Visioni della malinconia tra l’intimo e il globale
Mary Shelley, Rihard Matheson e Philip K. Dick di Kiki Franceschi
“Ce fut un sommeil de cauchemars, de rêves pervers, damnés, érotiques, morbides, qui commença par la terreur de la
nuit: La mort est un sommeil sans rêve et sans Dieu.”
G. A. Bertozzi, Retour à Zanzibar, éditions du Rocher, Paris, 2008, p. 194
La malinconia è talvolta sentimento legato alla paura, a quella paura che è la più spaventosa e che
purtroppo oggi ci appartiene, quella sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di
indirizzo o di una causa chiari, per dirla con le parole di Zygmunt Bauman, di una ragione.
“Paura” è il nome che diamo alle nostre incertezze, “alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò
che c’è da fare – che possiamo o non possiamo fare – per arrestarne il cammino o […] almeno per
affrontarla. ” 1
La malinconia si nutre di questa diffusa incertezza, della minaccia incombente e sconosciuta che
attanaglia e ammanetta alla sofferenza, a un dolore interno, irrimediabile, padrone unico di
un’esistenza di cui non siamo più i protagonisti. La malinconia nasce e si nutre della certezza che
siamo niente in un mondo oramai senza confini. Siamo il prodotto del caso, di un’improvvisa
oscillazione della materia.
Non c’è speranza nel nostro destino.
Non ci sono risposte ai tanti perché. Incapaci di utopia si vive all’interno di una fortezza
domestica, sgomenti, ossessionati da un quotidiano che diviene ossessione. Le utopie sono quelle
allucinate e consolatorie visioni giuste per appagare i desideri. Con le utopie abbiamo reagito nei
tempi tremendi della storia passata, inventandoci destini diversi, paesi dell’Eldorado, Repubbliche
Platoniche; abbiamo tentato di abolire le barriere di classe, di casta, di razza. E a volte ci siamo
riusciti. Allora la speranza scioglieva i nodi della paura, spazzava via ogni incertezza e ci faceva
inventare e credere in realtà possibili, diverse. Oggi ci sentiamo in trappola, impotenti, immersi
nella malinconia. Sappiamo che il nostro futuro è minacciato o meglio siamo minacciati dalla
perdita di futuro, di futuribilità della nostra storia. Non siamo più gli antichi schiumatori di mari,
bucanieri beffardi, fondatori di imperi, pirati fantasiosi mossi alla scoperta di mondi lontani. Siamo
tutti morti, tutti colpevoli, vinti, posseduti, invasi, soggiogati e forse anche affascinati da quella
morte che abitiamo; quella morte, offesa massima, che decide la nostra fine, che è anche la fine del
nostro mondo poiché la fine del mondo è comunque antropocentrica, “rivelandosi in trasparenza
2
come intessuta delle angosce personali per una inevitabile messa in discussione della nostra
certezza inconscia di eternità. ” 2
È dunque la pulsione di morte oggi a dominarci, è il disprezzo per la vita, la diffidenza verso gli
altri.
L’erranza non è più il rimedio alla disperazione: il ripiego è vivere nel cerchio ristretto della
domesticità, del privato, nella propria personale fortezza assediata. Non più luoghi ove tornare, solo
luoghi del non ritorno e nostalgia come sentimento del non ritorno. Nostalgia come desiderio del
ritorno verso un luogo indefinito e affettivo, un luogo che fu, perso nel tempo e nello spazio del
ricordo.
Nostalgia e melanconia, segnate anche dal dolore di una perdita, della propria terra, di un affetto,
del proprio ruolo, “della casa e dei luoghi dell’infanzia, della giovinezza e del tempo che fu: ma
anche nel profondo quella di una persona amata che dava un senso e risposta al tuo ‘chi sono’. ” 3
La malinconia richiede solitudine, introspezione, abbandono, affondamento nell’in-sé. Allora è
fertile, perchè sollecita, stimola l’attività visionaria. A questo sentimento attingeva una delle
scrittrici più inventive e visionarie dell’Ottocento: Mary Shelley.
Già nel 1816, appena diciannovenne, disperata per la perdita di una figlia neonata, per quella della
madre amatissima mai conosciuta, rifiutata dal padre perché era fuggita con il poeta Shelley che per
lei aveva abbandonato moglie e figli, e tremendamente depressa, scrive il Frankenstein iniziando un
viaggio nel profondo a ritrovare le sepolte ragioni della sua sofferenza, esplorando con coraggio la
sua Africa interiore, per dirla come Jean Paul. Scrive un romanzo incentrato sulla figura di un
modello post-umano artificiale, cibernetico si direbbe oggi, che diverrà da allora in poi l’emblema
del terrore nell’immaginario della paura. Il mostro è un androide, risultato dell’assemblaggio di
membra umane stimolate dall’elettricità. È il prototipo del cyborg, che lei inventa seguendo le
suggestioni della filosofia scientifica a lei contemporanea; quell’androide tuttavia è anche il
simulacro delle sue paure e angosce. È il simulacro della sua malinconia.
Quell’androide è un revenant, che reclama vita.
È il suo stesso vampiro. È androide e vampiro. Ma è anche il suo doppio.
