Il sogno mancato: «sviluppo senza progresso», «laicizzazione ebete» e ‘gestione dell’esistente’. La II Repubblica che non è nata.
«Forse senza neppure rendercene conto — prodigi della modestia! — noi italiani rischiamo di imprimere alla storia politica d’Europa una svolta (scriviamola, la parola disgustosa) epocale. Quelli che hanno prodotto lo sfascio vengono chiamati a sanarlo. Quelli che hanno dominato un’epoca si prenotano per comandare nella successiva. È come se Napoleone avesse assunto la presidenza del Congresso di Vienna o Mussolini, in nome della governabilità, fosse stato messo a capo del Comitato di Liberazione Nazionale. È come se Catilina pretendesse di pronunziare la Catilinaria.»1.
Parole più definitive di quelle di Ajello non potevano essere pronunciate sul fenomeno che a chiare lettere si è ormai delineato nell’Italia del ‘dopo (dopo?) Tangentopoli’: la festa dei ‘riciclati’, il valzer spaventoso dei revenant denunciano a pieno titolo la continuità del nuovo (si fa per dire…) col vecchio regime, popolano di incubi immedicabili le sempre più agitate notti del ‘partito degli onesti’, di una specie in via di irrimediabile estinzione nell’infuriare tremebondo della romeriana Notte dei morti viventi politici…
Come scrive Mauro Calise, «un chiaro confronto tra l’Italia e i sistemi delle altre democrazie occidentali — Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania —, […] illumina il rapporto tra stato, governo e partiti. Da garanzia di controllo democratico, la partitocrazia italiana si è trasformata in consociazione di una élite separata dal paese. Ma per cambiare, non sono sufficienti né la retorica della riforma, né il passaggio dalla cultura di partito a quelle aziendalistiche del tipo recentemente proposto, che comunicano attraverso semplificazioni plebiscitarie. È necessario tornare a una concreta valutazione delle istituzioni, nella consapevolezza che “senza identità nazionale non esiste democrazia dei cittadini che regga”.»2 Il quadro, dunque, resta assai fosco, nell’àmbito di una ‘seconda repubblica’ che non è mai nata — né, forse, viste le premesse, nascerà mai. La sostanziale continuità, sotto molti aspetti, del regime partitocratico con quello fascista, già antesignanamente rilevata da Pasolini negli ormai leggendarî Scritti corsari, è in effetti indiscutibile: «I due partiti popolari che si sono contese le spoglie dell’amministrazione centrale e periferica dell’Italia repubblicana hanno trovato scarse resistenze. Al tempo stesso hanno potuto fruire di un modello di organizzazione statale già preesistente e in parte addirittura già omologato ai principî della massifcazione del ventennio fascista (Morlino). Tutto ciò ha contribuito all’intreccio tra macchina di partito e dello stato che ha reso eccezionale la forza della partitocrazia italiana, come sarà eccezionale la sua crisi»3.
Enzo Biagi, nella Prefazione a Processo all’Italia, rileva, con l’arguzia che gli è propria, che «La Prima Repubblica non muore in Parlamento ma nel Palazzo di Giustizia di Milano. Non cade per le barricate ma per gli avvisi di reato. Non si era mai vista, credo, una rivoluzione guidata dai giudici. Non in nome di nuovi ideali, ma di antichi principi: quelli fissati dal codice penale. […] Questo libro è un documento impietoso dello smarrimento dell’Italia: che ancora una volta deve cercare la strada della rinascita. Non bastano le ‘mani pulite’, più importante è la coscienza.»4
Eppure, come dopo la Resistenza, la speranza, propria di ogni ‘uomo di buona volontà’, di là da ogni particolaristica connotazione ideologica, di fare un’Italia nuova, più giusta e più grande — sul piano civile, politico, culturale — è andata ancóra una volta tragicamente delusa, ulteriore conferma, qualora mai ce ne fosse stato bisogno, di quella ‘decadenza antropologica degli Italiani’ della quale profeticamente si era fatto lucidissimo portavoce il mai abbastanza compianto — almeno come intellettuale — Pier Paolo Pasolini.
Del resto, perfino Andreotti, colui che più di ogni altro ha manovrato i fili del malaffare e del più losco dei do ut des nell’Italia di questi ultimi decennî — e sulla cui colpevolezza, come referente politico della mafia siciliana, non possono più esistere ragionevoli dubbî — ha riconosciuto la correttezza dell’analisi pasoliniana: «Se la Dc avesse avuto il coraggio di riflettere sulle critiche che nel 1975 le muoveva Pasolini, certamente oggi non avrebbe avuto bisogno di cambiare nome per ricostruirsi un’immagine»: «Indubbiamente alcune delle cose che lui diceva sono valide, specie se rilette adesso»5. Sono parole che ci giungono attraverso il ghigno sinistro di quella che Giorgio Bocca ha a più riprese icasticamente definito «maschera incaica»: dal caso Sindona all’omicidio Pecorelli, dal sequestro Moro al caso Dalla Chiesa il senatore a vita romano ha avvinghiato nei suoi prodigiosi tentacoli tutti i più foschi misteri dell’Italia meschina e parassita di questi anni oscuri, curandone con criminale, astutissima sapienza la regia, ma sempre con le ‘mani pulite’, nell’ombra oscura delle quinte…
Quella che altrove, e ripetute volte (ma a cominciare dall’Editoriale dello scorso numero di “Nuove Lettere”6), abbiamo definito la ‘rivoluzione magistratuale’, ha messo implacabilmente a fuoco le scaturigini ed i gangli vitali del titanico sistema di corruttela generalizzato sul quale si è fondata — ed ancóra in gran parte si fonda — la vita italiana di questi ultimi, tragici trent’anni.
Opportunamente Marcella Andreoli cita, in uno dei passi cruciali di Processo all’Italia, le parole pronunciate da Francesco Cossiga l’ormai lontano (o vicino?) 23 luglio del ‘93, quando «Ha impietosamente invitato “Martinazzoli e Del Turco a riconoscere che la Dc e il Psi sono i soci fondatori di Tangentopoli”.»7, ma, dobbiamo aggiungere, col sommesso e però decisivo bordone del PCI-PDS.
Una caratteristica ha contrassegnato in maniera inconfondibile la vita politica italiana rispetto a qualunque altro Paese democratico, soprattutto negli ultimi vent’anni: l’assenza di un’autentica e forte opposizione che facesse da contrappeso ai partiti di governo. Perfino negli Stati Uniti il sitema bipartitico, nonostante la sostanziale confluenza ideologica, consente un’efficace dialettica: e la dialettica è il fulcro della democrazia. La sinistra italiana ha qui una colpa precisa e gravissima: il Partito Comunista è infatti progressivamente venuto meno alla sua funzione oppositiva e critica nei confronti del sistema, astutamente fagocitato dai partiti al potere, che hanno saputo abilmente coinvolgerlo nell’orrendo banchetto, annichilendone la carica inizialmente contrastiva e rivoluzionaria; sicché fra tutte le forze politiche è stato stretto un tacito, orribile patto: la spartizione della preda, il sacco del lucroso bottino. Dalle televisioni ai giornali, dalle banche alle grandi aziende pubbliche, nulla, sotto le mentite spoglie di quella che potremmo definire la ‘pseudo-opposizione’, è sfuggito alla bocca famelica del PCI-PDS, che, secondo un’ormai consolidata tradizione, più che altrove ha fatto sentire il suo monopolio — a tratti dittatoriale — nel mondo della cultura, specialmente accademica.
