La vecchie serpe

La vecchia serpe si è svegliata e ha ricominciato ad avvelenarmi il sangue.

Mio padre, povero ragazzo. Qualche sera fa ho visto in televisione le immagini della parata marittima organizzata da Mussolini a Napoli in onore di Hitler. Mi è venuto in mente che lì in mezzo doveva esserci anche mio padre, allora diciottenne, allievo ufficiale all’Accademia di Livorno, inghiottito dall’ingranaggio di quella follia collettiva.

A quell’epoca mia madre aveva sei anni. Quando scoppiò la guerra e di notte suonavano le sirene e si doveva correre nei rifugi sotterranei, mia zia Annamaria aveva una reazione isterica, e si metteva davanti allo specchio a farsi le trecce. Il suo desiderio più grande, mangiare di nuovo pane e mortadella, come prima della guerra. Mia zia Margherita invece, durante un bombardamento fu ferita a un occhio dalla scheggia di una granata. La portarono in ospedale tutta sanguinante, lei urlava «Voglio la mia pace, ridatemi la mia pace». Di mia madre non so niente, ma so che ha assistito a tutto questo, che come le sorelle doveva alzarsi all’improvviso di notte, che come le sorelle pativa la fame. Anzi no, so che mia madre odiava la minestra di piselli in polvere che costituiva uno dei pasti abituali durante la guerra. So che quando mandarono lei e le sorelline dai parenti in campagna lei di notte piangeva perché voleva tornare dai genitori. So che a un certo punto casa loro fu bombardata. Furono ospitati per qualche tempo da alcuni conoscenti, poi si spostarono in un altro appartamento. Suo padre, ufficiale di Marina, fu ferito e morì a casa.

Prima della disgrazia, aveva avuto per anni l’abitudine di svegliare le figlie alle sei di mattina e portarle a correre per le strade di Napoli prima della scuola.

 

Mio padre aveva rinunciato al sogno di studiare lettere. Ma aveva imparato il tedesco, seguendo da uditore un corso all’Istituto Orientale. Lo aveva fatto perché a sedici anni aveva conosciuto una ragazza ebrea austriaca che fuggiva in Argentina con la famiglia. Si era innamorato e sognava di raggiungerla. Ma questo ovviamente non accadde mai, e a un certo punto lei smise di scrivergli.

Però, grazie alla conoscenza della lingua, durante la guerra poté stringere amicizia con un soldato tedesco di stanza a Napoli. Si chiamava Horst, suonava il pianoforte e andava spesso nella casa fredda e povera dove mio padre abitava con  mia nonna, a Via San Mandato. Un pomeriggio Horst si presentò da mia nonna, cercava mio padre. Ma mio padre era di servizio. Horst disse a mia nonna che lo mandavano in Africa, non poteva trattenersi a lungo. Aspettò, aspettò. Mio padre non tornava. Horst andò via e mio padre non ebbe mai più sue notizie. Quando mio padre pensava a Horst, gli salivano le lacrime agli occhi, e diceva: «Che bel giovane».

Io e mia madre siamo legate da una disgrazia: la mia nascita. O meglio, il mio concepimento. In altra parole, da Io. Io è la bambina che nella solitudine della sua stanza si tastava la mano sinistra con la destra e si ripeteva: Io.

Insomma, io sono stata concepita quando mio fratello aveva tre mesi. A causa di questa gravidanza, mia madre fu costretta a non allattare più mio fratello. Io, invece, le succhiai il latte per ben nove mesi, con sua grande sofferenza, perché lei era molto esaurita, dopo la seconda gravidanza e il secondo parto (il mio ovviamente fu pilotato: sembra che proprio non volessi nascere, o forse era mia madre che non voleva mollare; comunque, fu molto doloroso), e la vita matrimoniale che non si era rivelata proprio quella che lei aveva sognato, e sua suocera in casa con lei, e mio padre possessivo all’inverosimile, e insomma, questo esserino nato con la fica al posto del pisellino che l’aveva costretta a togliere il latte al primogenito.

Fatto sta che mia madre mi cantava una ninnananna dolcissima: la storia di una mamma che moriva di dolore. Pare che Io fosse talmente rompiballe da strepitare a tal punto da impedirle di cantarla tutta.

Quando mi prendeva in braccio, mi diceva: «Ogni dispiacere che mi dai è una spina nel cuore della mamma, che un giorno morirà di dolore». Una volta le dissi che se fosse morta mi sarei attaccata a suoi piedi e sarei salita in paradiso con lei.

Povera mamma.