La storia racconta che in una cupa notte di novembre lo scienziato Victor riesce a infondere la vita
all’essere inanimato che ha composto; vede la creatura che apre gli occhi foschi e gialli e lo guarda.
Quella creatura infelice è orrenda.
La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i
suoi capelli erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo;
3
[…] i suoi occhi acquosi, […] dello stesso colore delle orbite, di un pallore terreo […] le sue labbra nere e diritte.
[…] dormii, sì, ma il mio sonno fu disturbato dagli incubi più spaventosi. […] La abbracciavo con gioia-(Elisabeth, la
fidanzata) ma le labbra […] assumevano il pallore livido della morte, i suoi lineamenti mutavano, ed ecco che io
stringevo fra le braccia il cadavere di mia madre; un sudario ne ricopriva le forme e io potevo vedere i vermi che
strisciavano sotto i lembi della stoffa. 4
L’ambizioso scienziato ha paura. È annichilito dal rimorso e dal terrore. Non tanto perché quel
corpo assemblato vive, non solo perché fa gesti nervosi, riflessi dallo stimolo elettrico. Il suo terrore
nasce quando s’accorge che la cosa che ha creato non è un oggetto, ma un essere che lo guarda con
occhi umidi e pieni di pensiero. È un soggetto intelligente, diverso, che è autonomo e che lo
interroga con gli occhi.
Il potere di quello sguardo è spaventoso.
Sgomenta.
C’è una forza persecutoria in quello sguardo che trasmette un senso di minaccia terribile perché
ignota. Il mostro non ha il dono della parola, solo uno sguardo colmo di perché. Che sono anche i
“perché” di Mary Shelley, perché della vita, perché della morte – così troppo vicina a lei sin dalla
sua nascita – perché della solitudine. Quella solitudine qualche volta cercata, il più delle volte
sopportata con tristezza. 5
Quello sguardo nasce dall’occhio interno con cui sa scrutare se stessa. La ricerca di sé,
l’affondamento nell’ in-sé rimuovono in lei incubi, immagini, anche mostruose. La visione del
mostro che guarda incuriosito, spaventato, e che incapace di parlare, sembra chiedere al suo
creatore la ragione della sua nascita proprio con la forza dello sguardo, crea un climax drammatico
e sospeso. Lo sguardo di Mary è lo sguardo del mostro, traduce ribellione e disperazione,
smarrimento e melanconia. Mai lo sguardo è innocente; con gli occhi si irride, si seduce, si
possiede, si giudica, si annienta.
Lo sapevano bene i romantici. Gli eroi fatali dei romanzi gotici o delle ballate, con la loro
presenza, con la forza dello sguardo andavano verso la distruzione degli altri e di se stessi, nello
sguardo acuto, febbrile e melanconico si coglieva il senso della fine, dell’insensatezza
dell’esistenza, la minaccia di una tragedia prossima. L’errante romantico dallo sguardo indocile e
addolorato fuggiva dal perturbante domestico, da un quotidiano che lo perseguitava affidandosi al
mondo da esplorare.
L’avventura era un antidoto alla melanconia, al male di vivere.
Il mostro creato da Mary Shelley non è solo un automa. È umano, troppo umano. È nato dalla
morte come lei.
4
È una sconvolgente creatura che conserva i tratti malinconici, disperati, della sua stessa
condizione. (Lei come il mostro, ha conosciuto solo il padre ed è stata rifiutata dal padre).
Non descrive mai il mostro, ci racconta solo della forza del suo sguardo, dei suoi acquosi gialli
occhi. Sarà nel 1931, il regista James Whale, autore del celeberrimo film con Boris Karloff, a
trasmettere nel nostro immaginario la visione tremenda e disperata dell’androide gigantesco e
barcollante, con la testa imbullonata come il libro di Depero, dai movimenti spezzati e meccanici;
un cyborg imperfetto, figlio dei Golem, degli automi e delle bambole meccaniche. Il simulacro
creato da Whale partorirà i tragici replicanti e i cyborg di tanta letteratura e filmografia
contemporanea. L’androide-vampiro della Shelley è dunque nato da quegli incubi che afferrano la
psiche quando ci si abbandona alla straniante malinconia, alla solitudine segnata dal senso
incombente di morte. È una figura del tragico, dell’oscuro doppio dell’uomo che condurrà a Dottor
Jeckill e mister Hyde. Se il vampiro della tradizione nasceva dalla cultura contadina, dalle sue
ossessioni legate alla paura ancestrale del ritorno dei morti e alla fame, il vampiro moderno, quello
letterario come lo definisce Vito Teti, è un personaggio doppio, demoniaco e infelice. Talvolta può
essere colto, raffinato, curioso, erotico e seduttore, penso al Dracula di Bram Stoker o al Nosferatu
di Werner Herzog che da quel libro trasse un film, figure segnate dall’ansia, dall’insensatezza del
vivere che tracciano un fil rouge tra il mostro della Shelley, i vampiri o gli antieroi della letteratura
ottocentesca di genere fino alla letteratura fiction contemporanea, alle opere di Richard Matheson e
Philip K. Dick, popolate da esangui assassini, da sopravvissuti a catastrofi ecologiche o a guerre
atomiche mondiali, da vampiri costretti all’assassinio per sopravvivere che s’aggirano in città
deserte, lunari, sommerse da polvere radioattiva e da rifiuti. Tutti personaggi ossessionati dalla
morte, dalla fine del mondo, dall’apocalisse prossima che spengerà la nostra civiltà. Non vale
quindi fuggire. Forse sarebbe meglio emigrare su altri mondi. “Emigrate o degenerate”, ci avverte
lo slogan del romanzo di P. K. Dick, Blade Runner. Ciò che atterrisce è l’ubiquità della paura che
può scaturire da ogni angolo, recesso nascosto della casa o luogo remotissimo del nostro pianeta. La
paura è in agguato nel buio della strada, in cucina o in camera da letto, nel giardino, in ciò che
beviamo o mangiamo, nella natura stessa che ci scatena addosso onde anomale, uragani e tifoni, o
nei terroristi alieni o alieni terroristi.