Oggi il Centro-sinistra si presenta con la faccia rassicurante e bonaria dei ‘tempi nuovi’: ma il suo volto profondo, sotto la maschera imbellettata, è quello del vecchio sistema, a cominciare dal leader Prodi, già uomo — turpe dictu! — del ‘gran maestro’ Andreotti; ed i suoi cavalli di punta sono, per la più gran parte, relitti dell’ancien régime. O l’Ulivo crede che ‘rinnovamento’ voglia dire — così nelle imbattibili legioni romane —, cadute le ‘prime linee’, far venire avanti le ‘seconde’, come è successo con D’Alema per Occhetto?
Neppure la Destra, d’altra parte, è mai riuscita a far sentire in maniera significativa la sua opposizione: la compromissione storica ed il legame passatistico e ciecamente nostalgico col Fascismo ne ha ostacolato inesorabilmente la crescita, restando esclusa, se non in questi ultimi anni, dalla montante ascesa delle Destre europee, non solo prive della connotazione di continuatrici del regime mussoliniano, ma a volte, come quella francese, marcatamente antifasciste.
Il ricambio generazionale della classe dirigente non c’è stato, se non attraverso un’operazione di superficie, e gli scagnozzi di quelli che in tempi non sospetti Pasolini chiamava i ‘potenti democristiani’ manovrano ancóra indisturbati le leve del potere: le banche, gli enti pubblici, i media; ancóra si aggirano sinistramente, con il loro fetore mortuario, nel Palazzo. E allora?
Vengono alla mente le recenti, agghiaccianti parole di Riccardo Muti: «Ho paura quando un paese tenta di uccidere la cultura, perché è la stessa tendenza che porta alla dittatura. […] In una situazione simile o si va altrove o si resta a combattere. Io ho scelto la seconda via»8. E sullo stesso tono si esprime, non a caso, un altro famoso ambasciatore della cultura italiana nel mondo come Claudio Abbado: «Basti pensare che in Italia non esiste un ministero della Cultura. Ormai si riesce a far musica solo in piccole realtà come Ferrara o Reggio Emilia, mentre nella capitali come Roma o Milano si preferisce organizzare sfilate di moda»9. Del medesimo tenore sono pure le dichiarazioni di un altro celebre musicista: «”Sì, è vero, voglio andar via dall’Italia. Non si può vivere in un paese dove non c’è rispetto per la cultura e per gli artisti”. Sylvano Bussotti […] Ce l’ha soprattutto con la politica che è entrata nel mondo della musica, con l’ignoranza dilagante, con la scuola che non assolve al suo compito, con le istituzioni che latitano, con la burocrazia che impera.»10
L’acme della vergogna è certo stato rappresentato dalla guerra implacabile condotta contro il pool di Mani Pulite e, più in generale, la magistratura, dai ministri di Grazia e Giustizia dei governi Amato, Berlusconi e Dini: se Conso, con il suo volto emaciato da Conte di Montecristo, non smise mai di strepitare per varare il famigerato ‘colpo di spugna’ (leggi: «i ladri di partito non sono ladri»), Biondi prima, Mancuso poi si sono scagliati con una violenza legale inaudita per arrestare l’opera moralizzatrice dei magistrati colpevoli, a loro avviso, di «fare politica»: ma da chi sono stati costretti a farlo, se non da una classe politica di corrotti, di mafiosi e di ladri che è stata ed è incapace di assolvere ai suoi cómpiti politici istituzionali, lasciando dietro di sé, come un esercito di conquista, soltanto ‘terra bruciata’ od un abisso senza fondo? La classe dirigente italiana, tutta partitica o di emanazione partitica, ha da sempre fondato il suo operato nella prospettiva miope e meschina della pura gestione dell’esistente. «Tutti sanno cosa sia divenuta una carriera politica in Italia, e come gli avvocatucci provinciali e volgari eletti deputati fino a una diecina di anni fa, siano dei giganti rispetto ai loro possibili successori di oggi.»: altro fenomeno di quella «degradazione antropologica derivante da uno “sviluppo senza progresso”, qual è stato quello italiano con le sue case e il suo urbanesimo.» «Del resto, c’è da chiedersi cos’è più scandaloso: se la provocatoria ostinazione dei potenti a restare al potere, o l’apolitica passività del paese ad accettare la loro stessa fisica presenza (“…quando il potere ha osato oltre ogni limite, non lo si può mutare, bisogna accettarlo così com’è”, Editoriale del Corriere della Sera, 9-2-1975).»11
In realtà è proprio dal vuoto di governo della classe dirigente che è nata la necessità di una supplenza da parte della magistratura. Se è vero, come argutamente scrisse un giornalista francese del secolo scorso, Gay de Girardin, che «La forza dei governi è inversamente proporzionale al peso delle imposte.»12, qual è allora la forza di governi che, come i nostri, pensano di sanare la finanza pubblica saccheggiando, a mo’ di racket camorristico e con il placet dei partiti e dei sindacati, la scarsella dei contribuenti più deboli? Ma non c’era un articolo della Costituzione — di quella Costituzione che la vuota verbosità dei politici non si stanca di tirare continuamente in ballo nella sua suprema, ma sfrontatamente offesa, sacralità — che affermava solennemente che le tasse andavano pagate dal cittadino in proporzione al suo reddito?
Esemplare è stato, sotto molti aspetti, l’iter del governo Berlusconi: «Davanti alla forsennata demonizzazione di cui è vittima la procura di Milano, torna alla mente il discorso programmatico che Berlusconi lesse al Senato il 16 maggio 1994: “Questo governo è dalla parte dell’opera di moralizzazione della vita pubblica intrapresa da valenti magistrati e dalla grande stampa di informazione”. Parole solenni, che inequivocabilmente significavano pieno appoggio al pool di Mani pulite. Ma la finzione durò due mesi scarsi. Poi la famiglia Berlusconi si ritrovò coinvolta, come centinaia di altri imprenditori, nell’inchiesta sulle tangenti alla Finanza. Da allora, per l’uomo di Arcore, i “valenti magistrati” sono diventati pericoli pubblici; Antonio Di Pietro un estorsore di prestiti senza interessi; Francesco Saverio Borrelli un attentatore al funzionamento degli organi costituzionali. La svolta è stata devastante. Per difendere se stesso dall’accusa di aver sganciato mazzette, Berlusconi non ha trovato di meglio che stracciare il suo stesso impegno di lotta alla corruzione, e criminalizzare chi di quella lotta era ed è all’avanguardia. Il risultato è che, per la destra, l’obiettivo del risanamento della vita pubblica è mestamente scomparso.»13
In effetti, gli interessi biecamente personalistici che avevano spinto Berlusconi a così fulmineamente percorrere, fino al vertice, il cursus honorum, sono emersi ben presto: «L’azionista di maggioranza della Fininvest allorché ricoprì la carica di presidente del Consiglio dei Ministri promosse o sostenne iniziative legislative volte a introdurre un trattamento di maggior favore per i rei di concussione, provvedimenti che avrebbero favorito proprio coloro che secondo la versione degli appartenenti al gruppo avrebbero concusso i suoi dipendenti e quindi danneggiato le sue società»14.
