La poesia si aggira tra gli orrori delle metropoli, braccata dalla modernità
In una società in cui il denaro, e non più l’uomo, «è misura di tutte le cose», neppure la bellezza, categoria ontologicamente ineludibile, come fine o come mezzo, dell’opera d’arte, riesce a trarsi in salvo da una lenta ma inesorabile agonia, desacralizzata com’è, fra l’altro, dalla sua «riproducibilità tecnica»1. «La perte d’auréole colpisce anzitutto il poeta»2, che, disperato flâneur tra gli `orrori metropolitani’ delle `città tentacolari’, vede parallelamente vacillare uno dei suoi punti di riferimento più irrinunciabili, la donna, petrarchesco `strumento d’espressione’ da sempre deputato ad essere portatore del valore `bellezza’. Come dice Benjamin, già «Il diciannovesimo secolo cominciò a inserire la donna, senza riguardi, nel processo della produzione mercantile. Tutti i teorici concordavano sul punto che la sua femminilità specifica era minacciata, e che tratti virili si sarebbero necessariamente manifestati in essa con l’andar del tempo. Baudelaire […] vuole sottrarli alla sovranità dell’economico. […] Il modello ideale della donna lesbica rappresenta la protesta dell’arte moderna contro l’evoluzione tecnica.» Vano eroico tentativo, di fronte alla manus tentacolare della società: «Nella prostituzione delle grandi città anche la donna diventa tale.»3. Infatti, «L’ambiente oggettivo degli uomini assume, sempre più apertamente, la fisionomia della merce. Nello stesso tempo la réclame si accinge a coprire col suo bagliore il carattere di merce delle cose. Alla trasfigurazione menzognera del mondo delle merci si oppone la sua disposizione in senso allegorico. La merce cerca di guardarsi in faccia. E celebra la sua incarnazione nella prostituta»4.
Di fronte all’assassinio della bellezza ed alla perdita di senso della vita perpetrate dalla modernità, la poesia viene ad essere per Maria Rosaria Luongo l’estremo «antidoto» (per riprendere il titolo del celebre libro di Jonesco); il poeta si aggira così attraverso gli `orrori metropolitani’ alla ricerca disperata d’una `salvezza’ che l’inferno della città non può più dargli: qui la metropoli è esemplificata da una Napoli dai toni apocalittici, «città di oltraggiose / passioni»5, coacervo inestricabile di caos e degrado urbano, connotata dalle più ammorbanti e graveolenti sensazioni olfattive: «losporco nella piazzetta ormai fa parte / di diritto dei luoghi, il tanfo / dei rifiuti, il rumore nelle pieghe dell’aria» (Nell’alba); «[…] la metropoli / alimenta assieme ai topi e alle carcasse / sventrate d’automobili: s’avverte / più greve il fiato della piazza.» (Alle sette di sera). Nel labirinto si aggira l’«animale metropolitano» che dà il titolo alla raccolta, facendo anche da significativa ouverture: è l’uomo in quanto tale, derubato della sua sofferta umanità; ma è anche l’uomo al più alto grado di umanità, o almeno di consapevolezza, il poeta, che vi cerca affannosamente i segni della bellezza e di un senso, trovandovi soltanto quelli d’una desolata modernità: sono immagini di periferie degradate («in quest’opaco quartiere-dormitorio»)6, in cui pure il poeta riesce talvolta a cogliervi un barlume di poesia («pavesato di giubbotti ragazze la squadra / del cuore,»)7 o di senso («arrotolo in fretta il mio / universo di senso»)8; sono scenarî del grigio `deserto metropolitano’ («la città ingrigisce sull’asfalto maculato / di rifiuti nell’aria nei cuori volti passi»)9, rischiarati a tratti da baluginii di caproniana memoria10. Ne nasce una `ideologia del non’, una vena di malinconica, desolata tensione esistenziale, che germoglia nel grido sabiano dell’explicit di Strategia di sopravvivenza: «assolti di non aver pagato la tassa giornaliera / su questa non-vita non-amore non-giustizia non-pace / del cuore: oh poesia strategia di sopravvivenza / urbana -»)11: ma «La Sibilla per lui ha già emesso / i suoi ambigui vaticinii.»12, e la via è quella suprema del nulla nella città-inferno («tra gli a piombi del cemento e certe erbe grame stente di smog – niente»)13. Nella `giungla d’asfalto’ (richiamando il titolo del celebre movie di Huston)14, «tra fiati incresciosi […] / […] / […] stanca di tutto», Maria Rosaria Luongo passa in rassegna, in versi di sapore comico-realistico ed in un registro colloquiale, gli obbrobrî dell’ `industria culturale’, dal Grande Fratello televisivo alle surrettizie fantasmagorie della pubblicità: solo il ricordo dolce dell’infanzia sembra lenire la condizione di spaesamento dell’uomo, e dell’artista («[…] i teneri / tremori dell’infanzia protetta / dal caldo cuore familiare:»)15, fargli ritrovare un brandello di autenticità nella recita del vivere («parlare fingersi vivi attivi presenti»)16.
