniato per liberarsene.

È per questo che avevo deciso quel giorno di fermare a tutti i costi quella carrucola. Gli altri hanno cercato d’impedirmelo… inutile… peggio per loro… devo essere svenuto però dopo. Un colpo di sole sicuramente, perché, vi giuro, c’era un sole che spaccava le pietre quel giorno.

Mi sono svegliato in una stanza con le sbarre. E adesso mi hanno portato in quest’altra stanza piena di gente. Ci stanno certi tizi che sembrano vestiti per carnevale.

“La Legge è uguale per tutti” c’è scritto sul capo di quel babbuino che mi rimprovera continuamente.

E no, smettila con quel martelletto che vengo lì e te lo spacco in testa.

E poi ci sta un corvaccio vestito di nero che spiffera i fatti miei. Sentiamo, sentiamo che dice:

«Giorno… l’imputato… mentre svolgeva il suo lavoro di muratore presso… ha barbaramente assassinato un suo collega… gettando dall’alto del montacarichi dei mattoni in testa alla vittima…».

IO? Ma questo è pazzo.

Veramente i mattoni li hanno gettati in testa a me… non adesso, tanti anni fa… quand’ero bambino.

Io lavoravo con mio padre da cui ho imparato a fare il muratore… beh allora non è che lo facessi proprio bene… ecco un giorno si è incazzato e mi ha preso a mattonate… una fesseria… ma perché questo corvaccio racconta proprio adesso questa storia?E non sa nemmeno come sono andati i fatti…

«La vittima è stata colpita in piena testa e nonostante fosse già a terra sanguinante, l’imputato ridendo, ripeto, ridendo, ha continuato a scagliare mattoni dall’alto impedendo che si potesse soccorrere la vittima forse ancora viva. Questo dimostra la volontà omicida dell’imputato. Un assassinio, Signori, che dimostreremo premeditato…».

Adesso vorrebbero farmi credere che mio padre voleva ammazzarmi? Ma no… sì… è vero… rideva… comunque non mi prese in testa. E poi io, la cosiddetta vittima, non sono morto, mi ha beccato sulla spalla, infatti è rimasta storta… è vero: rideva ed ha continuato con quella pioggia di mattoni ma io mi sono trascinato via… e lui, lui rideva e… e quella carrucola… quel rumore…

Non mi hanno creduto.

Ho cercato di spiegare quella faccenda del rumore ma hanno riso.

Alla fine mi hanno tirato per il colletto e costretto ad alzarmi.

Quel babbuino con il martelletto ha sentenziato qualcosa in tono profetico… faceva paura… avevo la sensazione che San Pietro mi stesse condannando alla buca dell’inferno.

Niente di tutto questo.

Mi hanno portato in un’altra stanza con le sbarre, un po’ più piccola della prima, ma pensate: tutta mia, con un letto tutto mio e mi danno anche da mangiare.

Ogni tanto mi fanno uscire con altra gente in un cortile dove camminiamo tutti in fila, uno dietro l’altro… ci fanno fare dei lavoretti, per il cibo penso, ma sono lavoretti da niente, quelli che si lamentano non hanno fatto i muratori con mio padre.

L’unica cosa che mi turba un po’ è questo lavandino. Ve l’ho già detto, ci sono dei rumori che non sopporto.

Questo maledetto rubinetto perde acqua.

Di solito l’acqua non c’è. Solo a notte inoltrata arriva.

Arrivano le prime gocce e una dopo l’altra le sento raccogliersi, formarsi e clict lasciarsi cadere e glub, glub scendere lungo il lavandino.

Questa notte ho strappato una striscia di questa bella tuta che mi hanno dato, mi dispiace, ma così ho avvolto il rubinetto e la stoffa assorbe le gocce prima che cadano.

Maledizione! Lo sapevo. Il tempo di prendere sonno e la stoffa è già zuppa e le gocce “clict, clict… glub, glub” ricadono nel lavandino. Ho strappato un’altra striscia. Speriamo bene.

 

Mi sono svegliato ammanettato e sotto le manganellate di quei bastardi.

Non capisco perché mi odino a tal punto.

Un tizio nella stanza con le sbarre accanto alla mia mi ha chiesto se sto cercando di fare il pazzo.

«In che senso?» gli ho chiesto.