5
Quotidiani sono gli avvertimenti globali di guardarsi da virus, droghe, vaccini, onde anomale “o da
ogni altra possibile causa di morte imminente”. 6
Viviamo la fine della civiltà e la morte come un’anomalia, come un’incurabile devianza, e allora
grazie alla nostra cultura tecnologica creiamo un ambiente igienico, artificiale che allontani la morte
dalla vita, trasformandola in arte. La sterilizziamo, la criogenizziamo, la vetrifichiamo, la
plastifichiamo, la climatizziamo, la trucchiamo. Mi viene in mente la moda delle Funeral Homes
magistralmente descritte da Evelyn Waugh in “The loved one” o il Moratorium svizzero di Ubik di
Philip K. Dick, e quel museo di Mannheim, inaugurato qualche anno fa che non esponeva opere
d’arte ma l’uomo stesso deceduto, imbalsamato, scarnificato, vetrificato, plastificato, colto nel gesto
quotidiano, in un movimento bloccato che non alludeva certo all’eterno.
La morte è nella vita.
Memento mori.
Una volta localizzata va scongiurata in un luogo preciso, il corpo, che esiste per essere votato alla
morte e proprio per questo risveglia il gusto macabro per l’artificiale che ha il suo equivalente nel
sacrificio.
È dagli anni Sessanta che i body artisti ci ripropongono nei musei, asettici nuovi luoghi di culto, il
rinnovato rituale della Totentanz, macabra e spettrale rappresentazione che allude a un mondo ormai
sconfitto e senza speranza di redenzione o riscatto.
Il pubblico che va a vedere le performance di Orlan, Stelarc, Franco B, o Herman Nistch, solo per
fare qualche nome tra i più noti attori della body art, è mosso dalla stessa smaniosa aspettativa del
pubblico che una volta si accalcava davanti alla forca per vivere l’imminenza della morte come
evento sacrificale. Oggi è la nostra cultura tecnica a creare un ambiente artificiale di morte. La
televisione che trasmette le quotidiane macellerie senza odore di morte segna un orizzonte di morte
lontano, cristallizzato. Noi siamo al riparo, la morte è lontana. In questa convinzione troviamo un
rimedio allo struggimento, alla mestizia, alla paura. Non vale fuggire. Non ci sono varchi da
superare. 7
Le necropoli sono luoghi di culto di società scomparse. Oggi le bare di vetro fatte per congelare la
memoria del mondo sono oramai gli elaboratori elettronici. Non sarà Prometeo a rubare il fuoco per
donarlo agli uomini. Oggi è l’hacker che s’impadronisce della rete e mette in crisi il potere che
possiede quel sapere. È lui che in un momento potrebbe diventare padrone del mondo.
L’eternità è racchiusa in una formula matematica ed è in un’altra formula matematica il segreto
della longevità e della vita. Il sogno di Victor Frankenstein non è utopia.
6
Il nuovo scienziato segue i processi della criochirurgia e crioterapia, della conservazione dei tessuti
in stato di vita rallentato grazie al freddo e può davvero creare la vita, modificarla, clonarla. (È di
poco tempo fa la notizia inviatami dal poeta lettrista Maurice Lemaitre, che è stata scoperta la
proteina grazie alla quale i batraci possono rigenerare gli arti feriti o perduti. Sarà dunque possibile
anche con gli uomini?).
Siamo esseri biologici qualunque. Abbiamo perduto l’eternità, il primato. Siamo replicanti smarriti
e malinconici, struggenti di nostalgia per ciò che fummo nelle storie passate. Quando vivevamo per
conquistare l’eternità.
C’è un racconto dello scrittore americano Richard Matheson del 1954 ma che si svolge nel 1976,
che mi piace ricordare in questo contesto. È I am legend. 8
L’autore scrive il romanzo negli anni terribili del maccartismo che colpisce alla cieca tra gli
intellettuali e artisti radicals con lo stesso accanito furore della caccia alle streghe. È la nuova
Inquisizione. L’opera di Matheson si snoda tutta sul campo domestico della normalità, di un
quotidiano scosso e alterato da eventi improvvisi e minacciosi. È la domesticità, tremenda nel
rituale delle azioni ripetute, perturbante, umheimlich, a essere il genius loci della minaccia.