Mio padre era un bambino molto vivace, pare addirittura esagitato. Ipercinetico, ribelle, turbolento, diceva le parolacce e non aveva il senso del pericolo. Gli piaceva camminare sul tetto e faceva disperare mia nonna. Tecnicamente secondogenito – suo fratello maggiore Emanuele era morto subito dopo il parto – era il primo di cinque figli, due maschi e tre femmine. Quando suo padre morì di polmonite aveva dieci anni e mise la testa a posto. Decise, o qualcuno gli comunicò, che da quel momento l’uomo di casa era lui ed era sua la responsabilità verso sua madre e i suoi fratelli e sorelle.

Il Banco di Napoli, dove mio nonno aveva lavorato in un archivio sotterraneo e umido fino ad ammalarsi a morte, offrì a mia nonna di scegliere tra una pensione (forse non molto lauta) e la possibilità di far crescere e studiare i due figli maschi al Convitto Nazionale. Mia nonna scelse la seconda opzione. Fu così che mio padre e mio zio Pio, che all’epoca aveva cinque anni, si ritrovarono improvvisamente senza padre, senza madre e senza sorelle. Zio Pio faceva la pipì a letto e tutte le notti l’istitutore lo svegliava per prevenire l’enuresi e accompagnarlo in bagno.

Mio padre diventò uno scolaro modello, si rivelò intelligentissimo e particolarmente studioso. Diventò anche lo zimbello dei compagni, e qualcuno gli fregò la collezione di francobolli che ostinatamente aveva voluto portarsi dietro e che conservava nel suo armadietto.

Però all’età di sedici anni, visti i suoi strabilianti risultati scolastici, fu premiato con un viaggio in Argentina destinato ai figli di papà, al quale lui invece poté partecipare a spese del Convitto. Fu durante la traversata dell’Atlantico che mio padre conobbe la ragazza ebrea austriaca di cui si innamorò. Il suo sentimento era ricambiato, e i genitori di lei evidentemente non fecero storie. Fatto sta che arrivati a Buenos Aires si dettero un appuntamento. Mio padre non sapeva come comunicarlo all’istitutore, temeva di non ottenere il permesso di allontanarsi dal gruppo. Mentre erano in tram, tentò di scendere di nascosto, ma per l’emozione inciampò, successe un parapiglia, l’istitutore, che sapeva tutto ma faceva finta di non sapere niente, gli sussurrò «vattènne», e mio padre poté rivedere la sua innamorata.

Questa storia papà me l’ha raccontata un giorno che camminavamo per strada e lui già si aggrappava al mio braccio. «Povero fesso», si disse ridendo quando ripensò a come era caduto scendendo dal tram, e lo ripeté quando mi confidò che aveva deciso di imparare il tedesco sperando di poter sposare un giorno quella ragazza. Infine concluse: «Non lo dire alla mamma».

Poveri mamma e papà.

Io mi sono sempre sentita molto sola. Non so quanto dipenda dalla storia del latte tolto a mio fratello e dalle spine nel cuore di mia madre; o dal fatto che mio padre quando avevo sei anni mi portò dal barbiere insieme ai miei fratelli e mi fece rapare quasi a zero, il che mi rese irriconoscibile come femmina in una classe femminile. O dalle figurine dei calciatori. Mio padre cicomprava le figurine dei calciatori, e la domenica ciportava a Villa Pamphili a giocare a pallone con i compagni di classe di mio fratello. Quando si facevano le squadre io valevo mezzo, perché ero femmina. A scuola ogni lunedì la maestra ci faceva fare un tema su come avevamo trascorso la domenica, e io ero diventata la barzelletta della classe, perché mentre le altre bambine raccontavano di bambole, giochi con la mamma e vestitini della domenica, io facevo la cronaca dettagliata della partita di pallone.

 

A casa, i miei fratelli o litigavano o parlavano di calcio. Dopo essermi lungamente tastata la mano sinistra ripetendo Io, andavo da mia madre che parlottava con mia zia Annamaria e le chiedevo: «Mamma me lo dai un bacetto?». Mia madre alzava gli occhi al cielo ridendo e mi rispondeva: «Beata te. Tieni la capa fresca». Era materialmente incapace di darmi un bacetto.

A un certo punto incominciai a scriverle lettere disperate, spiegandole che mi sentivo orribilmente sola. Gliele lasciavo sul letto. La sera, lei trovava la lettera, la leggeva, mi chiamava, io entravo nella stanza inviolabile dei miei genitori, mia madre con aria impacciata diceva: «Ė tornato il postino» e mi faceva sedere vicino a lei. Io piangevo a dirotto, per la solitudine, per la vergogna, per l’umiliazione di averla messa ancora una volta in condizione di non sapere cosa dirmi e cosa fare con me. Mio padre entrava e usciva dalla stanza come se io non ci fossi, come se non ci fosse sua figlia che piangeva e chiedeva aiuto senza neanche saper suggerire di che aiuto aveva bisogno.