«Non fare il tonto con me, è chiaro: così ti dichiarano infermo mentale e pensi di andartene da qui».

«Io sto bene qui».

«Allora sei matto davvero».

Poi mi ha detto che ci sono volute quattro guardie per tenermi calmo. Dice che avrei iniziato ad urlare con una voce da donna e con le mie mani mi strozzavo.

Quando sono arrivate le guardie mi sarei nascosto sotto il lavandino rifiutandomi d’uscire.

Io non ricordo nulla.

Ho dormito.

Ho pure sognato, figuriamoci se è vero quel che dice ’sto ruffiano.

Ricordo pure il sogno.

Ero bambino. Eravamo a tavola io e mia madre nella nostra casa. Questa era un misero garage, un’unica stanza con un tavolo, i letti ed una tenda bucata che circondava il cesso.

C’era pure un lavandino con sotto uno spazio vuoto.

Mia madre aveva il pancione. Lei aveva sempre il pancione ma non è arrivato mai nessun fratellino o sorellina tanto che penso di aver fatto un po’ di confusione tra mesi ed anni per cui una gravidanza dura nove anni e non nove mesi come avevo capito male io.

Mangiavamo seduti al tavolo un pezzo di pane ammuffito. Io non lo volevo mangiare e piangevo. Ad un certo punto avevamo sentito i passi di mio padre che arrivava. Mia madre mi nascose, come al solito, sotto il lavandino e mi ordinò di non uscire fino a quando non fosse venuta lei a tirarmi fuori. Io al buio, lì dentro, che potevo fare? Contavo le gocce che cadevano sopra la mia testa nel lavandino, mentre le urla di mio padre e i pianti di mia madre mi facevano perdere il conto ogni tanto…

Ne contai 10.581. Mia madre ancora non era venuta a tirarmi fuori.

Venne mio padre.

 

Dei dottori sono venuti a parlare con me e mi hanno portato via dalla mia stanza con le sbarre.

In compenso ho un’altra stanza tutta bianca dove pure i muri sono morbidi.

Qui non c’è il lavandino… quindi niente maledetti rubinetti che perdono.

Stanotte penso che dormirò proprio bene.

Spero solo che mi levino questa strana camicia che mi fascia tutto, è stretta.

Ora mi sdraio e cerco di dormire.

Sapete, stavo pensando una cosa. Quando mi nascondevo sotto il lavandino, è vero che sentivo le urla, i pianti e le gocce d’acqua cadere ma qualcos’altro copriva tutti questi rumori, un suono più vicino a me di tutto il resto, una melodia che ora, non appena taccio, è di nuovo qui, accollata alla mia stessa esistenza, irregolare. È il mio respiro.

E adesso come me ne libero?

 

Capitolo 17

 

«Potente questo transfert» disse Katia al dottore.

«Che ne sa lei del transfert?» le chiese lui.

«Ho letto qualcosa» rispose Katia. «Lei è Edipo».

«Edipo?».

«Visto che non ha protestato quando l’ho vestito da Virgilio, ho osato anche l’incesto» sorrise Katia.

Il dottore era imbarazzato: «Tu stai facendo teatro».

«Io? Non io, voi… voi siete il mito che si ripete ogni istante all’infinito».

«Noi chi? Quale mito?» chiese il dottore.

«Edipo!!!».

«E che cos’è?».

«Il mio strumento!» affermò Katia.

«E come lo suoni?».

«Speravo che me lo spiegasse uno psichiatra!».

«E che cosa vuole Katia?».

«Che il teatro sia immanente, vivo e reale, che “accada”. Cerco da sempre la fantasia nella realtà».

«Come?».

«L’amore!».

«Sei innamorata?».

«Sono sempre innamorata!».

«Di chi?».

«Di te! Di Edipo!».

«È il transfert».

«Lo so. Voi lo usate per curare. Io per recitare!».

«Come?».

«Regala emozioni che in tutto e per tutto somigliano a quelle reali, ma la coscienza che è una finzione mi permette di assegnarvi a mio piacimento tanti ruoli e d’improvvisare insieme una storia. In questo modo il teatro lo vivo, lo recito e assisto semplicemente facendomi spettatrice di me stessa». Spiegò Katia.

«Così è sempre sola, prigioniera di una finzione» le disse il dottore.