sapeva di dover anche bruciare i piatti di carta e le posate, di dover spolverare i mobili, lavare i
lavandini e la vasca da bagno e il water ed di dover cambiare le lenzuola e la federa del letto; ma
non ne aveva voglia. Perché era un uomo ed era solo, e queste cose per lui non avevano più
importanza. 9
C’era stata un’epidemia misteriosa, diffusa da una tempesta di polvere. Forse conseguenza delle
sperimentazioni atomiche così frequenti in quegli anni. Gli uomini si erano trasformati in esangui
esseri, simulacri di vampiri, alla ricerca di sangue fresco per sopravvivere e costretti a distruggersi,
divorarsi gli uni con gli altri. “riusciva comunque a sentirli, lì fuori, a sentire i bisbigli, i passi, le
grida, il ringhio e le risse tra di loro. ” 10
E ancora:
un’ombra nera e notturna era emersa strisciando dal Medioevo. Un’ombra priva di credibilità,
consegnata di sana pianta alle pagine della letteratura fantastica. I vampiri […] erano finiti a fare
da frumento per la macina degli scrittori pulp o da materia prima per la produzione di film di
secondo ordine […] se non fosse che esistevano davvero. 11
7
Il protagonista del romanzo sopra citato Robert Neville, un biologo che per una circostanza
fortunata è immune dalla malattia, è la preda ambita degli esangui disgraziati. È solo, impaurito,
terrorizzato:
di nuovo quella sensazione di irrequietezza, la sensazione di espandersi mentre la casa si
restringeva, al punto che presto avrebbe lacerato la struttura in un’esplosione di legno, intonaco e
mattoni […] si fermò sul prato a succhiare l’aria umida del mattino, evitando di guardare la casa
che tanto detestava. Ma detestava anche le case che circondavano la sua, e odiava la strada e i
marciapiedi e i prati e tutto quel che c’era su Cimarron street. 12
Non era fuggito, e per andare dove? E a quella casa vuota, polverosa e odiata era abituato. Era una
sua consuetudine come vivere.
Dopo pochi anni di una vita assediata, minacciata da quegli immondi esseri, segnata dalla violenza
e dallo scandire inesorabile di un quotidiano fatto di atti ripetuti- ricerca di cibo, costruzione di armi
per difendersi dagli attacchi notturni, musica e bicchierino di whisky come consolazione – Neville si
suicida col veleno. Mentre aspetta la fine una risata soffocata gli sale in gola:
si volse e s’appoggiò alla parete e inghiottì le pillole. Il cerchio si chiude. Un nuovo terrore nasce nella morte, una
nuova superstizione penetra nell’inespugnabile fortezza dell’eternità. 13
è un sistema di certezze familiari quello che s’incrina nel romanzo. Dove esisteva qualcosa di
sicuro, ora s’infrange al tocco e apre un vuoto che nasconde l’atroce e l’inesplicabile, regalando al
protagonista un costante presagio di sconfitta e di morte che finisce per essere la dominante della
sua vita. 14
In una recente intervista al suo editore italiano, Sergio Fanucci, Richard Matheson dice del suo
romanzo:
Ci sono vampiri ovunque. Le Corporation succhiano il sangue agli americani, i media usano la
televisione per fargli fare quello che vogliono e così fanno le vamp con gli uomini che s’illudono
di essere superiori. E i vampiri sono scesi in Iraq, in Medio Oriente e in Cina. È un mondo dove
governa la paura e il nostro Presidente la incoraggia. 15
Anche nel racconto Duel dal quale Spielberg trasse l’omonimo film e di cui l’autore fu anche
sceneggiatore, è la routine, il gesto consueto a farsi metafora della disperazione. 16
8
Qui un truck, un camion enorme e arrugginito, insegue senza tregua e motivo altro che quello di
ottemperare al rituale della caccia, un’automobile condotta da un pacifico rappresentante di
commercio, Mister Mann. È proprio il non senso terribile di quella caccia che scandisce i momenti
di una quotidianità insensata e tremenda, fatta di code ai distributori, di desolati pub lungo le
carreggiate aperti per smarriti clienti che consumano da soli il loro pasto, di assolate, interminabili,
polverose strade che vanno a forare l’orizzonte, quelle strade che dividono l’America da oceano a
oceano, sotto un sole bianco e cocente, border to border. Niente mito del nomadismo romantico alla
Kerouac.
Qui la storia è violenta, l’ avventura è cupa, la solitudine e la paranoia sono protagoniste.
La vita non ha senso, procede sotto la minaccia di una sventura, di un male incombente e
incomprensibile. Altro che controcultura. Altro che gli anni mitici peace and love. La caccia
insensata finisce: il camion assassino si rovescia in una scarpata, esplode e il conducente misterioso,
muore.
Mann strisciò lentamente verso il ciglio e guardò in fondo al canyon. Enorme lingue di fiamma si
levavano verso l’alto, sormontate da un fumo nero, denso, oleoso […] poi inattesa giunse
l’emozione […] nemmeno la nausea, che seguì poco dopo. Più che altro, un tumulto primigenio:
l’urlo di una belva ancestrale sul cadavere del nemico sconfitto. 17
In un altro breve racconto di Matheson, poco conosciuto è Born of man and woman. Ancora una
volta è il “diverso”, il mostro ad essere protagonista. Il fatto originale è che questa volta è un
bambino di otto anni, segregato in cantina dalla famiglia per la sua orrenda diversità. Diversità per
altro tenuta nascosta al lettore. L’autore si addentra nei territori psichici del piccolo là dove
scaturiscono le sue paure, il dolore, la perplessità, la carica di solitudine per essere abusato e
aggredito dalla cattiveria degli adulti senza una ragione da lui comprensibile. Ancora una volta la
violenza, la stupidità della ferocia, il disamore tra gli uomini hanno il sopravvento. Non c’è che
reagire con altrettanta violenza: “se cercano di picchiarmi di nuovo gli farò male. Lo prometto. ”
Dice tra sé e sé il piccino.
