Ofelia muore, Stefania Giovando

Ofelia muore

Si svegliò di soprassalto, i capelli intrisi di sudore, le mani attanagliate alle coperte, gli occhi sbarrati nel buio, il petto oppresso da un peso insopportabile. Cercò di penetrare le tenebre che l’avvolgevano come in un sudario, senza riuscirvi.

Dove sono? – fu la prima domanda che le salì alla coscienza non ancora del tutto vigile.

Dio mio, dove sono? – ma l’oscurità non poteva fornirle una risposta.

Il cuore le batteva all’impazzata, il sudore si era fatto gelido, gli occhi, sbarrati nel buio, le bruciavano di lacrime.

Dove sono? – la domanda continuava a martellarle le tempie.

Sentiva uno strano odore, un misto di Lysoformio e  di formalina. Ne fu terrorizzata. Aveva già sentito quell’odore. Un odore sottile  e persistente, un odore acuto e inusuale, un odore ipnotico e dolciastro…

L’odore della morte! È l’odore della morte, questo!

Improvvisamente seppe dove si trovava.

L’obitorio! Dio mio, aiutami, sono all’obitorio! Sono immobile, stesa su uno di quei gelidi lettini…

L’orrore la invase con la furia di uno tsunami.

Perché si trovava lì? Lei non era morta…o sì?

Provò a muovere una mano, ma non vi riuscì. La stessa cosa accadde con una gamba e poi con un piede, con un braccio, con la testa e con tutte le altre parti anatomiche che cercò di muovere, in una specie di parossismo  che sfociava nel più desolato terrore.

Calma -si disse – stai calma, Ofelia. Non sei morta, non puoi esserla. Cogito, ergo sum. Penso, quindi sono. Dunque, sei viva. Eccome se la sei.

Era viva, sì, ma immobile. Viva ma inerme. Viva e nel buio più totale. Se solo ci fosse stata una luce accesa…

Ma se…se la luce fosse stata accesa e se lei non l’avesse percepita? Se fosse stata…Dio mio, se fosse stata…cieca?

Il panico cominciò ad invadere ogni fibra, ogni cellula del suo essere, ma un’idea, più un ricordo che una vera e propria forma di pensiero, si fece strada nella sua mente.

L’udito! Aveva sentito dire che l’udito era il senso che persisteva più a lungo perfino nei moribondi e, dato che lei era viva… tese l’orecchio. Niente. Non un suono, non un rumore, non un fruscio nella gelida solitudine di quel luogo. Un urlo muto le invase la mente e il cuore, senza poter uscire all’aperto.

Chiuse gli occhi. Sapeva che nel buio gli occhi tentano di penetrare le tenebre, suscitando incertezze e paure.  Doveva sforzarsi di riflettere, di vedere con gli occhi della mente, che non inganna mai, escludendo quelli del corpo, perfidi e ingannatori.

Chiuse gli occhi  e improvvisamente ricordò.

Era stato la sera prima. Daniel sullo sfondo di quel tramonto che incendiava il cielo e l’anima, Daniel con gli occhi verdi dolci e penetranti, Daniel che la guardava con tenerezza e compassione.

“Mi dispiace, Ofelia, mi dispiace – aveva detto – ma non posso. Non posso andare avanti così. Il lavoro, la famiglia, tu… e i fantasmi del passato. Marina è tornata a cercarmi. Non fraintendermi, ti prego. È solo che la mia vita è diventata un casino totale. Ho bisogno di tempo, ho bisogno di pensare, ho bisogno di fare chiarezza nella mia vita. Ti prego, perdonami…”

Parole come veleno. Come un coltello che entrava lentamente nell’anima, squarciandola a poco  a poco, con raffinata e dolorosa crudeltà. Come un macigno che scende sul tuo petto e ti opprime e ti schiaccia e riduce il tuo cuore in frantumi sempre più piccoli, così piccoli che non li trovi più.

Che rumore fa il cuore, quando si spezza? Perché nessuno lo sente? Tu odi il suo fragore, dentro di te, ascolti le schegge impazzite che si spargono ovunque, portando pezzetti di dolore e di sangue nel tuo corpo e nella tua anima. Ma nessuno lo sente, puoi camminare per la via, puoi entrare nel silenzio di una chiesa, puoi metterti di fronte ad una folla, ma nessuno  si accorge di te che muori piano piano, senza più fiato, senza più sangue, senza più respiro.