Katia sospirò: «Le capita di percepire un’intima relazione tra le cose… strane coincidenze nel tempo, un tempo atavico eppure sempre presente sebbene non ci appartenga… una logica nella successione degli eventi che ci riporta ad un destino del singolo e del collettivo sempre incombente, un destino che se non sciolto si ripete, si ripete per sempre?».

«Una maledizione? Pensi di essere maledetta?» le chiese il dottore.

«Cerco risposte».

«Dove?».

«Nel tempo. Nella Storia.» Rispose Katia.

«La Storia! Chi sei oggi? Perché ti cambi sempre?» le chiese il dottore.

«Sono Maria, madre di Dio! Perché sono una donna a cui il mondo non ha ancora fatto capire niente su quale sia il suo ruolo sociale… ogni bambino è figlio di Dio e quindi facciamoci tutte Maria. Ma ecco che questa tunica mi va già stretta… non usate solo voi psichiatri le camicie di forza… mi spuntano le ali e comincio a volare, decapitando con i miei enigmi chi non mi lascia passare!».

«E funziona?».

«No, finisco sempre in manicomio. Una volta mi hanno anche bruciata, arsa viva sul rogo come strega».

 

Capitolo 18

 

Era notte.

Katia sentì il suo pancione indurirsi.

Era ora. Il terrore l’assalì.

«Emone, dove sei?» urlò.

«Tra un po’ stringerai tra le braccia la tua bambina» si sentì sussurrare da lui. «Questa la chiameremo Sofia».

Sofia.

Le piaceva.

Chissà com’era la sua bambina.

Tra un po’ l’avrebbe vista.

Si rilassò e respirò.

 

Era bellissima, la sua bambina…

Sofia, la saggezza.

Dormiva nella culla e Katia estasiata la osservava.

La vita, quella vera. Aveva dato la vita ad una creatura.

Respirava.

Le sue manine.

Piccole.

La bocca.

Un fiore.

Sarebbe cresciuta e sarebbe diventata una donna.

Si sarebbe innamorata.

No, lei no, la sua bambina non avrebbe sofferto.

Tutti le avrebbero fatto la corte!

Suo figlio l’aspettava a casa.

La vita.

Quella vera.

Non serviva costruire personaggi, non serviva scappare in universi paralleli… si disse Katia.

No, non più, aveva messo al mondo un’altra vita.

Katia non voleva nient’altro.

Non voleva più perdersi neanche un istante della vita dei suoi figli.

Sofia si svegliò.

Katia la prese in braccio e l’attaccò al seno, e si addormentò con la bambina tra le braccia.

Sognò:

 

Cosa mai facevano quei bambini?

Su e giù… sporchi e appiccicosi… andavano e tornavano… saccheggiavano dispense e ammassavano cosa?

Dolci?

Anche gelati… ma quelli li mangiavano subito… qualcuno l’aveva detto:

«Di gelato non si può fare… ci geliamo i piedini e con il sorgere del Sole ci sciogliamo e cadiamo tutti giù per terra»

«Ma quanti gradini dobbiamo ancora fare? uffa…» aveva chiesto stanco il più piccolo.

«Duecentocinquanta milioni…».

«Un miliardo di milioni…».

«Tre con tanti nove zeri…».

«E questo non lo mangiare, ingordo, dammelo».

«Ma io ho fame!».

«C’è il gelato».

«Io voglio la torta».

«Va bene ma solo una fetta».

«No, la voglio tutta».

«Pure io voglio la torta».

«Pure io…».

«Io pure…».

«Uffa… l’ho detto prima io».

«Va bene, ci dividiamo la torta… ma solo la torta: una fetta per uno».

«A me la più grande».

«Perché tu la più grande? Sei speciale tu?».

Procedevano i lavori e in cima ai dieci gradini (ben dieci gradini!) che i bambini avevano costruito arrivava ben poco… ben pochi dolci per costruire nel progetto iniziale una dolce scala… una dolce salita verso la Luna per issare un cartello che in cima ai dieci gradini due bambini tenevano in mano… e in attesa che qualche crostatina arrivasse anche in mano loro guerreggiavano…

«E ti dico che questa non la batte nessuno».

«Ma che lo zero?».

«Ma quale zero… scemo… la “O” non la batte nessuno… è tonda e gli scivola tutto addosso calci pugni e schiaffi…».

«Perché non c’è la “A”… guarda che se arriva a cavallo la “A” t’inforca pure la “O”… caro mio…».