Se per Mary Shelley i progressi scientifici segnavano il progredire della storia, seppure in modo
azzardato e pericoloso, così ammoniva, ora lo sviluppo incontenibile della scienza e della tecnica,
obbediente solo al potere politico e alle leggi di mercato, si trasforma in una minaccia reale.
così il mondo tutto diventa interamente sintomatico dei propri conflitti inconsci che si ripetono
coattivamente in atti di distruzione auto ed etero-diretti.
9
Da qui però anche l’emergere di figure simboliche che rappresentano e ‘interpretano’ questi contenuti inconsci e i loro
affetti, offrendosi come possibilità dis-velante, di lettura, del rimosso. 18
Ai vampiri, ai morti viventi, ai mostri assemblati si aggiungono altre presenze perturbanti e
malinconiche insieme: i mutanti e i cyborgs. Penso a Do Androids dream of electric sheep? 19 opera
del 1968, meglio conosciuta come Il cacciatore di Androidi, il capolavoro di Philip. K. Dick, da cui
Ridley Scott trasse il film Blade Runner.
Questa la storia.
C’era stata una guerra di cui nessuno ricordava il perché ci si fosse trovati in guerra, né chi avesse
vinto, ammesso che qualcuno avesse vinto. E poco dopo ci si era trovati sommersi di polvere che
pian piano aveva fatto ammalare o morire gli animali e poi gli uomini. Dapprima erano morte le
civette. Nel Medioevo le pestilenze si erano annunciate con le morie dei topi, ma questa non era la
peste, era un’epidemia calata dall’alto. L’Onu incoraggiava l’emigrazione dei superstiti su altri
pianeti, perché il rimanere sulla terra portava alla morte o alla demenza, a diventare cioè cervelli di
gallina, chick-brain, vera minaccia per la purezza del retaggio genetico umano. Chi emigrava
poteva possedere un androide a sua scelta e nel 1990 “l’assortimento dei modelli aveva superato
ogni possibile immaginazione.” 20
I mutanti Nexus-6 sono androidi ribelli, macchine umane fascinose, simulacri di un’umanità senza
morale e disperata. L’azione del racconto si svolge in una futura San Francisco del 1992, dove il
mercato è base di ogni scelta morale e folli scienziati lavorano implacabilmente alla costruzione di
pezzi di ricambio umani su programma della Rosen Association. Sono veri replicanti, costruiti con
materiale umano, hanno un gradevole aspetto umano e un cervello capace di pensiero autonomo e di
sentimenti comuni come l’odio e l’amore, hanno perfino dei ricordi o meglio simulacri di ricordi,
innestati nel loro cervello per dare loro l’illusione d’essere umani. Sono attirati dal fascino malvagio
degli umani, vagano, languidi e minacciosi Wanderers su una terra inospitale e tetra, coperta da una
coltre di finissima polvere radioattiva, il kipple, e da scorie di ogni genere. Sanno che la loro vita,
racchiusa tra una data di immissione, la loro nascita e una data di termine, la loro morte, sarà breve,
non più di quattro anni, il tempo giusto perché siano produttivi al massimo, impiegati in lavori a
rischio o per esplorare e abitare eventuali altri mondi. Un bolso tecnico di mezza età, Rick Deckard,
un Blade Runner ben diverso dal bel Harrison Ford del film di Ridley Scott, saprà come distruggerli
e quindi dà via alla caccia.
10
Tutti i personaggi, umani e non, sono come ammalati di malinconia, perché si confrontano con
temi profondi come l’umana paura di morire, l’anelito all’immortalità e la nostra debolezza di
fronte a eventi più grandi di noi. Dice l’androide Pris: “Lei non crede che io soffra perché mi sento
sola. Diavolo, su tutto Marte ci si sente soli […] gli androidi soffrono la solitudine anche loro.” 21
E ancora: “siamo tutti schizofrenici, soffriamo di disfunzioni della nostra vita emotiva,
appiattimento di affetti si chiama. ” 22
Chi sono io? Chi sono gli altri? s’interroga il cacciatore. Lui sa che la bellissima Rachel è creatura
artificiale, ma è così perfetta da non distinguersi dagli umani: ha sentimenti, può piangere, ha
ricordi che crede suoi, ma che le sono stati innestati perché si convinca di essere umana e non crei
problemi.
Sa di essere un oggetto artificiale di breve durata, creato solo per eseguire un compito previsto. È
un oggetto, una monade solitaria e impenetrabile, fatta per obbedire a volontà superiori.