«Il gruppo Fininvest è totalmente estraneo al sistema delle tengenti»: così parlò Berlusconi il 9 dicembre 1993, inaugurando un ipermercato a Grugliasco. Fu la madre di tutte le bugie. Da allora, ogni volta che sono emerse le mazzette Fininvest sulle discariche, sui campi da golf, sulle verifiche fiscali, il cavaliere è stato costretto a smentite tanto rumorose quanto poco convincenti.»15
E così Berlusconi poté pure dire: «”I pubblici ministeri ebbero a decidere — per la prima volta nella storia repubblicana — di contestare a un presidente del Consiglio in carica un reato che doveva offuscare la sua immagine e costringerlo alle dimissioni”. Questa frase di Berlusconi, inserita sabato 14 in una dichiarazione scritta, e dunque attentamente calibrata, è rivelatrice: egli non soltanto fa un processo sommario alle intenzioni dei magistrati, ma ritiene inconcepibile che un capo di governo venga posto sotto accusa. Si può replicare che un simile evento è altamente probabile se a palazzo Chigi va il proprietario di un gruppo che ha distribuito tangenti per più di dieci anni.»16
In realtà, la perseguibilità e la responsabilità di chi ricopre cariche di governo e, più in generale, dei parlamentari, andrebbero, in barba al feudale, vergognoso privilegio dell’immunità parlamentare, esponenzialmente accresciute: l’onestà e la lealtà di un uomo politico dovrebbero essere ben più specchiate di quelle dell’uomo comune; al di sopra, come la moglie di Cesare, perfino del sospetto.
Dopo Biondi, già imponente alfiere del vecchio regime e campione come Carnevale e Andreotti di quel bieco garantismo tutto teso all’impunibilità di mafiosi e corrotti, iI ministro Filippo Mancuso (che non a caso aveva confermato lo staff ereditato dal suo predecessore, il cosiddetto ‘partito di via Arenula’) è stato il braccio armato dell’ultimo assalto sferrato contro l’unica cosa buona che sia stata fatta in Italia in questi ultimi trent’anni di malapolitica, la moralizzazione di ‘Mani pulite’: «L’ex Guardasigilli assicura di essere stato imparziale. Ma le cifre vere raccontano un’altra storia: sotto di lui, a parte le ispezioni di routine, a finire nel mirino sono stati quasi solo i magistrati anti-corruzione»17.
D’altra parte, «Spediti dal ministro Biondi a Milano per inchiodare il pool di Mani pulite, gli ispettori ministeriali scrissero una relazione che, al contrario, appariva un elogio per il lavoro di quei magistrati. Il ministro Mancuso, succeduto a Biondi, ha licenziato gli autori del rapporto e ha cercato di rovesciarne le conclusioni.»18; infatti, nel paragrafo del rapporto ministeriale intitolato Conclusioni, leggiamo, a proposito della celebre provvidenziale inchiesta della Procura milanese: «Riguardo a tale inchiesta si è potuto incidentalmente constatare che vi è sempre stato il massimo impegno dell’Ufficio, come, del resto, è provato dai risultati conseguiti, che, come è noto, sono stati e sono fortemente condivisi dal sentimento sociale. E siffatti risultati — occorre qui riconoscerlo — non possono non connettersi alla grande serietà, alla specifica professionalità e allo spirito di sacrificio dei magistrati del “Pool Mani Pulite”. Si è, altresì, percepita, nel corso degli accertamenti effettuati, una profonda armonia tra i sostituti e la dirigenza dell’ufficio.»19
Del resto, come ha recentemente e opportunamente dichiarato il pubblico ministero di Milano Francesco Greco, «Il sistema politico non si preoccupa di approvare leggi in grado di fermare Tangentopoli. Ci si preoccupa solo di fermarci, come se fossimo noi i colpevoli dei reati che abbiamo scoperto. […] A fronte di gravissimi reati scoperti, l’unico problema che angoscia il mondo politico […] è farla finita con noi. […] Si deve riscrivere un nuovo contratto sociale […] ma il problema è che a doverlo garantire è la stessa classe dirigente che ha partecipato a Tangentopoli.»20, classe della quale personaggi come Craxi («un criminale matricolato», come lo ha icasticamente definito l’altro pm milanese Paolo Ielo)21 sono non rara avis, ma soltanto gli ignominiosi alfieri.
Del medesimo allarmante ma sacrosanto tono appaiono le parole del procuratore aggiunto di Milano Gherardo D’Ambrosio, quando perentoriamente afferma che il Guardasigilli ha «usato l’arma delle ispezioni per condizionare le inchieste sul potere politico», che «Noi da mesi stiamo lavorando al 50 per cento proprio per le incombenze relative alla presenza degli ispettori»; e che, insomma, «stanno cercando di fermarci. Meglio con le ispezioni che con le schioppettate»22.
Contro Antonio Di Pietro, in particolare, assurto popolarmente a simbolo di giustizia e di integerrima dirittura morale — e divenuto dunque una figura quanto mai scomoda per le ‘anime nere’ della politica —, è stata scatenata un’autentica ‘caccia all’uomo’, tesa a pescare nel torbido di risibili accuse pur di infangarne l’immagine immacolata. Il famoso giudice non è un santo — né ad un magistrato è richiesto di esserlo —: è soltanto un uomo onesto e leale che ha fatto il proprio dovere; ed anche questo è un chiaro specimen dei livelli di decadenza da ‘basso Impero’ raggiunti dal sistema: la normalità del fare onestamente il proprio dovere è diventata — nel quadro di ordinario lassismo e di istituzionalizzata corruttela — l’eccezionalità di un eroe.
E non abbiamo certo ritegno ad aggiungere che se anche, ad absurdum, Di Pietro fosse a sua volta un corrotto, uno Stato che avesse a cuore la moralizzazione avrebbe il dovere di tenerlo ben nascosto alla ‘gente comune’, che, affamata e bisognosa com’è di exempla positivi con i quali identificarsi, ha un vitale, pedagogico bisogno di credere che anche nella vita pubblica possano esserci onestà e giustizia23. E d’altra parte, se pure il giudice molisano (o qualunque altro magistrato di ‘Mani pulite’) avesse la casa traboccante di skeleton in the cupboard, non per questo l’inchiesta di Tangentopoli e, più in generale, la lotta senza quartiere alla corruzione sarebbero, di per se stesse, meno valide e benemerite.