La luna silenziosa guardava quei bambini uno per uno cedere al sonno ormai sazi… tanti soli sul loro personale gradino… qualcuno abbracciato all’altro: un fratello una sorella un amico un orsetto una fetta di torta…

Rincorrendosi alla luce del crepuscolo salivano guerreggiando alla Luna le lettere:

«Io sono qui e sono solo» diceva il cartello…

Un lieve venticello accarezzava il sonno dei bambini…

«Anch’io» rispondeva un’eco nel vento.

 

Capitolo 19

 

«…il marito l’ha lasciata».

«…ma è sua la figlia?».

«…pare che sia un po’ toccata».

«…toccata?».

«Pazza».

«O mio Dio, e quella povera creatura».

«Parla con il demonio».

 

Katia cullava la sua bambina incurante delle voci nei corridoi dell’ospedale, nel reparto di ginecologia in cui era ricoverata.

Sofia ebbe un rigurgito.

«Che succede?» disse Katia.

Improvvisamente Sofia sgranò gli occhi e rimase con la bocca spalancata.

Aveva una convulsione.

 

«Che le ha dato?» la dottoressa aggredì Katia.

«Ha allattato» disse Katia.

«Signora, ha dato qualcosa alla bambina? Risponda».

La stava accusando.

«Io non ho dato niente a Sofia» si difese Katia.

 

Tra i tanti accertamenti a cui sottoposero la sua bambina, venne fatta anche un’ecografia alla testa.

«Ecco, lo sapevo» disse la stessa dottoressa, come se stesse giocando agli enigma.

«Atrofia cerebrale» sentenziò.

Katia non capiva. Cosa voleva da lei e dalla sua bambina questa sfinge?

«Atrofia? Che significa? Cosa mi sta dicendo?».

«Sua figlia è cerebrolesa».

 

I viaggi della speranza.

Dalla Calabria a Milano.

«Suo marito ha conoscenze molto in alto» le diceva il primario.

«Quando ha saputo della bambina, ci ha fatto telefonare, pensi, dal Ministro della Sanità in persona».

«…suo marito sostiene che lei ha fatto uso di psicofarmaci durante la gravidanza, Signora, deve dircelo… queste cose accadono quando si assumono medicine…».

Katia era in uno stato di semicoscienza, aveva la febbre alta, sentiva le voci arrivarle dilatate, irreali.

Esplose.

«Mio marito non è mi stato accanto neanche un secondo durante la gravidanza di Sofia… ma lei ha la benché minima percezione di cosa posso aver passato? O mio Dio… Sofia ha sofferto… ha sofferto con me… è colpa mia… è colpa mia…».

Negli occhi di Katia brillavano delle lame. Guardò la dottoressa e le disse:

«Avete bisogno che vi telefoni il ministro per curare mia figlia?».

«E mio marito dov’è» gridò «Dov’è? Perché non è accanto alla figlia? Sa quanto importa a noi della telefonata del ministro? Io voglio sapere come guarirla, cosa devo fare? Che cura esiste? Esisterà una cura? Camminerà? Che vita avrà?».

«Signora, se ne deve fare una ragione» rispose la dottoressa.

 

 

Ed ora? Cosa doveva fare?

«… se ne deve fare una ragione».

«…se ne deve fare una ragione».

«…se ne deve fare una ragione».

«No, non era vero, si sbagliavano, Sofia era sana». Si ripeteva Katia.

«…lei non è in condizioni di curare nessuno» le disse qualcuno.

 

Capitolo 20

 

Katia non dormiva da tre mesi.

Teneva notte e giorno la sua bambina in braccio rifiutando di darla a chiunque.

Aveva paura che gliela rubassero.

Aveva paura che le volessero far del male.

Solo al padre la dava.

Il padre di Katia non vedeva la patologia di Sofia, vedeva la bambina, e con una tenerezza infinita si rivolgeva alla piccola e a Katia : «Qualsiasi problema lo affrontiamo insieme».

La madre invece sembrava muovere a Katia un tacito, lacerante rimprovero.

E Katia si sentiva colpevole.

Era stata lei a rovinare la vita alla sua creatura.

La sua bambina non vedeva.

Katia era sempre stata cieca nella sua vita, non aveva saputo distinguere il bene dal male, non aveva saputo vedere chi l’ingannava e chi l’amava.