Anche Deckard, il cacciatore è un semplice esecutore. Si sente, e forse lo è davvero, un replicante
addestrato a uccidere i suoi simili. Si muove in un’atmosfera sospesa, dilatata, ovattata in una
malinconia straziante. La ribellione degli androidi, poveri esseri reietti e diversi, schiavi
programmati, violenta e estrema, è destinata alla sconfitta. Il processo di sfaldamento del reale si
percepisce in tutta la sua drammaticità e gli androidi ci appaiono più umani di coloro che li hanno
fatti, tanto che non si riesce a distinguere gli uni dagli altri. Tutti sembrano vivere una realtà
estranea, frantumata, ogni personaggio ha un suo mondo soggettivo modellato sulle proprie nevrosi.
Il cacciatore si chiede ascoltando Jupiter di Mozart se anche l’arte abbia un senso:
Si chiese se anche Mozart aveva avuto qualche intuizione che il futuro non esisteva […] lo spettacolo finirà, i
cantanti moriranno, con il tempo anche l’ultimo spartito verrà distrutto, il nome di Mozart scomparirà e la polvere
avrà vinto. 23
La stessa visione di una realtà liquida, incerta, sfuggente si ha in un’altra opera dickiana, Ubik.
Ubik è una presenza enigmatica che assume forme e funzioni diverse come un camaleonte: ora è
uno spray reclamizzato con il linguaggio artefatto della pubblicità, ora è un prodotto, ora è un Dio
del consumo. Dio si mostra nelle cianfrusaglie, nelle lattine di birra, nei formidabili prodotti Ubik,
che sono il collante di un mondo oramai in dissoluzione, marcescente, irrecuperabile. Non c’è una
trama ma mille trame che s’intersecano. Alla fine si scopre che la storia narrata si è svolta in un
mondo inesistente, in uno spazio temporale indefinibile. È un sogno, raccontato da chi forse è già
morto. Il tempo è un non tempo.
11
La realtà ha un numero infinito di facce che si sovrappongono di continuo, creando la semplice
apparenza di un ordine, di una logica. Scritto nel 1966 e pubblicato nel 1969 Ubik ci racconta del
quotidiano, dei tormenti sentimentali, delle preoccupazioni, delle crisi di coscienza di un uomo
comune. I morti sopravvivono in un purgatorio tra sprazzi di luce e vita in una tremenda,
malinconica, struggente atmosfera crepuscolare. Non c’è tempo né spazio per l’amore.
Nel rapporto uomo-donna c’è sempre dolore, incomprensione, lacerazione, incertezza. Il fatto è
che nessuno ha un buon rapporto con se stesso e quindi è impossibile costruire un rapporto con gli
altri. Ubik è dunque la Merce, il prodotto reclamizzato, buono per ogni necessità, cuore e sostanza
dell’ideologia capitalista dalla quale nascono talvolta violenti e fatali conflitti tra imprenditori.
Anche la vita dopo la morte è gestita secondo piani commerciali. La sconfitta dell’individuo in
quanto tale è inevitabile. Si può esistere solo nei sogni di un altro dunque qualcuno deve essere in
grado di sognare, di consegnare una memoria del passato e di avere sentimenti di amore. L’eroe
positivo, anche se perdente, irrimediabilmente destinato alla sconfitta è Joe Chip, un tipo impacciato
capace di sogni e affetti, di struggimenti e passioni. Forse lui potrà, anche da fallito, sopravvivere al
naufragio dei valori, e all’affondamento del mitico sogno americano del self made man. Tutti i
personaggi di Dick sono schizofrenici, le loro percezioni sono spezzettate, scisse, instabili, eppure
tutti si adoperano per trovare la via giusta per ricomporsi e sopravvivere. Anche la tecnologia che la
fa da padrona nel nuovo mondo è schizofrenica. Si pone come mezzo di repressione nelle mani di
un potere economico che tutto pianifica e tutto divora ma si rivela come tortura quotidiana per quei
poveracci che, come Joe Chip, combattono lotte disperate con macchine che si rifiutano di
funzionare senza la monetina giusta, o porte venali che non si aprono per lo stesso motivo. Joe
Chip, è un malinconico pellegrino incapace di credere nel mitico sogno americano, inquinato dalla
mediocrità della vita quotidiana, mercificata e priva di ideali, visitato dall’incubo di creature
sovrannaturali, aliene che minacciano di imporre la loro verità maligna. Non accetta quella realtà
che ci dona un quadro rassicurante di cose e persone che nei fatti sono diverse da come sono
presentate. È confuso nel vivere la vita stessa perché il confine tra biologico e artificiale, tra vero e
falso, è labile. Forse non esistiamo come uomini, forse i nostri ricordi ci sono stati innestati, forse
siamo creature di sintesi, senza un Dio che ci aiuti e in cui poter confidare, perché anch’egli è
schizofrenico, ha tanti nomi e tante nature, può essere buono e malvagio.