Illuminante è, in questo senso, la vicenda dei fulminei avvisi di garanzia per la più infamante delle accuse, quella del 110 e 416 bis del Codice penale — concorso in associazione di stampo mafioso —, che ha colpito due famigerati campioni di quello pseudo-garantismo da sempre atto a garantire, appunto, l’impunibilità di mafiosi e corrotti: Tiziana Maiolo, presidente, non a caso, della Commissione giustizia della Camera, e Vittorio Sgarbi, insuperato leader della ‘tv-insulto’ e della campagna di delegittimazione dei giudici, quella delegittimazione che è elisir e panacea per chi ha gli armadî, a dirla con gli Americani, pieni di scheletri inquietanti. In realtà, come ha detto il procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli, degno erede di Falcone e Borsellino nell’infuocato avamposto siciliano, «nei processi di mafia, se c’è un soggetto debole, questo è proprio il pubblico ministero»; ma, prosegue il giudice, «La posta in gioco sulla quale fermarsi a riflettere è la continuità del controllo della legalità»24, un controllo spudoratamente messo in forse da chi, come la Maiolo, ha osato proporre l’abolizione proprio di quel sacrosanto baluardo della legalità che è il 416 bis 25.
Intanto Berlusconi non sa dire di meglio che «il processo ad Andreotti sta rovinando l’immagine dell’Italia all’estero»26. È un’affermazione inaudita: sarebbe come dire che gli eccidî dei lager nazisti non andavano puniti perché così si rovinava l’immagine della Germania all’estero! Il Cavaliere, evidentemente, non capisce che non è un processo alla mafia a compromettere la peraltro già disfatta immagine italiana di là dalle Alpi, ma è la mafia a coprire di lordura il nostro Paese: anzi, che uno Stato pur fatiscente e corrotto come il nostro riesca a trovare la forza di autopurificarsi non può che essere motivo di orgoglio e di speranza.
Tutto questo mentre sempre di più incombe il Grande Fratello televisivo, il cui totalitarismo supremo si manifesta nel mostro informe dell’Auditel: «una grande cloaca, collegata con le varie trasmissioni tv, dove il livello del liquame fognario sale o scende, a seconda che salga o scenda l’ascolto dei telespettatori.»27 È così, con la consueta forza profeticamente immaginativa della sua arte, che Pasolini la delineava nella sceneggiatura inedita, dedicata al suo attore-feticcio Ninetto Davoli, dell’Histoire du soldat, recentemente divenuta una pièce. I fantasmi della Kulturindustrie di ador-niana memoria28, opportunamente agitati dallo scrittore friulano, evocano a pieno gli scenarî della ‘società di massa’ e dei suoi avvilenti corollarî, contro i quali nessun intellettuale che sia degno di questo nome si batterà mai abbastanza.
Se in tutte le cosiddette democrazie occidentali la televisione ha un ruolo primario nell’educazione (o, meglio: diseducazione) delle masse, in Italia, causa un tessuto civile e culturale più fragile che altrove, ha assunto proporzioni ancor più preoccupanti, divenendo tutt’uno con la quaestio, non meno rilevante, della decadenza morale («antropologica» avrebbe detto Pasolini) che attanaglia il nostro Paese. Illuminanti sono, sotto questo rispetto, alcune dichiarazioni di Federico Fellini: «Il regista, in un’intervista al quotidiano “Le Figaro”, parla del crescente numero di sale cinematografiche che soprattutto in provincia chiudono perché disertate dal pubblico più attratto dalla televisione, e si ritiene responsabile di questa situazione assieme con tutta la gente del cinema per conformismo: “Abbiamo capitolato perché — dice — protestando temevamo di passare per reazionari e nostalgici del fascismo”. Così — spiega Fellini — non abbiamo difeso la famiglia, la poesia, l’emozione, la lealtà. Una società che “si accanisce sistematicamente nel distruggere i nostri sentimenti ci lascia moralmente manchevoli e feriti”. Guardate, per esempio, che cosa ne è del nostro ideale femminile, dice. “La donna era il mistero fonte di tutti i nostri slanci ma ora non ha segreti nemmeno per l’infanzia”.»29
«Perché due elementi sono validi su scala planetaria: il sesso e la violenza del danaro.»30
Come scrivono Mininni e Ghiglione, la nostra è «una televisione che, a un certo punto, ha creduto di poter surrogare tutte le carenze sociali, mentre sviluppava una politica commerciale sempre più aggressiva. Politica che ha incentrato il suo “credo” sull’auditel e l’auditel è costruito da quel che piace alla maggioranza. Insomma, una televisione divenuta uno strumento industriale, che cerca di fabbricare dei prodotti vendibili al maggior numero di persone. Solo che c’è un però: la televisione non produce oggetti materiali, che consentono il benessere degli uomini (vestire bene, viaggiare bene, ecc.). Quello che produce la televisione appartiene al simbolico (perfino a un uomo politico dichiaratamente “popolano” [se non “rozzo”], come Umberto Bossi, non sfugge che “chi ha tre televisioni non può non vincere le elezioni, perché la televisione aggancia non la parte materiale dell’uomo, ma la parte spirituale” [comizio del 6/8/1994]), ossia ciò che costruisce la realtà e l’identità degli uomini.»31 «Non a caso — conferma Ferrarotti — Berlusconi è stato eletto in quelle zone [del Sud] con la promesssa del milione di posti di lavoro. Bisogna essere molto disperati per prendere per buono il sorriso elettrico dell’onorevole Silvio Berlusconi.»32
«Il talk show […] rende evidente il percorso che ha portato la televisione a trasformarsi da “finestra aperta” sul mondo a “occhio onnipotente” che regge l’universo, inglobando nella retorica del suo codice il grande potere costruttore di rappresentazioni e di immagini insito nella parola umana. […] Inoltre il talk show attualizza il mito della democrazia diretta, evocando i fantasmi vuoti di un potere decisionale, ancorato più alle pulsioni degli individui che alle ragioni della comunità. […] Questo rituale magico dell’era televisiva propone un modello di uomo che tende a ridurre il suo ruolo di attore sociale nelle fattezze di una pura maschera enunciativa. Se la vita di relazione psicosociale è affidata sempre più ai formati autistici e totalitari del “veder parlare”, gli individui e i gruppi rischiano di attivare processi di identificazione con modelli di personalità sintetiche, che li abituano a coltivare più gli aspetti artificiali del Sé che non il suo nucleo generatore di senso. I talk show rendono visibile la trama della comunicazione finzionante, cioè un regime di discorsività in cui il virtuale fagocita a tal punto il reale da eliminarlo.»33
Sotto questo rispetto, lo zapping viene a configurarsi come una metafora quanto mai emblematica non solo del vivere contemporaneo, ma anche della ‘strage degli innocenti’ di cui sono vittima le nuove generazioni: «Se confrontato con il sistema della Scolastica e dunque con il procedere per gradi e per regole fisse (il sillogismo, la metafora, la sineddoche), lo zapping appare follia, schizofrenia appunto. Un disturbo che si caratterizza per la dissociazione logico-verbale e per la mancanza di qualsiasi coerenza razionale. Un discorso fatto di parole di cui è stato smarrito il significato. […] Il sapere dei giovani del tempo presente non è strutturale: lo zapping non dà concetti, non princìpi, non risolve problemi attraverso l’induzione o la deduzione, può però impressionare, emozionare, generare azioni. […] Il giovane d’oggi tocca, sente, vede, odora: un sensore che percepisce e automaticamente risponde, come nei riflessi nervosi. […] La constatazione è che il giovane d’oggi non funziona per sistemi: non rispetta le sequenze né della logica razionale, né di altre logiche. Come se tutto si accumulasse senza ordine. […] I giovani d’oggi sono abilissimi nell’evocare, ma incapaci di costruire periodi. Come se le strutture della mente si fossero fermate e, appunto, dissociate.»34
È stato insomma portato fino in fondo quel processo di «laicizzazione ebete» di cui parlava Pasolini35 e che sembra tragicamente caratterizzare la ‘(sotto)-cultura media’ degli Italiani: quella, tanto per intenderci, esemplarmente personificata — all’insegna della più fatua delle luminescenze consumistiche e del più fittizio degli embrassons-nous universali — dalle avvilenti star dello scemenzario televisivo e delle sue ‘chiacchiere di treno’ : da Funari a Magalli fino a Frizzi e Castagna.