La sua bambina forse era destinata ad una vita vegetativa, le aveva detto qualcuno.

Non avrebbe camminato, non avrebbe corso, non avrebbe giocato, non avrebbe ballato.

Katia si sentiva come gambizzata. Non aveva saputo sfruttare le opportunità che la vita le aveva offerto per emanciparsi.

La sua bambina soffriva di epilessia.

Katia non aveva saputo mettere un freno ai suoi terremoti interiori.

Aveva messo al mondo la sua interiorità malata.

Leggeva in modo distorto la malattia di Sofia proiettandosi sulla bambina e accusandosi.

«Hai messo al mondo la parte più bella di te» le sussurrava lui.

Ma Katia non lo ascoltava più.

Perché Dio le aveva fatto questo?

Qual era il senso?

Katia odiava Dio.

Katia odiava la vita.

Si sentiva sopraffatta dalla vita.

Forse curando il male che era in lei… forse distruggendo, annientando, disintegrando questo male oscuro in lei, forse la sua bambina sarebbe guarita.

Katia afferrò una scatola di psicofarmaci e lentamente, una compressa alla volta, li ingoiò tutti.

Sdraiò la bambina accanto a sé nel letto aspettando che facessero effetto i farmaci.

Chissà? Forse lui sarebbe venuta a prenderla.

Si vide abbandonare il suo corpo morto sul letto e alzarsi in volo nella stanza.

Che sollievo!

Sarebbe tutto finito.

Avrebbe dimenticato?

Siamo luce, pensò.

E dall’alto vide Sofia, sola nel letto accanto al suo corpo.

Allora capì.

Accarezzò il volto della sua bambina.

La sua Sofia non era triste.

La sua Sofia era sazia di sua madre, non sapeva nulla di malattia, voleva vivere.

Voleva vivere e aveva bisogno di aiuto, aveva bisogno di lei.

Katia percepì per un istante l’intensità del rapporto simbiotico che aveva con la sua bambina e sentì il vuoto che avrebbe lasciato dentro e intorno a Sofia se fosse morta.

E il suo Manuel?

Già privato di un padre, che cosa avrebbe fatto?

“Io sono una nullità ma hanno bisogno di me” si disse.

Si pentì.

Afferrò il telefono e chiamò il suo dottore.

Disse al suo psichiatra che si era avvelenata.

Capitolo 21

 

Katia, attaccata ad una flebo in un letto d’ospedale, delirava.

Vide Sofia volare nello spazio interstellare in prossimità di un buco nero dal quale estraeva numeri giganti.

Vide il volto del dottore.

«Che sta facendo Sofia?» le chiese il dottore.

«Conta. Mette ordine tra i miei oggetti interiori». Spiegò Katia.

Vide Sofia porgere un numero al dottore, un quattro che sembrava una svastica.

«Che ci faccio con questo?».

«Ci tuffiamo dentro» disse Katia.

«Al numero?».

«Certo! Mi segua» lo invitò Katia.

Katia si tuffò con il dottore nel numero e si ritrovarono a camminare su una struttura elicoidale.

«Adenina, timina, guanina, citosina…» si sentiva un’eco.

«Qui si fa la maglia, si suona con la chimica!» disse Katia.

«Siamo nel Dna? Che storia è mai questa?» le chiese il dottore.

«È la storia della mia Sfinge».

«Siamo nella fucina dei tuoi personaggi? Chi scrive questa lunga catena?».

«I caratteri li sceglie la madre, Maria, seguendo come parametri l’amore, l’amicizia, l’affetto… io li innesto su una storia reale e ne faccio una coperta!» spiegò Katia.

«Perché siamo qui?».

«Perché Sofia ha una malattia genetica. Paga per gli errori dei miei antenati. Venga con me».

Scendendo lungo la struttura elicoidale, Katia e il dottore si ritrovarono in un campo di grano. Una donna mieteva.

Falce di lama tagliente

Falce di luna nuova

Calante destino

Morde

Il bacio possente

Di questa immortale diva

Per ritrovare forte

Il vigore

Per attuare quel che altrimenti

Il Caos

Potrebbe divorare.

Misteriosi sentieri

Che sciolgono la forma

E fanno di un sospiro

Un anelito d’infinito.