12
Nel nulla dell’esistenza tutto è inghiottito e azzerato. Dall’abisso in cui si è precipitati non è
possibile risalire. Neppure la morte è reale. In Ubik Dick racconta la semi-vita dei morti: nel
Moratorium, una sorta di pompe funebri ad alto livello tecnologico, un cadavere non muore del
tutto, sa essere attivo, può arrivare perfino a dirigere una multinazionale interplanetaria e può essere
visitato e consultato da amici e parenti di tanto in tanto. Nella sua visionarietà dirompente e
surreale, Dick traduce l’aspetto terrificante del nostro presente, descrivendo con amarissima ironia
la devastazione mentale e materiale che l’umanità sta operando per auto-distruggersi in un
olocausto globale, riflette sulla realtà e sul divino, rappresenta la falsità del potere che si va
riproducendo all’infinito, infine interrogandosi sui confini tra vita biologica e vita riprodotta in
laboratorio, perché ogni metamorfosi sembra ora possibile. È necessario perciò creare una nuova
etica. Gli Androidi, hanno l’aspetto umano e agiscono come uomini. Sono veri o falsi, dobbiamo
trattarli come macchine o come persone, quale fattore definisce umano ciò che vive da quello che
vive una vita programmata? Ma in un certo senso, non siamo forse tutti programmati? Per lui la
nostra realtà è un mondo cieco, infernale, meccanico e implacabile. Ma è un mondo di pura
finzione. Occorre quindi strappare il velo della finzione, per guardare cosa c’è sotto. Dick lo fa. Il
mondo che gli si svela è regolato dal caso e dalla probabilità, il destino dell’uomo è organizzato da
poteri occulti e malvagi, non c’è distinzione tra sogno e vissuto, tra realtà e illusione. La condizione
umana è segnata dall’erranza verso altri mondi, le radici non ci sono più per nessuno. Non ci sono
luoghi del ritorno ma porte, passaggi. Non approdi. L’identità stessa è fluida. Il macrocosmo è rotto
e il trauma infetta la memoria: globale significa dispersione di luoghi e affetti.
Gli androidi sono troppo simili all’uomo; vorrebbero vincere la morte e vivere una vita da uomini;
sono angosciati e melanconici; desiderano sentirsi al sicuro, sono alieni in forma identica all’umana,
non robot al servizio degli uomini, né cinici tecnologici esseri senza sentimenti, pragmatici ed
efficienti. Hanno una coscienza, riflessività, sensibilità e si ribellano al potere degli uomini per
salvaguardare la propria dignità dall’umiliazione di dover vivere da servi. Il mondo non è un
processo del divenire storico ma dell’interagire informatico che azzera il tempo e la storia. Tutti
sono programmati e tutto è previsto. Nessuno ha veri sentimenti. Nessuno è individuo libero.
Nessuno può inventare la propria esistenza.
L’idea di bellezza umana è oggi un corpo ginnico, abbronzato, levigato, frutto di steroidi e
silicone, con muscoli gonfiati e curve perfette grazie alla chirurgia estetica.
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È un cyborg, sempre più somigliante a un modello ideale e inamovibile di perfezione che non
subisce costrizioni o condizionamenti psicologici. Perfetto e algido come un alieno. Donna
Haraway, intellettuale americana e femminista sostiene nel suo celeberrimo A Cyborg Manifesto
(1984) che nel cyborg è la salvezza della storia. È infatti creatura che si muove in un mondo postgender,
senza problemi legati alla sessualità o ai complessi edipici.
Al mito cioè di una madre-fabbrica da cui dobbiamo separarci. A differenza del mostro di
Frankenstein, che reclama una compagna a lui simile e a lui riservata per non essere solo e per
sentirsi normale, completo e cittadino del mondo, il cyborg non è interessato al Paradiso né in cielo
né in terra.
Lui non è fango e non ha la vita per soffio divino. Lui è e basta. È macchina viva. Gli umani sono
inerti. È l’ora di finirla con i dualismi sé/altro, mente/corpo, cultura/natura, civilizzato/primitivo,
vero/falso, Dio/ uomo e così via. Il cyborg è uno, è autonomo, potente, è Dio. Ha la capacità di
riprodursi e rigenerarsi con la sostituzione di pezzi, come le salamandre.
Cyborg è per Donna Haraway un’invenzione fantascientifica che diviene metafora della
condizione umana. È uomo e macchina, individuo asessuato o situato oltre le categorie di genere,
creatura sospesa tra finzione e realtà. La tecnologia dunque ha influenzato la concezione del corpo
che è territorio buono per la sperimentazione e la manipolazione, ha fatto cadere il mito della
naturalità del corpo opposto all’artificialità, e insieme è caduto il sistema di pensiero occidentale
che pensa il corpo solo in termini biologici. Il cyborg è dunque un essere mutante. È l’anamorfosi
dell’uomo-macchina, passato velocemente dalla fantascienza alla realtà. “I would rather be a cyborg
than a goddes”, la frase apodittica con cui sintetizza il suo credo. 24
La Haraway beffardamente, con quella frase, cerca di scuoter via il suo pessimismo di fondo, la
pulsione di morte e d’annullamento del mondo contemporaneo, rifugiandosi nella nuova mitologia
informatica. Fugge dalla estraniazione senza speranza e ripara in una realtà falsa da fumetto pop,
disegnato con linee marcate e nette e dai colori sgargianti.
La realtà è altra.
Prima o poi la minaccia del colpo fatale diverrà reale ed è tanto più terribile e spaventosa perché
senza corpo né volto, fuori dai nostri mezzi di difesa; i capitali concorrenti possono privarci del
posto di lavoro, l’economia è in mano a potenti e misteriose lobbies, i terroristi sono in agguato e
anche i criminali, le epidemie potranno essere spaventose, incurabili. Si vive immersi in quella che
Zygmunt Bauman definiva “paura liquida”, cioè quella nera, vischiosa pozza dove tutti ci sforziamo
di nuotare per rimanere a galla .