Il tragitto metropolitano su un autobus diventa così un’originale metafora della modernità e della condizione umana («Stamattina nel pullman affollato / di corpi mal desti di fiati incresciosi»)17, in cui l’attraversamento della città è un emblematico, epocale iter fra i gironi dell’inferno contemporaneo, in cui la poetessa può tuttavia essere «ancora illesa dalla quotidianità» attraverso l’esorcismo sublime della poesia18; così Maria Rosaria Luongo può concludere, con Elitis: «Allora affondo dentro di me / e il mondo ritorna bello / a misura d’anima.»19; ribadendo, nella poesia che conclude Animale metropolitano, «Vorrei una città amica», «Una città dai grandi occhi azzurri», «Un vaso grembo notturno / dove intrecciare i passi e i pensieri / senza diffidenze e timori / e al mattino / ampie piazze spalancate / ai voli e girotondi dell’anima.»20
Prefazione di Roberto Pasanisi
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Note
(2) Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti [1955], tr. it., Torino, Einaudi, 1981, p.134.
(3) Ibidem, p.135, p.137.
(4) Ibidem, pp.135-136.
(5) Tramonto a via Caracciolo, vv. 5-6, in Maria Rosaria Luongo, Animale metropolitano, Napoli, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, 1993: da questo volume sono tratte tutte le citazioni successive dei versi della poetessa napoletana.
(6) Quartiere, v. 2: come non pensare agli scenarî allucinanti della famigerata 167, lo sterminato rione della cinta periferica di Napoli, luogo insuperato di desolazione ed orrore urbano?
(7) Ibidem, vv. 14-15.
(8) Ibidem, vv. 23-24.
(9) Città grigia, vv. 3-4.
(10) Cfr., a mo’ di specimen, i versi celeberrimi del Gibbone: «Nell’ossa ho un’altra città / che mi strugge. E là. / L’ho perduta. Città / grigia di giorno e, a notte, / tutta una scintillazione / di lumi […]». Cfr. Roberto Pasanisi, Giorgio Caproni: l’assoluto e le cose, in “Esperienze Letterarie”, XVIII, 1, 1993, pp. 83-90 e Id., Giorgio Caproni: l’absolu et les choses, in “Le Langage et l’Homme” (Bruxelles, Belgique), XXVII, 4, 1992, pp. 293-300.
(11) Vv. 22-25.
(12) Metropolitana, vv. 8-9.
(13) Non è bene, v. 6.
(14) The Asphalt Jungle (U.S.A., 1950), con uno Sterling Hayden al culmine del glamour e del carisma filmico nel ruolo di protagonista.
(15) Pioggia nel cortile, vv. 10-12; si noti l’alliterazione «teneri / tremori», che rimanda all’explicit della Sera ungarettiana: «dove tenere tremano erbe» (Sentimento del tempo, 1933). Un’altra, altrettanto risentita e pure sulla /r/, troviamo in Settembre in periferia, v. 4: «Nelle ore d’aria della periferia:».
(16) Poesia in pullman, v. 4.
(17) Ibidem, vv. 1-2.
(18) Ibidem, v. 12.
(19) Mattino, vv. 14-16. Cfr. Odisseo Elitis, “Bevendo sole di Corinto”, vv. 14-15: «Uno sguardo esteso dove il mondo ridiventa / Daccapo bello alla misura del cuore.» (Sole il Primo [1943], a cura di Nicola Crocetti, Milano, Guanda, 1979, p. 33).
(20) Vorrei una città amica, v. 1; v. 6; vv. 10-15. I versi ricordano certe `aperture’alla Pavese.
(1) Cfr. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936], tr. it., Torino, Einaudi, 1966.