Ho sbirciato nel cuore

Indefinibile cuore

Di questa ineguagliabile dama

Essa è colei che tutto ama

Sa inebriarsi della purezza del sentimento

Ma stringe forte al seno

Il dolore

Che squarcia con una lacrima

Il velo

Che traveste di ripugnante

Quel che null’altro è

Se non umano

E se ne fa amante.

Recitava la donna.

«Chi è quella donna?» chiese il dottore.

«La mia bisnonna! Impugnava la lama arcuata…Oh, lei l’ha usata, eccome se l’ha usata… erano altri tempi quelli… si racconta che non corresse buon sangue tra la mia bisnonna e suo suocero, qualcuno dice che lui cercasse di approfittare di lei, qualcun altro che ci fosse una questione di terre irrisolta, una grossa eredità, fatto sta che lei, la mia bisnonna, pensò bene di tagliare la testa al suocero mentre mieteva il grano…».

«Che coraggio. E fu arrestata?».

«No, si parlò di violenza carnale e campò la mia bisnonna ben oltre i novant’anni mettendo anche in croce quel povero cristo di suo marito… come si deve essere sentito quell’uomo la cui moglie aveva mozzato la testa al padre… ammutolì si racconta e la moglie lo portò per una visita psichiatrica al manicomio di Girifalco… per una consulenza…

E quel giorno, si racconta, l’intero paese accompagnò il mio povero bisnonno, a piedi, dal paese natio fino al manicomio da dove non tornò più…

C’era anche mia nonna in quel corteo.

A che son valse le azioni della madre? A riscattare forse le donne della mia famiglia da un destino di soprusi e violenza? No… Era innamorata a sedici anni la mia povera nonna… Ma quale famiglia l’avrebbe accolta con un tal storia sulle spalle?

«Che muoia con una mina in guerra piuttosto che sposare te» le disse la madre del ragazzo di cui mia nonna era innamorata sputandole in faccia.

E morì quel giovane per l’esplosione di una mina.

Mia nonna mi raccontò che lo vide quel giorno, in lontananza in campagna, la salutava con il gesto della mano…

A ventiquattro anni mia nonna, bellissima donna, non era ancora sposata, si era votata anima e cuore alla memoria di quel fugace, innocente amore che la guerra le aveva strappato… i pretendenti entravano da una porta e lei scappava dall’altra… la inseguiva il fratello intorno al tavolo».

«Non lo voglio» lei strillava.

«Te lo devi sposare… Ne devi prendere ancora ceffoni in faccia…».

«Non lo voglio…».

«Si sposò. Ebbe tre figli maschi e s’incattivì, sottomise il marito, da vittima si fece inevitabilmente carnefice.

Qualcuno racconta che la notte mia nonna si aggirasse da sola nel paese, con il capo coperto e parlasse, parlasse da sola.

Donne gambizzate, ignorate, sepolte vive e incrudelite.

Il destino se non sciolto si ripete. Se la mia nonna fosse stata qui, al mio posto, lei avrebbe saputo cosa fare, lei avrebbe saputo come riscattarsi e invece mi ha lasciata sola con il fagotto di questo destino da sciogliere…

Ed oggi, qui, ancora, sempre accade, in questa terra che non vuole parlare, in questa Calabria che incanta con il ritmo del mare…

E Sofia non vede, non cammina, non parla e trema…

Noi paghiamo per gli errori dei nostri antenati…».

 

Capitolo 22

 

«Per una madre è naturale fare da specchio al suo bambino» disse a Katia la neurospichiatra infantile di Soverato a cui si era rivolta per la sua Sofia «… ma lei, Signora, lo fa in modo speciale».

«Che cosa devo fare per la mia bambina?» chiese Katia.

La dottoressa sorrise osservando il quadro che aveva innanzi agli occhi, si percepiva a pelle come i confini della madre si perdessero in quelli della figlia e viceversa, erano bellissime.

« Questo – disse la dottoressa – deve semplicemente fare quello che sta facendo».

Madre e figlia formavano un’unità profonda, difficilmente accessibile, bisognava ora vedere se avrebbero lasciato entrare il terapista nel loro rapporto simbiotico, se gli avrebbero ritagliato uno spazio.

Il terapista a cui la neuropsichiatria li affidò era un tipo veramente strano.

Zoppicava.

Lei doveva dare in braccio a lui la sua bambina?