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Smarriti e malinconici. Atterriti e stupefatti. Gli aerei che s’infilano nelle due torri gemelle come
pipistrelli, vampiri meccanici, alieni che tutto divorano, distruggono, polverizzano sono l’immagine
di un nemico imprevedibile, la metafora del nemico metafisico, l’incarnazione dell’idea del male.
E temiamo, a volte ne abbiamo certezza, che sia in atto un’apocalisse che distruggerà ogni civiltà,
forse la nostra specie. Il futuro ci appare così come una strada sbarrata, un vicolo cieco dove è
impossibile fuggire. Aspettando la fine ci rinchiudiamo nel nostro intimo, nell’improbabile nostro
privato. Un tempo la melanconia era accostata alla follia, al licantropismo, alla stregoneria, al
vampirismo o anche alla genialità dell’artista che viveva incompreso dai contemporanei, oppure era
lo stato d’animo di alcuni gruppi sociali innovativi, rivoluzionari, eretici, intellettuali, aristocratici
elitari e quanto altro, tutti contrari all’ordine vigente. Oggi segnala uno stato d’animo diverso,
quello che Pascal Bruckner chiama “La mélanconie démocratique” 25, cioè lo sgomento di fronte a
un mondo minacciato da un nemico senza volto e popolato di esseri sedotti e stupefatti, angosciati,
regressivi e inevitabilmente disperati.
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BIBLIOGRAFIA
Segue ordine alfabetico:
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NOTE
1 Z. Bauman, Paura liquida, Laterza, Bari, 2008, p. 4
2 A. Cresti, Angelo, vampiro, cyberpunk, Il Gabbiano, Messina, 1998, p. 80
3 E. Chiti, in AA. VV., Il globale e l’intimo , Morlacchi, Perugia, 2008, p. 39
4 M. Shelley, Frankenstein, La BIT, Milano, 1995, p. 47
5 K. Franceschi, M.Chiarantini, Frankenstein e Livorno, Pochini Ed., Firenze, 2007, p. 21
6 Z. Bauman, Ivi p. 9
7 In questo contesto è esemplare il lavoro della performer Orlan, che fa del suo corpo un luogo di operazioni
(chirurgiche) da lei ritenute artistiche. L’artista si sottopone a operazioni di chirurgia estetica che fa filmare
in video ed esibisce negli spettacoli, come testimonianza della “manipolabilità” della carne. Ancora una
volta ripropone la menzogna estrema, l’identificazione arte-vita.
Stelarc, altro performer si è fatto innestare una protesi tecnologica sull’avambraccio, ingoia piccoli robot
che gli scrutano gli intestini, usa occhiali laser. Il corpo territorio di frontiera della scienza ora lo è anche
dell’arte. La riflessione conseguente è che nel mondo delle cose che sentono – noi – il corpo ha ormai
perduto traccia di inviolabilità e naturalità; la riproduzione è ingegneria genetica, la natura è sconfitta.
8 R. Matheson, I am legend, Fanucci, Roma, 2008
9 R. Matheson, Ivi, p. 13
10 R. Matheson, Ivi, p. 17
11 R. Matheson, Ivi, p. 31
12 R. Matheson, Ivi, p. 40
13 R. Matheson, Ivi, p. 202
14 V. Evangelisti, La leggenda Matheson, postfazione a I am legend, Fanucci, Roma, 2008, p. 209
15 S. Fanucci, Matheson, e pensare che a me…,in Il Venerdi 1046, 4 aprile 2008, p. 119
16 R. Matheson, Duel , in Playboy numero di aprile 1971
17 R. Matheson, Ibid
18 A. Cresti, Angelo, vampiro, cyberpunk, Il Gabbiano, Messina, 1998, p. 70
19 P. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2007, p. 38
20 P. Dick, Ivi, p. 146
21 P. Dick, Ivi,p. 155
22 P. Dick, Ivi,p. 155
23 P. Dick, Ivi,p. 200
24 D. Haraway, Donne, tecnologia e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1995
25 P. Bruckner, La mèlanconie dèmocratique, Laterza, Bari, 1994, p.25
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FILMOGRAFIA DI RIFERIMENTO
Segue ordine cronologico:
V. Ragona, L’ultimo uomo sulla terra, 1963
G. Romero, La notte dei morti viventi, 1968
B. Sagal, 1975-Occhi bianchi sul pianeta terra, 1971
R. Scott, Alien, 1979
R. Scott, Blade Runner, 1982
W. Herzog, Nosferatu, 1990
N. Jordan, Intervista con il vampiro,1996
R. Linklater, A scanner darkly, 2006
LINK
Segue ordine alfabetico:
http://it.wikipedia.org/wiki/Io_sono_leggenda
http://it.wikipedia.org/wiki/Donna_Haraway
http://it.wikipedia.org/wiki/Philip_K._Dick
http://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Matheson
http://it.wikipedia.org/wiki/Valerio_Evangelisti
http://www.ursulakleguin.com