Ed è certo rispetto ai giovani che lo Stato italiano è, forse più che altrove, vergognosamente latitante, incapace com’è di qualsiasi politica di sviluppo e di formazione per le nuove generazioni, tragicamente abbandonate a se stesse: ma che futuro potrà mai avere il nostro Paese, se il futuro è nei giovani, se è nella scuola (includendo, lato sensu, anche l’università) che si forma la classe dirigente di domani?
È infatti nella scuola che si forma un popolo, ed è anche attraverso essa che si misura il suo livello civile: una scuola che pretende di insegnare le lingue straniere ma che non è capace di insegnare neppure l’Italiano; una scuola fatta in gran parte da impiegati, fra i quali incontrare un intellettuale od uno studioso è ormai piuttosto l’eccezione che non la norma; una scuola che produce ignoranza invece che cultura è una scuola che non fa comodo a nessuno, se non ad un potere che ben conosce la funzione critica e rivoluzionaria della cultura; di chi, non performato dai sapienti meccanismi omologanti e massificatorî del sistema, sa pensare e far pensare.
Ma quella italiana è, appunto, una scuola radicalmente fallita, in quanto tragicamente ridotta a cinghia di trasmissione dell’ideologia del sistema e serbatoio clientelare di voti; nonché ulteriore, decisivo ingranaggio nel processo di «laicizzazione ebete» degli Italiani.
D’altra parte, come ha scritto uno più prestigiosi esponenti dei cosiddetti ‘Descolarizzatori’, Illich, «Ma la scuola è uno strumento di schiavizzazione più profondo e sistematico, perché ad essa soltanto si attribuisce la funzione di formare il giudizio critico e, paradossalmente, essa cerca di svolgere tale funzione facendo dipendere la conoscenza di se stessi, degli altri e della natura da un processo preconfezionato»36.
Aggiunge un altro dei Descolarizzatori, Reimer: «Il motivo fondamentale per cui ci occorrono alternative alla scuola è che la scuola chiude la porta all’umanità che tenta di sottrarsi al suo monopolio. Essa offre questa garanzia: l’influenza in un mondo dominato dalla tecnologia sarà ereditata da chi trae profitto dal suo dominio e, peggio ancora, da chi è stato reso incapace di metterla in questione»37.
La ‘coscienza infelice’ del potere cerca oggi di conciliare nel sistema scolastico le istanze dell’autoritarismo e quelle del democraticismo, riproducendo nella scuola lo stesso fraudolento equivoco che lo caratterizza: il totalitarismo attraverso la demagogia.
Ben diversa era l’utopia (perché, alla luce dei fatti, così dobbiamo chiamarla) dei più grandi pedagogisti, da Reddie a Badley, dalle ‘cooperative scolastiche’ di Profit alla ‘scuola a squadre’ di Cousinet, dalla ‘scuola del lavoro’ di Kerschensteiner fino a Ferrière, che paragonava l’opera distruttiva della scuola tradizionale con la guerra moderna, «una strage di anime innocenti».
Diceva Manjón che «I fanciulli sono come gli uccelli: vivono solo all’aria aperta e là essi vivono gioiosi e rumorosi come devono essere, poiché essi sono l’umanità in fiore»; in effetti, come sosteneva argutamente Dewey, osservando un’aula scolastica si può facilmente risalire al tipo di scuola: e osservando le nostre — buie, sporche e fatiscenti, con le grate alle finestre a mo’ di orribili, spettrali carceri: casermoni da far invidia allo Spielberg —, non ci vuole troppa immaginazione per capire che tipo di scuola sia quella italiana…
D’altra parte, come ha scritto Plumb, «A differenza della società mercantile, di quella artigiana e di quella agraria, la società industriale non si serve del passato. Nel suo orientamento intellettuale non è volta alla conservazione, ma alla trasforma-zione, allo sfruttamento e al consumo. Per questo motivo il passato diviene una questione di curiosità, di nostalgia e di sentimentalismo.»38
Ed una società senza passato, aggiungiamo noi, è una società senza futuro.
Del resto, una delle funzioni primarie del libro è quella di tramandare il passato in direzione del futuro attraverso le nuove generazioni: chi non ricorda la metafora bradburyana di Fahrenheit 451 ed il bel movie ricavatone da Truffaut?39
Di fronte a tutto questo, il libro appare come l’’ultima spiaggia’ per l’umanità del futuro, per formare degli uomini che siano davvero liberi, cioè capaci di pensare, ovvero di mettere in discussione il potere, perché il libro e la cultura, come ha detto Elitis della poesia, sono «una fonte d’innocenza colma di risorse rivoluzionarie.»40
Ma la guerra condotta dalla classe politica italiana contro la cultura non è meno implacabile di quella dichiarata alla magistratura: quando c’è da tagliare sulla spesa pubblica, si taglia sempre sulla ricerca, perché solo una dirigenza miope ed ignorante come quella italiana, che ha portato il Paese allo sfascio, può pensare che l’investimento nella cultura non sia produttivo, anche in termini puramente economici. Ogni ministro che è andato ad occupare i dicasteri della Pubblica Istruzione e dell’Università ha assunto l’aspetto ferino d’un impietoso guastatore, come se fosse andato lì per lasciare sul terreno quanti più cadaveri fosse possibile.