Daniel, però, sapeva. Lui sapeva sempre tutto di lei. Le aveva chiesto l’anima e lei, con la gioia serena di una bambina, gliel’aveva donata a piene mani.
Daniel, oh, Daniel…- aveva invocato, lasciando che fosse il cuore  a gridare, mentre le sue labbra rimanevano mute.
Lui se n’era andato, una figura confusa nell’aria della sera, che si era fatta indaco e viola, mentre un brivido di freddo le percorreva le membra e le gelava l’anima.

Non aveva deciso volontariamente di morire. Il suicidio non rientrava nel suo stile di vita e di pensiero, non faceva parte della sua mentalità… Certo, in quel momento, se il mondo fosse finito, se il Creatore avesse scatenato una forza devastatrice che spazzasse via l’universo intero, se  quel mare così calmo e tranquillo si fosse improvvisamente alzato in un’onda gigantesca e senza scampo, lei avrebbe accettato l’ineluttabile con perverso piacere, quasi con gioia. La vita senza Daniel non le sembrava più vita. Senza  i suoi occhi, senza le sue mani, senza la sua voce…

L’auto era sbucata all’improvviso dalla curva. Avrebbe potuto evitarla, se avesse fatto un passo. Solo un passo. Marina è tornata a cercarmi.  Solo un passo. Marina è tornata. L’auto l’aveva presa in pieno, falciandola in mezzo alla via nella quale si era fermata come in trance, a pensare. Il dolore dell’anima, così acuto e devastante, in un attimo non c’era più, cancellato, fagocitato, superato da quell’altro dolore, quello del corpo, che le aveva tolto il fiato e spezzato le membra e travolto la coscienza.

No, non aveva voluto morire.

E non sei morta! La consapevolezza le diede coraggio. Doveva trovare il modo di farsi sentire da qualcuno, di far capire che era viva, in quel corpo immobile sotto il lenzuolo.

Le parve di sentire un rumore ritmato, leggero, lieve, come un sospiro. Cercò di capire che cosa fosse, da dove provenisse, e le parve che scaturisse da un punto imprecisato dalla parte del suo fianco sinistro. Era un rumore conosciuto, quello, un rumore sereno, un rumore amico. La constatazione fu fulminea e surreale.

Qualcuno al suo fianco, stava respirando piano, come se dormisse.

Daniel! Daniel era lì!

Allungò una mano  e trovò il corpo dell’amato, morbido, caldo, rassicurante.
Hai mosso la mano!

Daniel sospirò lievemente, appena infastidito nella profondità del suo sonno sereno.

Ofelia allungò anche l’altro braccio, piano piano, con timore. Sentì la conosciuta morbidezza della coperta, avvertì il calore del legno, riconobbe il muro della parete, il quadro appeso sopra la sua testa, le lenzuola, il comodino alla sua destra, il filo della  piccola abat-jour.  

Un sogno, era stato solo un sogno, un orribile sogno! Non era successo niente. Il suo mondo non si era rovesciato. Lei non aveva perso la forza di gravità, volando via nell’iperspazio, senza più forza e senza scampo. Daniel non le aveva detto addio. Erano lì, in quel letto dove avevano così spesso dimenticato il mondo intero e le sue regole spietate.

Sospirò di sollievo.

Coraggio! – si disse – Accendi l’abat-jour, alzati, bevi un bicchiere d’acqua e torna  a letto.  Le braccia di Daniel sono così morbide e accoglienti…

Il braccio le sembrava pesantissimo, tuttavia riuscì a muoverlo, seppure a fatica.  Piano piano lo allungò verso il ripiano del comodino alla sua destra, tastando per cercare l’interruttore che l’avrebbe riportata nel mondo reale.

Non lo trovò.

Per quanto si sforzasse, per quanto tastasse, per quanto cercasse, quel maledetto interruttore non c’era…o non c’era più?

Calma – si disse – stai calma, fai un bel respiro. Espandi i polmoni, permetti all’aria di entrare negli alveoli. Concentrati sulla respirazione.  Allarga… inspira…contrai…espira….così,  lentamente… non badare a quel suono insistente, non badare a quel dolore sordo, non badare a tutto quel buio…i fantasmi del passato…non badare…Marina è tornata…non moll…Mar…ti pr…è torn…è fin…Dan…mi disp……………………………………………………………………..

 

Non mollare, ti prego! – gridò Daniel

È finita –  disse il dottore  -Mi dispiace.

 
Stefania Giovando

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