Katia lo guardò litigare con lo stereo a cui diede un pugno perché non partiva.

«A Sofia piace la musica?» chiese a Katia. E sedendosi sul tappetino le fece segno di dargli la bambina.

«Perché zoppichi?» gli chiese Katia sedendosi accanto a lui ma senza dargli Sofia.

«Mi hanno rubato un po’ di materia cerebrale» rispose lui. «Un intervento quand’ero ragazzo, dopo che mi hanno aperto, hanno capito che non era necessario ma il danno ormai l’avevano fatto causandomi una paralisi».

«Mi dispiace» disse Katia.

«Attraverso la fisioterapia recuperai buona parte delle funzioni, ma questa gamba è rimasta offesa… e avendo vissuto quest’esperienza sulla mia pelle decisi che volevo diventare fisioterapista… che volevo occuparmi dei bambini».

Katia provò subito ammirazione.

«Ho una figlia dell’età di Sofia» le disse lui stendendo le braccia per invitarla a dargli Sofia.

Katia gli passò la bambina che lui si adagiò in grembo dicendo «Voi mamme siete tanto fortunate, avete un rapporto speciale con i figli, io cerco da sempre una simbiosi simile con i bambini!».

Sofia protestò, Katia la rassicurò parlandole e presto si rilassò accarezzata dal terapista.

«Pensi che camminerà?» gli chiese Katia.

Lui sospirò.

«Ha importanza?» le chiese.

Katia non capiva, certo che era importante.

«Cosa piace a Sofia?» le chiese.

Katia capì.

Queste persone le chiedevano semplicemente di essere se stessa e di assecondare il piacere della sua bambina.

Erano meravigliose.

 

Capitolo 23

 

Sofia soffriva di crisi epilettiche, un’epilessia farmacoresistente.

Katia vedeva la sua bambina in stato catatonico per ore, senza sapere cosa fare, impotente.

Lo stigma verso il servizio sanitario locale in Calabria, l’avevano portata continuamente fuori, nei grandi centri, ancora viaggi della speranza, ancora caccia alla diagnosi, ancora ospedalizzazioni.

Ancora prognosi senza speranza.

Ed ogni volta che si riapriva il capitolo sulla patologia di Sofia, nel mare d’ipotesi che si facevano, Katia trovava come alimentare il suo continuo senso di colpa che l’attanagliava, voleva sentirsi dire che era colpevole.

Infine, dato che la situazione era ingestibile a distanza, si rivolse ad un neurologo dell’Università di Catanzaro.

Nessuna caccia alla diagnosi.

Assodato che non era una malattia progressiva e che Katia aveva avuto un distacco di placenta all’inizio della gravidanza di Sofia, non le fece alcuna domanda.

C’era un problema da risolvere, l’epilessia.

Il neurologo ascoltava quello che Katia notava della sua bambina e si fidava di quello che gli diceva, si fidava di lei, non la considerava una pazza.

Ed era bello! Estremamente bello!

Insegnò a Katia come riconoscere le crisi della bambina, come gestirle, come restare tranquilla, come notare le avvisaglie.

Le insegnò un metodo.

Di giorno, di notte, Katia lo consultava continuamente.

Divenne per lei il marito che non aveva, il padre della bambina che mancava.

Ci vollero due anni.

Alla fine la battaglia contro l’epilessia venne vinta.

 

Capitolo 24

 

Un solo pediatra per Sofia non bastava.

Un’équipe intera di pediatri seguiva all’ospedale di Soverato, il caso di Sofia.

Questa volta erano subentrati problemi respiratori.

“La mia bambina ha tanti papà” pensava Katia confortata dall’umanità con cui erano stati accolti dai medici.

Katia era sta catapultata da Sofia in una realtà che non conosceva, dove esistevano persone reali che lottavano ogni giorno per la vita, una vita.

Sofia dormiva. Aveva il respiro irregolare.

L’ossigeno gorgogliava, nella stanza accanto una ragazza ventenne stava male.

Katia era stanca.

Si addormentò.

Nel sogno si ricordava che doveva controllare il respiro di sua figlia e che doveva alzarsi.

Non riusciva a svegliarsi.

Si alzava in sogno e si avvicinava a Sofia, si rendeva conto che stava ancora dormendo e che doveva svegliarsi e il sogno iniziava da capo.