Di fronte a tutto questo la letteratura, nella sua funzione di critica al sistema, assume le forme eroiche di un ultimo possibile baluardo della civiltà dinanzi ai barbari che incalzano ai confini dell’impero in progressiva, inarrestabile decadenza: «Il senso della letteratura è la sua necessità espressiva. Il senso della politica è che si sostenga e si giustifichi quella necessità. Non c’è spazio per la semplificazione, né per le gazzarre giornalistiche. Se continuiamo a parlare dell’Italia, è perché “la parola libertà è oggi adagiata sul filo di un rasoio”41. Si scrive, si deve continuare a leggere, così come si impara nuovamente a vivere in una storia di sangue. Qualcuno ha già parlato di nuovo peronismo; più rude, più punitivo, cinicamente italiano. Vorremmo dire basta al sangue bianco dell’eufemismo, alla grossolanità, al fratricidio malcelato delle false polemiche o delle vere miserie del dibattito politico. E ancora basta alle rifrazioni di quel sangue: al nero, agli incubi che ogni giorno soffocano la mente, e non ci fanno più essere, né pensare; ognuno di noi sempre più debole, ancor più impaurito, quasi cancellato, come se davvero non fosse nemmeno più possibile pensare una vita profonda, una convivenza democratica e civile. Se qualcuno volesse convincerci di come ormai sia inevitabile, forse giusta, la resa dei conti, noi opporremmo semplicemente il nostro diritto di far letteratura: il dovere dell’attenzione, la pazienza della solidarietà, l’intelligenza e la vita del confronto.»42
Come scrive Enzo Siciliano, «Dico questo poiché più che mai sento urgente il bisogno di sottolineare quanto nel rispetto delle diversità — un rispetto forte, esclusivo — si annidi la chance per la letteratura d’essere sempre più se stessa. Condannata alla marginalità dalle manovre dirompenti di un giornalismo che accetta la scrittura sulla base di superficiali proprietà transitive [come è stato gustosamente detto, il giornalismo «Un tempo toglieva gli uomini alle lettere; oggi – il che è più grave – ne dà»], la letteratura può riacquistare peso solo nel porre in primo piano la complessità dei suoi modi d’essere, della propria ricchezza prospettica — nell’accettare in maniera spassionata la propria sostanziale, specifica non omogeneità.»43 E più avanti, nel Diario, nel paragrafo relativo al dicembre ‘94: «Conflitti fra magistratura e potere politico. Il potere politico esaspera i toni, e mostra una palese continuità col passato, — quando Craxi si alzava in parlamento e accusava politicamente i giudici d’essere politicizzati. Questa replica di cose ha una sola differenza: Craxi trasudava ossessioni sessuali; Alfredo Biondi, whisky.»44
Indubbiamente, «L’apertura della crisi ha sicuramente interrotto un processo di costruzione d’un regime. L’operazione era divenuta subito evidente con l’attacco del governo Berlusconi alla Rai, alla magistratura, al Parlamento. Ma il dato più significativo era rappresentato dalla volontà di dare un segno plebiscitario al nostro sistema politico.»45
Argutamente, nella didascalia di una foto, Maria Laura Rodotà canzona il leader azzurro: «La riscossa italoforzuta ha la faccia di Piersilvio. Eccolo che esulta per il gol di Weah, tutto denti e pugni da berlusconismo “vincente” (con la e stretta, alla milanese). E con tanti, splendenti, inquietanti braccialetti.»46, che dalla fotografia proposta da “L’Espresso” continuano a luccicare, sinistramente, nei nostri occhi…
Invece bisogna capovolgere la forma mentis italiana, di stile «mafioso», come dicono — duramente ma giustamente — gli Americani; bisogna passare, come ha mirabilmente detto Antonio Di Pietro, dalla partitocrazia alla meritocrazia.
Come afferma Angelo Panebianco, “L’Italia contemporanea rappresenta certamente il caso in cui più esasperato è stato ed è, nella communis opinio (e nonostante Mazzini), lo “sganciamento” della dimensione dei diritti da quella dei doveri. Tanto la cultura alta che ha riflettuto sulla cittadinanza, quanto la politica e i mass media sembrano essere approdati a un’idea di cittadinanza che potremmo chiamare di «rivendicazionismo senza contropartite.”»47
È pure vero, d’altra parte, che il rapporto fra cittadini e istituzioni è biunivoco, e la classe dirigente di uno Stato, specialmente se elettiva, non è altro, al fondo, che l’espressione del livello civile d’un Paese. Nell’Italia dell’ultimo dopoguerra, come scrivono gli psicologi individuali Parenti e Pagani, si è venuto affermando — o meglio si è semplicemente andato consolidando, sulla scorta di tutto un antico, secolare retaggio storico-politico — una sorta di «trasformismo furbesco»: uno ‘stile’, aggiungiamo noi (per dirla in termini adleriani), improntato ad una compiaciuta, egocentrica, derisoria soddisfazione per la frode ed il raggiro dell’istituzione (avvertita come il nemico sleale contro cui, dunque, a nulla varrebbe la lealtà), nonché all’elusione opportunistica del ‘regolamento etico’, del quale l’unica misura valida è la legittima-zione proveniente dal ‘successo’48.
E mentre il superamento di questo vergognoso ‘stile italiano’ è purtroppo — ancóra e tragicamente — molto in là da venire, restano, intanto, solo le ragioni della più grande scuola di verità e libertà che mai l’uomo abbia creato: l’arte, la letteratura; quella libertà e quella verità delle quali è stato certamente un maestro Franco Fortini, intellettuale pasoliniano e alfiere della ‘sinistra negativa’ francofortese, nostro compagno di viaggio che ci ha prematuramente lasciato, ed al quale — oggi più che mai — non può non andare il nostro mesto, commosso rimpianto. Molte sue parole restano con indelebili caratteri di fuoco nella mediocrità — per nulla oraziana — del presente: come ha scritto Paolo Di Stefano, «in quegli anni Fortini denunciava gli intellettuali italiani come “lavoratori salariati” dell’industria culturale. E li invitava a “preservare le residue capacità rivoluzionarie del linguaggio”.»49
In una lettera stesa tre settimane prima della morte, il poeta fiorentino ci ha lasciato un inquietante testamento spirituale: «Tommaso d’Aquino, Marx, Pareto, Weber, Croce e Gramsci mi hanno insegnato che la libertà di espressione del pensiero, sempre politica, è sempre stata all’interno della cultura dominante anche quando la combatteva. […] Non fascismo. Ma oscura voglia, e disperata, di dimissione e servitù; che è cosa diversa. Sono vecchio abbastanza per ricordare come tanti padri scendevano a patti, in attesa che fossero tutti i padri a ingannare tutti i figli. Cerchiamo almeno di diminuire la quota degli ingannati. Ripuliamo la sintassi e le meningi. Non scriviamo un articolo al giorno ma impariamo a ripeterci, contro la audience e i contratti pubblicitari. Diamo esempi di “cattiveria” anche a quei lavoratori che dai loro capi vengono illusi di battersi attraverso le strade con antichi striscioni e poi, nel buio della Tv, ridono alle battute dei pagliaccetti di Berlusconi [o della RAI, aggiungiamo noi]. […] Mai come oggi, credo, il massimo della flessibilità tattica del politico vero dovrebbe andar d’accordo con la rigidità delle scelte di fondo. Un modesto zapping basta a capire che è inutile declamare estremisticamente, come ora sto purtroppo facendo. Bisogna dire di no [«Nicht Mitmachen», «Non collaborare» aveva detto Löwenthal]; ma c’è qualcosa di più difficile e sto cercando di farlo: dire di sì in modo da non nascondere il “no” di fondo; se si crede di averlo e saperlo. Pagare di persona, secondo le regole del finto mercato che fingiamo di accettare: ossia dimettersi o costringere altrui alle dimissioni, ritirare o apporre le firme e le qualifiche e il proprio passato, affrontare sulla soglia di casa o di redazione le bastonature fisiche o morali già in scadenza. Anni fa scrissi, enfaticamente, che il luogo del prossimo scontro sarebbero state le redazioni. Quel momento è venuto, il luogo è questo. Chi tiene famiglia, esca. Chi ha figli sappia che un giorno essi guarderanno con rispetto o con odio alle sue scelte di oggi. Scade il primo semestre di chi ha preso il potere, come tanti altri, legalmente, coi voti di un terzo degli elettori, ossia giocando con la manovra dell’informazione e la debilità culturale ed economica di tanti nostri connazionali e, perché no, con la nostra medesima.