Che situazione penosa. Smisi di scrivere lettere a mia madre e smisi di chiederle aiuto e bacetti.

Ogni spina nel cuore di mia madre è un sassolino nella mia scarpa destra. Perciò forse non porto le scarpe con i tacchi alti e mi sono divertita a scrivere La Signorina M.

Quando era all’Accademia Navale, mio padre nelle sere di libera uscita restava in camera a studiare. Mandava tutti i soldi a casa, e non spendeva nulla per sé o per divertirsi.

Un giorno che era tornato a Napoli, camminava baldanzosamente per Piazza Dante quando vide venirgli incontro un istitutore del Convitto Nazionale. Mio padre sfoderò uno dei suoi sorrisi schietti, ma quello gli si avvicinò con la faccia buia e gli disse: «Non ti spaventare, tuo fratello è in ospedale, si è fatto un poco male». Quella notte era crollato il tetto della cappella. Era crollato sul letto di mio zio. A zio Pio fu amputata la gamba sinistra. Quando lo seppe, mia nonna «sbiancò in volto e cadde lunga per terra». Pochi mesi prima Maria Rosaria, la sorella preferita di papà, quella con cui suonava il pianoforte a quattro mani, era morta di tisi in sanatorio.

Da quando traduco le poesie di Heine ho preso l’abitudine di leggerle a mia madre, quando la domenica vado a trovarla. Mia madre non legge più perché dimentica tutto, e le piace molto ascoltare le poesie.

 

A mia madre B. Heine,

nata Von Geldern

           I

Son uso camminare a testa alta

E d’indole, inflessibile e testardo 

Se pure il re mi stesse lì di fronte

Per niente al mondo abbasserei lo sguardo

 

Eppure, cara Mamma, te lo dico: 

Per quanto la mia boria sia sfrontata

Accanto a te che sei affettuosa e dolce

Mi sento spesso timido e mansueto

 

Forse il tuo spirito mi domina in segreto,

Il tuo nobile spirito che permea tutto quanto

E s’alza fino al cielo, col suo ardore?

 

O forse mi tormentano i ricordi

Di qualche azione che t’ha offeso il cuore,

Quel cuore bello che mi ha amato tanto?

    

       II

Un tempo ti ho lasciata, in preda alla follia,

Volevo attraversare tutto il mondo

Sperando di trovare un grande amore,

Per abbracciar l’amore con l’amore

 

In ogni vicolo io ho cercato amore,

Le mani ho teso avanti ad ogni porta

E ho mendicato briciole d’amore,

Ma solo ingiurie e scherno ho ricevuto

 

E sempre pazzo io cercavo amore,

Sempre l’amore, e amore non ho avuto

Malato e triste son tornato indietro

 

E tu eri lì e mi sei venuta incontro,

Ed ecco che splendeva nei tuoi occhi

L’amore dolce che ho cercato tanto

 

Ooooohhh, ripete mia madre, guardandomi con gli occhi lucidi di commossa soddisfazione. Non so se pensi a sua mamma o a me, però ho la sensazione che misteriosamente queste due poesie parlino di me e mia madre, di un amore profondo, complicato e inespresso.

 

La vecchia serpe, mamma, è l’orrore della tua indecifrabile tristezza, l’orrore dei vostri drammi, quelli tuoi e di papà, l’angoscia delle vostre giovinezze infrante e mai vissute. Ė l’invocazione Io, Io, che mi ripeto quando mi manca il fiato e mi sento soffocare. Ė un vuoto nero senza fondo, è un dolore che mi taglia dentro da quando sono nata e sento il buio intorno a me.

Di Napoli ricordo la luce del sole. Ricordo il mare che brillava nelle giornate terse.

Mio padre lavorava all’Avvocatura dello Stato e chiese il trasferimento a Roma. Quando traslocammo avevo quattro anni. Ricordo l’odore di cloro che usciva dalle tubature quando si apriva il rubinetto dell’acqua, a casa nuova. E ricordo l’odore di caffè che usciva dalla torrefazione di Piazza San Nazzaro a Napoli.

Ero per mano a mia madre, lei camminava svelta e decisa, io tenevo il passo trotterellando, e intanto vedevo guizzare tra i palazzi il luccichio del mare di Mergellina.

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