Per sei volte il sogno si era ripetuto quando ancora dormendo vide accanto a Sofia la ragazza della stanza accanto.

«Cosa voleva da Sofia?» le chiese Katia.

La ragazza teneva in mano un carro armato rosso che porse a Katia.

Katia spaventata si svegliò di soprassalto.

Sofia aveva una crisi respiratoria.

Chiamò i medici che l’aiutarono a gestirla.

Non appena si riprese Sofia sorrise sentendo la voce della madre.

«Tu sei un angelo» disse una pediatra piangendo a Sofia.

«Perché piange?» chiese Katia allarmata alla pediatra.

«È morta la ragazza della stanza accanto» rispose.

Katia impallidì.

Perché l’aveva sognata?

Perché le aveva dato un carro armato?

“Per lottare” le sussurrò una voce.

Era quella ragazza?

Sofia a suo modo l’aveva accompagnata nell’istante del trapasso.

 

Capitolo 25

 

Si nasce.

Si cresce.

Si studia.

Si lavora.

Case, auto, mutui bancari…

Si rimanda l’amore e il matrimonio, ovviamente, a tempi migliori…

Prima, seconda, terza laurea…

Si fa carriera.

Si diventa ingegnere nucleare, direttore aziendale, commercialista, azionista…

Si costruiscono imperi economici.

Si comanda.

Qualcuno urla muto nel deserto.

La vita sembra istituzionalizzata, si disse Katia.

E Sofia?

Sofia mandava baci.

“Manda baci” si disse Katia “e contempla l’Universo”.

Il suo Universo.

Un Universo di suoni, di odori, di sensazioni tattili… un Universo senza dubbio tolemaico, si disse Katia, dove è il Sole, gli astri e i pianeti, a ruotarle intorno.

Sofia mandava baci e si appagava semplicemente nell’esserci.

E a Katia sembrò di vedere questi baci aleggiare nell’aria, innestarsi nella sfera degli eventi reali, infrangere muri convenzionali e posarsi là dove non arrivano talvolta né leggi, né etica, né morale, né religione, né cultura, né istituzione…

Vide questi baci aleggiare, posarsi e parlare al cuore di ogni persona.

«Sì, sei un angelo» disse Katia «tu e i bambini come te date una misura del grado di civiltà di una società, mettete in discussione le false certezze e imponete che ci si appresti a voi limpidi e con il cuore in mano attraverso dei percorsi interiori dolorosi ma che arricchiscono semplicemente chiedendo e dando amore».

 

Capitolo 26

 

Seduta in riva al mare con Sofia sulle ginocchia che rideva mentre le onde la bagnavano, Katia osservava Manuel costruire un castello di sabbia.

“Che cos’è l’arte?” si chiese Katia.

«È questo” si rispose “è la vita”.

“Chi sono?”.

“Da dove veniamo?”.

“Dove andiamo?”.

Scorre, scorre ignota questa strada

Sono immagini suoni colori.

Sono volti espressioni occhi nuovi…

Scorre, scorre ignota questa strada…

ci insegue la lanterna rossa di una vecchia zoppa…

Muta

Perché un tempo nel nulla ha spiato.

Sacro

il Silenzio ha violato.

Scorre, scorre ignota questa strada.

Sono immagini suoni colori.

Sono volti espressioni occhi nuovi.

Occhi di bambino ho incontrato

invisibile per essi sono stato.

No, non piangere se la tua pace ho turbato

Non conosci, arcana creatura, parola che per me possa essere interpretata.

Muoiono in questo pianto quelle ora poco importanti domande.

Non importa dove porta

scorre, scorre ignota questa strada.

Sono immagini suoni colori.

Sono volti espressioni occhi nuovi.

Occhi prigionieri di un volto

su cui cala triste il velo di una vita tolta…

Occhi per sentire un canto…

Che culla un incessante pianto…

Occhi per vedere rossa una luce fioca si è fermata…

È la lanterna che si spegne…

La vecchia zoppa ai piedi di una croce l’ha poggiata…

E dolcemente su di essa si è sdraiata.

Recitò.

Oggi sono vecchia e appena nata, si disse, ho i colori dell’alba e i riflessi del tramonto, palpito come una stella nell’oscurità e brucio come il Sole di mezzodì.

«Sarai felice» le sussurrò una voce dal cielo «qui, e con me».

Angela Ada Mantella

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