Cari amici, non sempre chiari compagni; / cari avversari, non sempre invisibili agenti e spie; / non chiari ma visibilissimi nemici; / vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. / Dimenticatelo se potete.»50
Ma noi non lo dimenticheremo, mai: perché una società incivile si può distinguere da una civile, in ultima analisi, anche soltanto da questo: la prima considera l’arte e la cultura un lusso, la seconda una necessità. L’Italia, in questo senso — e in molti altri ancóra (si pensi ad esempio alll’efferata lotta che viene condotta dalle istituzioni contro il suo patrimonio e la sua tradizione culturale, non ultima quella contro il Latino, ormai più apprezzato e meglio conosciuto in Africa che da noi) — sembra tristemente (e colpevolmente) occupare uno degli ultimi posti nel mondo. Sembra, insomma, che la nostra classe politica abbia sposato una famigerata, raggelante dichiarazione di Goering: «Quando sento parlare di cultura, tiro fuori la rivoltella».
Perché essere ‘uomini di cultura’ vuol dire essere, sulle rovine incombenti d’un incipiente «Medioevo prossimo venturo»51, ‘uomini di civiltà’.
Roberto Pasanisi
________________________
Note
1) Nello Ajello, Italiani di fine regime. Il tramonto della Prima Repubblica dalla A alla Z, Milano, Garzanti, 1993, p. 26. Nello Ajello, giornalista napoletano di “Repubblica” e saggista, ci dà con questo libro un sapido spaccato dell’Italia meschina e parassita di questi anni oscuri, tutto giuocato, come preannuncia l’appropriata epigrafe lautréamontiana dell’incipit, sul filo di un «rire mélancolique». Sui rapporti tra mafia e politica cfr., in particolare, Nicola Tranfaglia (a cura di), Cirillo, Ligato e Lima. Tre storie di mafia e politica, Roma-Bari, Laterza, 1994.
2) Mauro Calise, Dopo la partitocrazia. L’Italia tra modelli e realtà, Torino, Einaudi, 1994, IV di cop. Per una più ampia prospettiva storiografica, cfr. Simona Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1994.
3) Calise, Dopo…, cit., p. 145.
4) Enzo Biagi, Morte di una Repubblica, Prefazione a Marcella Andreoli, Processo all’Italia. Il Belpaese alla sbarra: storie di delitti ordinari e di castighi eccellenti, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1994, pp. VII-IX, p. VII.
5) Generoso Picone, Andreotti si pente «Sulla Dc Pasolini aveva ragione». Clamorosa autocritica del senatore, “Il Mattino”, 1995.
6) Roberto Pasanisi, Il tempo dei giusti e degli onesti: dall’ ‘orrendo banchetto’ al ‘sacco del lucroso bottino’; dalla ‘rivoluzione morbida’ alla ‘primavera italiana’, in “Nuove Lettere”, III, 4, 1992, pp. 15-29. Cfr. pure Id., Nascita di una nazione. La ‘rivoluzione magistratuale’ italiana, in “Genius”, 3, 15/III/1995, p. 12.
7) Andreoli, Processo…, cit., p. 54.
8) Manuela Campari, Muti: “Stanno uccidendo la cultura”. Severo atto d’accusa contro l’indifferenza dei governi e contro la Rai: “Così si arriva alla dittatura”, “la Republica”, 11/VII/1995, p. 1.
9) L’Abbado furioso: «Alla musica l’Italia preferisce le sfilate di moda». Direttori d’assalto, “Il Mattino”, 18/IX/1995, p. 10.
10) Donatella Longobardi, Bussotti: «Lascio l’Italia, qui non si rispetta la musica». Il musicista stasera a Capua esegue in anteprima le sue nuove composizioni, “Il Mattino”, 29/IX/1995, p. 15.
11) Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Epoca! I libri del punto esclamativo, 1988, p. 115; p. 114; p. 116; ma cfr. anche tutto il pregevole cap., intitolato 18 febbraio 1975. I Nixon italiani (pp. 112-116).
12) D. Gay de Girardin, Le socialisme et l’impôt.
13) C.R., Sceneggiate da showman, in “L’Espresso”, XLI, 43, 29/IX/1995, pp. 53-54, p. 53.
14) Frank Cimini, «Così tentò di salvarsi». Dura requisitoria di Colombo per il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, “Il Mattino”, 5/X/1995, p. 4.
15) C.R., Sceneggiate…, cit., ibidem. E ancóra: «A proposito delle tangenti alla Finanza, per le quali è stato rinviato a giudizio, sabato 14 ottobre ha parlato di “fatti che erano successi anni prima”. Domenica 15 ha insistito: “Vanno a cercare episodi che risalgono a otto anni prima”. Ebbene, le ispezioni della Finanza per addomesticare le quali la Fininvest pagò 380 milioni ebbero questi tempi: Videotime marzo-giugno 1988, Mondadori luglio-dicembre 1991, Mediolanum gennaio-aprile 1992, Telepiù dicembre 1993-marzo 1994. Altro che “otto anni prima”!».
16) C.R., Sceneggiate…, cit., p. 54. E si potrebbe aggiungere che l’accusa è anzi, per un capo di governo, ancor più doverosa, in quanto enormemente più grandi, rispetto al cittadino comune, sono le sue responsabilità ed i suoi doveri verso il Paese che l’ha chiamato a governare.
17) Antonio Carlucci, Non è tutt’oro quel che Filippo. Mancuso / un bilancio: nomi e numeri, in “L’Espresso”, XLI, 43, 29/IX/1995, pp. 45-47, p. 45. «Perché, si sono chiesti i rappresentanti dei magistrati, il ministro invia gli ispettori a Milano o a Napoli, mentre tralascia giudici rinviati a giudizio per corruzione?» (Maria Paola Milanesio, Mancuso-magistrati, guerra continua. Manifesti dell’Anm contro il ministro. Che promuove azione disciplinare contro due pm di Bologna. Berlusconi: non deve dimettersi, “Il Mattino”, 12/X/1995, p. 4).
18) Edgardo Pellegrini – Adriana Ranieri (a cura di), 1995, il golpe. Berlusconi contro Mani pulite. Scandalo Mancuso. Ricatto a Scalfaro. Il ritorno di Cossiga, Roma, Libera Informazione Editrice (supplemento al n. 40 di “Avvenimenti”), 1995, p. 37.
19) Pellegrini – Ranieri (a c. di), 1995…, cit., p. 41.
20) «Vogliono fermarci». Il pm Greco all’attacco: bloccate le tangenti, non le indagini, “Il Tempo”, 12/XI/1995, p. 3.
21) Frank Cimini, Il pm Ielo intercetta i veleni di Craxi. Mani Pulite all’attacco di Bettino. «È lui che ispira la campagna contro magistrati e Pds. L’accusa del pm scaturisce da una serie d’intercettazioni telefoniche, da cui emerge che l’ex leader sarebbe il burattinaio della campagna giornalistica su «Affittopoli» e tenterebbe di condizionare la politica di Forza Italia, “Il Mattino”, 30/IX/1995, p. 4.
22) «Sì, le ispezioni frenano il nostro lavoro». D’Ambrosio: vogliono processarmi perché la penso così?, “Il Mattino”, 8/X/1995, p. 7.
23) Cfr., a magistrale sostegno di quanto affermato, specialmente le pp. 376e-417b della Politeía (Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, tomus IV, Oxford, Oxford University Press, 1978)
24) Mario De Simone, Telecamera con vista: sulle polemiche. E la Maiolo propone: «Aboliamo il 416 bis», “Il Mattino”, 25/IX/1995, p. 5.
25) De Simone, Telecamera…, cit., ibidem.
26) L’Anm attacca Mancuso: è un ispettore. Un manifesto dei giudici. Ma il Cavaliere difende il Gurdasigilli. Berlusconi: il processo Andreotti danneggia l’Italia, “Il Mattino”, 12/X/1995, p. 1.
27) Emilia Costantini, La beffa di Pasolini contro la tv-cloaca. Il teatro scopre un testo inedito: per la star Ninetto Davoli un «auditel» al liquame. Tre registi mettono in scena l’«Histoire du soldat» che contiene una feroce denuncia profetica sugli eccessi del piccolo schermo, “Corriere della Sera”, 26/III/1995, p. 28.
28) Cfr., per un inquadramento generale e per un primo corredo bibliografico sulla quaestio, focale nella modernità, della Kulturindustrie, Roberto Pasanisi, Il ‘folle scialo’. L’Italia allo sbando, la ‘falsa soggettività’, l’industria culturale, in “Nuove Lettere”, II, 3, 1991, pp. 11-22.
29) Fellini: cinema italiano ora all’ultima spiaggia, “Il Mattino”, 1985.
30) Così Franco Ferrarotti in Maria Tiziana Lemme, Consigli contro gli acquisti per i giovani telecomandati. Il circolo vizioso dell’analfabetismo. Il denaro come feticcio assoluto. L’assenza d’interessi e stimoli culturali. I riflessi occupazionali della mancanza di«cervelli flessibili». La necessità di adeguare la scuola ai nuovi problemi (Intervista a Franco Ferrarotti), “Il Mattino”, 5/X/1995, p. 15.
31) Giuseppe Mininni – Rodolphe Ghiglione, La comunicazione finzionante. Io, la televisione, Milano, Franco Angeli, 1995, pp. 23-24.
32) Lemme, Consigli…, cit., p. 15.
33) Mininni – Ghiglione, La comunicazione…, cit., IV di cop.
34) Vittorino Andreoli, Giovani, Milano, Rizzoli, 1995.
35) Pasolini, Scritti…, cit., p. 69; ma cfr. pure tutto il ‘pezzo’, che porta il titolo 22 settembre 1974. Lo storico discorsetto di Castelgandolfo (pp. 66-69).
36) I. Illich, Descolarizzare la società, Milano, Mondadori, 1972, p. 86.
37) E. Reimer, La scuola è morta, Roma, Armando, 1973, p. 28.
38) J.H. Plumb, The Death of the Past (1969).
39) Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (1953); François Truffaut, Fahrenheit 451 (1966; interpetato, nei ruoli principali, da Oskar Werner, Julie Christie e Cyril Cusak). Mentre il romanzo insiste sul versante sociologico, il film mette invece l’accento sulla metafora terrificante della distruzione dei libri.
40) «Considero la poesia una fonte d’innocenza colma di risorse rivoluzio-narie. La mia missione consiste nel dirigere queste forze contro un mondo che la mia coscienza rifiuta di accettare, esattamente in modo da rendere quel mondo, attraverso continue metamorfosi, più in armonia con i miei sogni. Mi riferisco qui a una sorta di magia contemporanea il cui meccanismo conduce alla scoperta della nostra vera realtà.»: così il grande poeta neo-greco in Nicola Crocetti, Introduzione a Odisseo Elitis, Sole il Primo, Milano, Guanda, 1979, pp. 7-14, p. 7.
41) Enzo Siciliano, Diario, in “Nuovi Argomenti”, 3, 1995, pp. 7-11, p. 9.
42) Arnaldo Colasanti, Notizia, in “Nuovi Argomenti”, 3, 1995, p. 4.
43) Enzo Siciliano, Tempi stretti (Editoriale), in “Nuovi Argomenti”, 3, 1995, pp. 5-6, p. 5.
44) Enzo Siciliano, Diario, in “Nuovi Argomenti”, 3, 1995, pp. 7-10, p. 9.
45) Stefano Rodotà, Parole di una crisi, in “Nuovi Argomenti”, 3, 1995, pp. 10-11, p. 11.
46) Maria Laura Rodotà, Alla destra del cavaliere. Clan Berlusconi / Una domenica allo stadio, in “L’Espresso”, XLI, 43, 29/IX/1995, pp. 58-59, p. 58.
47) Angelo Panebianco, «Representation without Taxation»: l’idea di cittadinanza in Italia, in “Il Mulino”, 333, 1991, pp.54-60, pp.58-59.
48) Francesco Parenti – Pier Luigi Pagani, Capire e vincere la depressione. La ‘protesta in grigio’ dei nostri giorni, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1988, p.80; ma cfr. pure tutto il cap. intitolato Lo stile depressivo nel Paese dei paradossi: note di costume sull’Italia contemporanea (pp.80-136).
49) Paolo Di Stefano, Fortini. La poesia sulle barricate. Maestri. Critico e scrittore impegnato. È scomparsa una delle più significative e controverse figure della cultura italiana del ‘900, “Corriere della Sera”, 29/XI/1994, p. 29.
50) Franco Fortini, Una lettera del 5 novembre: «Cari amici, non sempre chiari compagni», “Corriere della Sera”, 29/XI/1994, p. 29.
51) Di Roberto Vacca, oltre al noto saggio intitolato, appunto, Il medioevo prossimo venturo, ricordiamo, sul medesimo tema, l’interessante romanzo La morte di Megalopoli. L’ultima spiaggia del progresso, Milano, Mondadori, 1974.